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TESS ha scoperto due giovani sistemi planetari

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Gli astronomi hanno scoperto due sistemi planetari estremamente giovani grazie ai dati raccolti dal Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS) della NASA. Le stelle appena scoperte, denominate TOI-251 e TOI-942, non hanno più di 320 milioni di anni, e ospitano esopianeti detti mini-Nettuno. La scoperta è riportata in un documento pubblicato il 26 novembre su arXiv.org. I dati mostrano che anche stelle molto giovani possono ospitare pianeti.
Il telescopio spaziale TESS è impegnato in un sondaggio su circa 200.000 tra i più brillanti stelle nei pressi del Sistema Solare con l’obiettivo di trovare e catalogare esopianeti in transito. Finora TESS ha identificato oltre 2.400 esopianeti candidati (TESS Objects of Interest, o TOI), di cui ne sono stati confermati finora un esiguo numero, solo 82.
Un team di astronomi guidato da George Zhou dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics (CfA) di Cambridge, Massachusetts, di recente ha confermato tre pianeti. Tra agosto e dicembre 2018, TESS ha osservato due stelle denominate: TIC 224225541 (TOI-251) e TIC 146520535 (TOI-942), che hanno portato alla scoperta dei segnali di transito nelle curve di luce di questi oggetti. La natura planetaria di questi segnali è stata confermata da osservazioni fotometriche e spettroscopiche di follow-up utilizzando strumenti basati a terra.
Gli astronomi hanno scritto nello studio che:
“TOI-251 e TOI-942 sono due stelle che mostrano firme fotometriche e spettroscopiche che ne stabiliscono la loro estrema giovinezza, ospitando inoltre pianeti simili a Nettuno che sono stati identificati dalle osservazioni di transito dal telescopio spaziale TESS”.
TOI-251 e una stella di tipo G come il nostro Sole e con massa paragonabile. Il suo raggio di pari a circa 0,88 raggi solari, e si trova a una distanza di circa 324 anni luce dal Sistema Solare. La stella ha un periodo di rotazione di 3,84 giorni, una temperatura effettiva di circa 5,875 K e un’età stimata tra 40 e 320 milioni di anni.
Le osservazioni di TESS hanno scoperto che attorno a TOI-251 orbita un mini-Nettuno in 4,94 giorni Il pianeta si trova a una distanza di circa 0,06 UA dalla stella ospite, quindi estremamente vicino. L’esopianeta, denominato TOI-251b, è circa 2,74 volte più grande di Giove, ma con una massa simile.
TOI-942 invece è una stella di tipo K che si trova a circa 498 anni luce dal Sistema Solare. La stella ha all’incirca le dimensioni del Sole, con una massa inferiore del 21%. La sua temperatura effettiva è pari a 4.928 K e il suo periodo di rotazione è pari a circa 3,4 giorni. Si stima che l’età di TOI-942 sia compresa tra 20 e 160 milioni di anni, anche questa stella è estremamente giovane. Secondo lo studio, attorno alla stella orbitano due pianeti giganti delle dimensioni di Nettuno denominati rispettivamente TOI-942b e TOI-942c.
TOI-942b è circa 4,81 volte più grande di Giove con una massa di circa 2,6 masse Gioviane. Orbita attorno alla sua stella madre ogni 4,32 giorni, a una distanza di circa 0,05 UA. TOI-942c ha un raggio di 5,79 raggi Gioviani e si stima che la sua massa sia inferiore a 2,5 masse Gioviane. L’esopianeta ha un periodo orbitale di circa 10,16 giorni ed distante dalla stella ospite circa 0,08 UA, anche questo esopianeta percorre un’orbita molto stretta attorno alla sua stella madre.
Il nostro pianeta orbita attorno al Sole a una distanza di circa 150 milioni di Km. Tale distanza è definita UA o Unità astronomica, il metro di misura che gli astronomi utilizzano per calcolare le distanze all’interno del Sistema Solare. Tutti i pianeti scoperti sono distanti una frazione di UA, quindi probabilmente risentono dell‘effetto mareale mostrando sempre lo stesso emisfero alla stella ospite.
Questi pianeti extrasolari non sono certamente in grado di mantenere l’acqua liquida in superficie o ospitare la vita come la conosciamo, tuttavia ci mostrano quanto presto i sistemi planetari si formano e quanto siano diversi dal Sistema Solare, che è estremamente più vecchio.

Gli astronomi hanno sottolineato che le due stelle TOI-251 e TOI-942 sono buoni esempi di giovani stelle che ospitano pianeti che possono contribuire in modo significativo a caratterizzare la relazione tra le proprietà dei pianeti e la loro età.
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Alle origini della domesticazione del cane

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Il rapporto tra uomo è cane è antichissimo e probabilmente la sua domesticazione è avvenuta ben prima degli 11.000/12.000 anni fa per i quali esistono ritrovamenti fossili inoppugnabili. Lo studio di un cranio di “canide simile a un cane”, un proto-cane geneticamente analizzato e più vicino al cane moderno che non al lupo dell’epoca, rinvenuto nei monti Altaj in Siberia, nel sito paleolitico Eliseevichi-1 nella regione Bryansk della Russia centrale, presso un insediamento umano, una capanna eretta con ossa di mammut risalente ad oltre 33.000 anni fa, ha retrodatato di molte migliaia di anni la domesticazione dei primi proto-cani.
Lo studio dei genomi canini rappresenta la frontiera più avanzata per rispondere ai molti punti ancora oscuri. La ricerca genetica però è ostacolata dal fatto che le razze canine attuali hanno perso molta della loro diversità originale ed i genomi antichi disponibili sono solo sei.
Adesso un vasto gruppo di ricerca internazionale coordinato dal Francis Crick Institute di Londra è riuscito a sequenziarne altri ventisette. I risultati pubblicati su “Science” indicano che 11.000 anni fa i cani erano già divisi in almeno cinque linee diverse, sparse per tutta l’Eurasia.
Questo rafforza la convinzione che la domesticazione sia avvenuta molto prima, anche se lo studio non è in grado di dirci dove e quando. A differenza di altri animali, come ad esempio i maiali, i cani odierni derivano da un unico antenato comune.
Molte delle loro migrazioni ricalcano quelle degli esseri umani, come ad esempio quella degli agricoltori che 10.000 anni fa, dalla Mezzaluna fertile si spostarono in Europa, con al seguito i loro cani. Altre volte le storie divergono. Ad esempio 4.000 anni fa i cani europei hanno subito una forte contrazione della diversità non legata a spostamenti umani. I motivi non ci sono noti, la causa potrebbe essere stata una conseguenza di malattie canine o cambiamenti culturali umani che hanno privilegiato nuove razze.
Anche alcuni adattamenti evolutivi sottolineano la stretta relazione tra uomo e cane, ad esempio un gene per l’amilasi, che digerisce gli amidi, si è espanso nei nostri e nei loro antenati, in seguito ad una variazione della dieta alimentare, anche se negli umani si sono moltiplicate le copie dell’enzima salivare, mentre nei cani quello pancreatico.
Per svelare finalmente quando e dove è avvenuta la domesticazione del “miglior amico dell’uomo” occorreranno però molti altri genomi antichi.
fonte:
alcune voci di Wikipedia
Le Scienze, dicembre 2020, ed. cartacea

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Siamo giunti all’alba della rivoluzione delle cellule staminali?

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Da oltre vent’anni gli esperti affermano che un giorno le cellule staminali rivoluzioneranno la medicina.
Mentre le cellule staminali adulte sono state a lungo utilizzate per trattare alcuni disturbi del sangue e del sistema immunitario, la ricerca si è concentrata su due varietà più versatili: le cellule staminali embrionali (ESC) e le cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC), che possono essere entrambe trasformate in qualsiasi tipo di cellula del corpo. Finora, tuttavia, nessuno è riuscito a tradurre quel potenziale in una terapia pratica.

Nel 2020, alcune scoperte hanno fatto pensare che la rivoluzione potrebbe finalmente essere vicina. Una notizia è arrivata a maggio, quando il New England Journal of Medicine ha pubblicato il primo caso clinico di uno studio che utilizzava cellule staminali mirate al trattamento del morbo di Parkinson, una condizione debilitante, che colpisce 10 milioni di persone in tutto il mondo, deriva principalmente dalla perdita dei neuroni che producono il neurotrasmettitore dopamina. I trattamenti oggi esistenti hanno avuto un successo limitato. I ricercatori mirano a sostituire i neuroni morenti con quelli sani coltivati ​​in laboratorio e il documento NEJM sembra essere la via giusta.

 
Gli autori, guidati dal neurochirurgo Jeffrey Schweitzer del Massachusetts General Hospital e dal neurobiologo Kwang-Soo Kim del McLean Hospital, hanno usato quelli che sono noti come iPSC autologhi. Gli iPSG autologhi sono cellule staminali generate dalle cellule mature del ricevente, il che riduce notevolmente la probabilità che siano necessari immunosoppressori per prevenire il rigetto. Il team ha raccolto le cellule della pelle di un uomo di 69 anni e le ha riprogrammate in iPSC. Hanno quindi guidato le cellule staminali ad assumere le caratteristiche dei neuroni dopaminergici, che hanno impiantato nel putamen del paziente, una regione del cervello coinvolta nel Parkinson. Per un periodo di 24 mesi, le scansioni PET hanno mostrato prove che le nuove cellule erano funzionali. I sintomi motori e la qualità della vita dell’uomo sono migliorati, mentre il suo fabbisogno giornaliero di farmaci è diminuito.
“Questo rappresenta una pietra miliare nella ‘medicina personalizzata’ per il Parkinson”, ha scritto Kim in una dichiarazione.
Kim sottolinea però che un singolo caso di studio è solo l’inizio. Saranno necessarie molte più ricerche, inclusi studi clinici su vasta scala attentamente controllati, per stabilire la sicurezza e l’efficacia della tecnica del suo team. “Tuttavia”, aggiunge, “credo che questo studio sia estremamente incoraggiante e informativo”. Lui e i suoi colleghi hanno in programma di lanciare la sperimentazione entro la fine del 2022. Nel frattempo, altri studi sull’uomo che utilizzano iPSC o ESC sono pianificati o in corso in diversi centri medici in tutto il mondo.
Le cellule staminali hanno inoltre dimostrato poteri salvavita per un bambino di 6 giorni in Giappone che ha ricevuto il primo trapianto di successo al mondo di cellule epatiche coltivate su misura. Il bambino (il cui sesso non è stato reso pubblico) è nato con un disturbo del ciclo dell’urea, una condizione genetica in cui al fegato manca un enzima che aiuta a scomporre l’azoto in urea. Senza di essa, l’ammoniaca si accumula nel flusso sanguigno con risultati che potrebbero essere fatali. In questi casi è necessario un trapianto di fegato, ma non può essere eseguito fino a quando il bambino non compie alcuni mesi, il che potrebbe essere troppo tardi. Le cellule del fegato chiamate epatociti a volte possono essere trapiantate come “trattamento ponte“, ma le forniture sono scarse in Giappone a causa dei bassi tassi di donazione di organi.
I medici del Centro nazionale per la salute e lo sviluppo infantile hanno utilizzato le ESC per far crescere gli epatociti, quindi ne hanno iniettati 190 milioni nel fegato del bambino. A maggio, il team ha riferito che le cellule trapiantate avevano mantenuto i livelli di ammoniaca nel sangue normali per sei mesi, fino a quando il bambino non ha ricevuto un trapianto di fegato da suo padre.
Alcune delle notizie pubblicate quest’anno sono state controverse. A gennaio, un team guidato dal chirurgo dell’Università di Osaka Yoshiki Sawa ha riferito di aver eseguito il primo trapianto di successo di cardiomiociti derivati ​​da iPSC – cellule del muscolo cardiaco – in un paziente. Il ricevente, che aveva un danno al muscolo cardiaco causato da un’arteria ostruita, è stato impiantato con un foglio biodegradabile contenente 100 milioni di cellule. I ricercatori, che hanno utilizzato iPSC allogenici derivati ​​da cellule di un donatore, hanno pianificato di monitorare il paziente nel prossimo anno e alla fine provare la procedura su altri nove pazienti.
A maggio, tuttavia, un chirurgo cinese ha contestato che Sawa fosse stato il primo a eseguire un trapianto del genere. Wang Dongjin del Nanjing Drum Tower Hospital ha detto alla rivista Nature che il suo team aveva impiantato due uomini con cardiomiociti derivati ​​da iPSC allogenici un anno prima.
Non sappiamo quale squadra ha vinto la gara, ma entrambi gli esperimenti lasciano grandi punti interrogativi. Sebbene gli studi sugli animali abbiano mostrato risultati promettenti per i cardiomiociti derivati ​​da iPSC, Sawa non pensa che le cellule impiantate si integrino con il tessuto cardiaco del ricevente. Invece, ipotizza, possono stimolare la guarigione rilasciando fattori di crescita. Se è così, dicono i critici di Sawa, sarebbe più sicuro identificare quelle proteine ​​rigenerative e somministrarle in un modo meno rischioso, attraverso un’iniezione.

L’esperimento di Wang è stato confuso dal fatto che entrambi i pazienti hanno subito un intervento chirurgico di bypass cardiaco insieme alle nuove cellule. Come ha osservato il patologo dell’Università di Washington Charles Murry sulla rivista Nature, “Se fai due cose a qualcuno e questo migliora, non puoi dire quale sia la causa”.

               

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Macchia solare: l’immagine dettagliata del telescopio Inouye

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Il telescopio Daniel Inouye, considerato il più grande osservatorio solare dell’intero pianeta, ha catturato un’immagine dettagliata di una macchia solare. La foto è stata scattata lo scorso 28 gennaio, ma solamente nelle ultime ore è stata resa nota, assieme a un nuovo articolo di Thomas Rimmele. Quest’ultimo è responsabile della costruzione e del buon funzionamento del telescopio Inouye, nonché direttore associato del NSO (National Solar Observatory). La macchia solare è larga 16.000 chilometri, così estesa da poter inghiottire il nostro pianeta. La Terra, infatti, ha un diametro all’equatore pari a “soli” 12.754 chilometri. Le strutture più piccole nell’immagine hanno dimensioni che raggiungono i venti chilometri. La macchia in questione è visibile come immagine in evidenza dell’articolo. 

Macchia solare: i commenti di Rimmele

Thomas Rimmele ha affermato: “L’immagine delle macchie solari raggiunge una risoluzione ottica di circa 2,5 volte superiore rispetto al passato, mostrando strutture magnetiche di appena 20 chilometri sulla superficie del Sole”. Gli scienziati hanno detto che non si tratta di una semplice foto di una macchia solare, in quanto l’immagine rivela i particolari di come la sua struttura appaia in superficie. Si nota come gas caldo e freddo emerga dal centro più scuro della macchia. Il fenomeno è spiegabile come una convergenza di gas caldi bollenti dal basso e forti campi magnetici. A chiarire il tutto sono stati gli autori dello studio all’interno di un comunicato stampa pubblicato dal National Solar Observatory. 

Il calore del Sole non raggiunge la superficie

Si pensi che i campi magnetici ampiamente concentrati in tale zona scura della macchia solare, inoltre, non permette al calore del Sole di raggiungere la superficie. Tale regione è più fredda e oscura rispetto all’area circostante della stella. Nonostante tutto il calore è estremamente elevato. La temperatura della macchia solare raggiungerebbe, infatti, i  4.149 gradi Celsius. Nel dicembre 2019 il Sole ha raggiunto il periodo in cui le macchie solari sono al minimo nel suo ciclo di 11 anni. Tale fenomeno è conosciuto come “minimo solare”. La macchia solare catturata dal telescopio Daniel Inouye è stata una dei primi appartenenti al nuovo ciclo, la cui massima attività è prevista intorno alla metà del 2025. La foto dettagliata dell’immensa macchia solare è un passo in più nello studio del Sole. 

Che cos’è una macchia solare?

Le macchie solari furono scoperte nel 1610 da Galileo Galilei. In un primo momento, una macchia appare sulla superficie del Sole tramite le sembianze di un piccolo “neo”, debolmente percettibile. Nel corso dei giorni, tali “pori” iniziano a evolversi, sviluppandosi, allargandosi e moltiplicandosi. I vari pori tendono a fondersi tra loro dando luogo a un gruppo di macchie che vanno a scomparire per lasciare posto ad altre. Il fenomeno della comparsa di macchie solari sulla superficie solare si ripete a livello periodico e prende il nome di “ciclo delle macchie”. Le macchie solari altri non sono che punti più “freddi” della corona solare. Esse sono caratterizzate da un’attività magnetica elevata. A causa di tali caratteristiche queste parti della fotosfera solare assumono il loro tipico colorito più scuro, almeno agli occhi dell’osservatore. In verità le macchie solari non sono affatto di colore nero. 

Nella realtà dei fatti le macchie solari sono di un luminoso intenso e, nonostante siano caratterizzate da temperature inferiori rispetto alle altre aree della nostra stella, possiedono comunque temperature pari perlopiù a 5.000 kelvin. Ciò che le rende più scure è il contrasto con le altre regioni più calde del Sole, che raggiungono i 6.000 kelvin. La scoperta di Galileo Galilei risultò molto pericolosa per la chiesa. Il Sole, infatti, rappresenta la massima Luce, ovvero Dio, e la presenza di macchie solari era concepita come una serie di impurità sulla superficie del nostro astro. È scientificamente dimostrato come macchie solari e radiazione solare siano due fenomeni correlati. 

FONTI:

https://www.ecoage.it/macchie-solari.htm

http://stelle.bo.astro.it/archivio/2004.06.08-transito-venere/Sole-Pianeti/sun/maculae.htm

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NORJAK: il dirottamento misterioso del volo 305

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Il 24 novembre 1971 un uomo (soprannominato in seguito D.B. Cooper) dirotta il volo 305 Northwest Orient, diretto da Portland a Seattle, chiedendo un riscatto di 200.000 dollari. Sebbene l’FBI abbia dedicato enormi sforzi a scoprire chi fosse, l’uomo misterioso è sfuggito alla cattura guadagnandosi un posto nelle cronache del crimine come l’autore dell’unico dirottamento irrisolto degli Stati Uniti.

Un tranquillo passeggero

L’uomo, distinto ed elegante, che siede da solo al posto 18C del Boeing 727, ordina un bourbon-soda pochi minuti prima del decollo. Come viene descritto più tardi dagli assistenti di volo, è un uomo sui quarant’anni, educato, che fuma una sigaretta dopo l’altra (a quei tempi non c’era divieto di fumo a bordo degli aerei). Alto circa un metro e settantacinque – un metro e ottanta, ha una corporatura snella ed è elegantemente vestito con un completo sartoriale, camicia e cravatta con fermacravatta: ha l’aria di un professionista.

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L’identikit di D.B. Cooper

Il suo biglietto è intestato “Dan Cooper”. In seguito un giornale  riporta il suo nome per errore come “D.B. Cooper “, e questo è il nome con cui è ancora conosciuto oggi.
Durante il viaggio, mentre l’assistente di volo Florence Schaffner gli passa accanto, Cooper le consegna con discrezione un pezzetto di carta. Non è la prima volta che la hostess riceve questo genere di messaggi da uomini che chiedono un appuntamento, quindi finge di ignorarlo, ma il passeggero insiste perché lo legga.
Il biglietto dice: «Ho una bomba nella mia valigetta. La userò, se necessario. Voglio che si sieda accanto a me. State per essere dirottati» . Davanti alla giovane allibita, l’uomo apre la sua valigetta nera, e le mostra dei cilindri rossi, una batteria e alcuni fili.
Cooper detta a Florence una richiesta di riscatto e la obbliga a scriverla su di un pezzo di carta, quindi le ordina di consegnarla al capitano; la ragazza ubbidisce e porta il biglietto in cabina di pilotaggio. Il capitano William Scott legge una richiesta di ben 200.000 dollari (più di un milione di oggi) in contanti, e quattro paracadute.

Pericolo a bordo

Scott contatta immediatamente la Northwest Orient Airlines segnalando l’incidente. La società accetta di pagare; i soldi saranno disponibili presso l’aeroporto di Seattle. Poiché Cooper richiede quattro paracadute, le autorità pensano che intenda prendere delle persone in ostaggio: le attrezzature quindi non vengono manomesse.
All’atterraggio all’aeroporto di Seattle il responsabile della Northwest Orient consegna all’assistente di volo Tina Mucklow i contanti e i paracadute: appena li riceve l’uomo misterioso permette ai 35 passeggeri e alle due assistenti di volo di scendere dall’aereo.

Piani di volo

Dopo che il velivolo ha fatto rifornimento, D.B. Cooper annuncia ai piloti la sua intenzione di andare fino a Città del Messico, ma il capitano Scott lo dissuade: non è possibile raggiungere il Messico con un solo serbatoio di carburante. L’uomo allora acconsente a fare scalo a Reno, nel Nevada.
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Bisogna ripartire: Cooper vorrebbe che l’aereo decollasse con la porta posteriore aperta e la scaletta abbassata, ma il pilota lo sconsiglia: è troppo pericoloso. Cooper acconsente e l’aereo decolla.
D.B. Cooper insiste col pilota: l’aereo deve viaggiare intorno alle 200 miglia all’ora e non superare mai i 10.000 piedi di altitudine: il dirottatore sa che queste sono la velocità e l’altitudine minima alla quale un 727 può volare senza andare in stallo.
I piloti, in seguito, testimonieranno che D.B. Cooper dimostra un alto livello di competenza tecnica, cosa che fa pensare agli investigatori di trovarsi di fronte ad un uomo con un’esperienza come pilota; inoltre è calmo e tranquillo, mai nervoso, quindi si pensa che possa essere un ex soldato o un veterano delle forze speciali.
D.B. Cooper  siede al suo posto con la valigetta e i paracadute accanto a sè, e ordina ai piloti di rimanere nella cabina di pilotaggio chiudendo la tenda che la isola dalla prima classe.

Il dirottatore scompare

Quando il volo Northwest Orient 305 atterra a Reno, i piloti chiedono ulteriori istruzioni al dirottatore attraverso il sistema di diffusione sonora non ricevendo risposta. Si precipitano: D.B. Cooper è sparito, insieme alla valigetta: sul sedile restano solamente la sua cravatta e due dei paracadute. La scaletta è abbassata: il dirottatore si è lanciato da qualche parte tra Seattle e Reno.
All’epoca, tra il 1968 e il 1972, i dirottamenti sono comunissimi negli USA: ne accade quasi uno alla settimana, ma quello di D.B. Cooper, che l’FBI classifica sotto la sigla NORJAK, è il più strano di tutti.
Del caso NORJAK non si parla più fino al 1980, quando sulle rive del fiume Columbia a Portland un bambino di nome Brian Ingram trova circa seimila dollari in banconote da venti molto deteriorate. L’FBI stabilisce che il denaro proviene dal riscatto dato a D.B. Cooper nel 1971.

Indagini a 360 gradi

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Alcune banconote ritrovate, il biglietto e la cravatta di D.B. Cooper

L’FBI indaga su oltre 1.000 persone sospette. Il dirottatore sembra avere esperienza nel paracadutismo, e anche la sua competenza tecnica appare troppo sviluppata per un semplice civile.
L’FBI pensa di aver fatto una passo importante quando riceve una lettera da una donna che ha notato una grande somiglianza tra l’identikit di Cooper e il marito scomparso da casa. Anche se sembra promettente, malgrado tutte le ricerche l’uomo non viene mai ritrovato.
Viene interrogato un altro sospetto, un veterano della guerra del Vietnam che, durante l’interrogatorio, ammette di essere il dirottatore: ci si rende conto, però, che l’uomo è un malato di mente. Stranamente, molti altri uomini si fanno avanti durante le indagini dichiarando di essere D.B. Cooper, ma si tratta di mitomani.

The Real McCoy

Due ex agenti federali, Russel Calame e Bernie Rhodes, nel 1991 scrivono un libro intitolato D.B. Cooper, The Real McCoy, avanzando l’ipotesi che il veterano del Vietnam Richard McCoy, che dirotta un aereo appena quattro mesi dopo l’incidente del volo 305 della Northwest Orient, sia in realtà il dirottatore NORJAK.
McCoy ha partecipato alla guerra del Vietnam come pilota di elicotteri ricevendo numerose medaglie, tra cui un Purple Heart nel 1964. E’ anche un abile paracadutista. Quando ha dirottato il volo United 355, un Boeing 727 diretto dal New Jersey a Los Angeles, il 7 aprile 1972, il suo modus operandi è simile a quello di Cooper.
Sfortunatamente, l’FBI non può perseguire McCoy per il caso NORJAK perché l’uomo ha un alibi che lo colloca a a Las Vegas al momento dell’incidente.  Dopo essere stato condannato a 45 anni di prigione, McCoy evade nel 1974, e muore in uno scontro a fuoco con gli agenti dell’FBI.

Altri sospetti

Un altro sospetto è  Robert Rackstraw. Si tratta di un individuo che si adatta perfettamente alla descrizione di D.B. Cooper. Un aviatore decorato nella guerra del Vietnam, Rackstraw è in seguito congedato per una serie di reati che includono missioni e lanci con il paracadute non autorizzati. Nel 1978 è accusato di aver ucciso il suo patrigno, ma in seguito viene assolto per insufficienza di prove.
Al di là di questo, il suo volto ha ben nove punti in comune con l’identikit. L’FBI è convinta di trovarsi di fronte al dirottatore e compone una squadra di quaranta agenti per indagare su di lui: viene interrogato più volte nel corso degli anni settanta, ottenendo solo risposte vaghe e spesso contraddittorie.
Malgrado tutti gli sforzi, si scoprono soltanto casi in cui Robert si è presentato come un nobile svizzero o qualche altro personaggio illustre allo scopo di truffare qualcuno. Di conseguenza, si conclude che l’uomo è poco più di un truffatore itinerante. Nel 2019, Robert Rackstraw muore per un attacco cardiaco.

D.B. Cooper è sopravvissuto?

L’agente speciale dell’FBI Larry Carr, che ha guidato il caso NORJAK dal 2007 al 2010, crede che Cooper probabilmente non sia sopravvissuto al salto dall’aereo. Secondo lui lanciarsi col paracadute in una notte piovosa con scarsa visibilità sarebbe stato estremamente pericoloso a causa del vento contrario di circa 100 km/h e dell’abbigliamento inadatto (mocassini e un trench).
Durante le indagini l’agente Carr trova informazioni interessanti. Al momento del dirottamento, un fumetto franco-belga chiamato Dan Cooper era popolare in Europa. Il personaggio principale, Dan Cooper, è un pilota collaudatore della Royal Airforce canadese che affronta una varietà di avventure su aerei e missili spaziali.
Carr ipotizza che il dirottatore conoscesse questi fumetti e possa aver adottato l’identità del protagonista. Ciò rafforza la sua teoria che il dirottatore del volo 305 era stato nell’Air Force e forse era di stanza in Europa; purtroppo, anche questa pista non approda a niente di concreto.
Nel 2016, l’FBI abbandona le indagini sul caso NORJAK.

Conclusione

Il dirottamento del Northwestern Orient Flight 305 ha lasciato un segno notevole nella cultura americana. Oltre ai documentari basati direttamente sull’evento stesso, diverse serie TV recenti fanno riferimento al famoso dirottatore, tra cui “Prison Break” e “The Blacklist”. È interessante notare che nella sceneggiatura originale di “Mad Men” si parlava di rivelare il protagonista Don Draper come D.B. Coooper. Questo avrebbe potuto fondersi bene con la sua oscura storia passata.

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Cambiamento climatico? Alcuni atolli sono cresciuti e gli scienziati spiegano perché

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Un nuovo studio pubblicato recentemente ha esaminato l’evoluzione di Jeh Island, un atollo scarsamente popolato, che fa parte delle Isole Marshall, una nazione del Pacifico composta da una remota catena di atolli corallini e isole vulcaniche tra le Filippine e le Hawaii.

I ricercatori hanno scoperto che l’area terrestre dell’isola è aumentata del 13% dal 1943 a causa di un accumulo di sedimenti dalla barriera corallina esistente. Barriere coralline sane producono naturalmente sedimenti ed in effetti è di questo che sono fatti gli atolli.

Gli atolli anziché scomparire crescono di massa

È ancora possibile vedere un’isola crescere in un momento in cui la maggior parte delle persone e la maggior parte dei modelli suggerirebbero che dovrebbe essere erosa“, ha detto il coautore dello studio Murray Ford, esperto di sistemi di isole della barriera corallina del Pacifico dell’Università di Auckland.

Ford e Paul Kench, della Simon Fraser University in Canada, hanno confrontato la massa terrestre dell’isola in foto aeree del 1943 e del 2015. Hanno anche depositato sedimenti con datazione al radiocarbonio per scoprire quando i resti di corallo erano vivi. Hanno così scoperto che quei sedimenti su parti dell’isola, erano stati depositati dopo il 1950, suggerendo che la crescita dell’isola è relativamente nuova.

Allo stesso tempo, il livello globale del mare è aumentato. I dati satellitari mostrano che le acque intorno alle Isole Marshall sono aumentate di circa 7 millimetri ogni anno dal 1993, secondo un rapporto del paese della Pacific Climate Change Science . È più della media globale da 2,8 a 3,6 millimetri all’anno.

Le isole sono resistenti all’innalzamento del mare

Il nuovo studio è significativo perché mostra che le isole possono continuare a crescere, anche quando il livello del mare è in aumento.

A tal proposito Ford ha affermato: “Abbiamo scoperto che le isole sono resistenti all’innalzamento del mare e che l’apporto di sedimenti ad alcuni atolli sta superando l’innalzamento del livello del mare. Quello che non sappiamo è come andrà a finire nei prossimi decenni“.

Cosa sta succedendo?

Gli atolli sono spesso solo circa due metri sul livello del mare, ma il livello del mare potrebbe aumentare di più entro la fine di questo secolo, secondo gli scienziati . Il livello del mare sta aumentando perché le emissioni di gas serra stanno riscaldando gli oceani e il pianeta, sciogliendo le calotte polari e i ghiacciai.

Uno studio del 2018 del US Geological Survey ha rilevato che molti atolli bassi saranno inabitabili entro la metà di questo secolo.

E l’anno scorso, il presidente della Banca asiatica per lo sviluppo, Takehiko Nakao, ha affermato che le quattro nazioni atolli, Isole Marshall, Tuvalu, Kiribati e Maldive, che insieme ospitano oltre mezzo milione di persone, sono le più vulnerabili del pianeta al cambiamento climatico.

Per le nazioni degli atolli, il cambiamento climatico non è una minaccia lontana per una generazione futura, ma un’emergenza immediata, con tempeste tropicali e mare in aumento che mettono a dura prova vite umane, mezzi di sussistenza e infrastrutture“, ha detto Nakao.

Nessun atollo ha perso la superficie terrestre

Ma negli ultimi dieci anni, una serie di studi ha scoperto che alcuni atolli stanno effettivamente diventando più grandi. Uno studio del 2010 ha mostrato che alcune isole del Pacifico non si erano erose e uno studio del 2018 su 30 atolli del Pacifico e dell’Oceano Indiano, tra cui 709 isole, ha scoperto che nessun atollo aveva perso la superficie terrestre. Secondo lo studio, più dell’88% delle isole erano stabili o aumentate di superficie.

Ford afferma che il suo studio è il primo non solo a mostrare un’isola in aumento di dimensioni, a anche a stabilire in modo definitivo perché ciò potrebbe accadere naturalmente nel tempo.

Questa è la prima volta che possiamo vedere la forma delle isole, e l’aumento di massa proviene dalla barriera corallina intorno all’isola: sono interamente gli scheletri della barriera corallina e gli organismi che vivono su di essa“, ha detto Ford.

Cosa significa questo per le isole?

Il fatto che alcune isole non stiano “affondando” non significa che il cambiamento climatico non sia un problema.

Una ricerca pubblicata a settembre dagli scienziati dell’Università delle Hawaii a Manoa mostra che le isole degli atolli affrontano una serie di minacce derivanti dall’innalzamento del livello del mare. Con l’innalzamento del livello del mare, le isole potrebbero subire inondazioni più frequenti che potrebbero deteriorare le riserve di acqua dolce e rendere gli atolli inabitabili. Le maree estreme potrebbero anche causare l’erosione costiera.

E gli scienziati non sanno con certezza se gli atolli continueranno a produrre sedimenti a una velocità tale da rimanere sopra il livello del mare, ma i ricercatori dell’Università delle Hawaii hanno stimato che gli atolli subiranno un impatto diverso, a seconda della loro elevazione.

Anche all’interno di una nazione, ci sono differenze nel modo in cui le isole risponderanno“, ha detto Haunani Kane, studioso di geologia e geofisica. E questo può essere difficile da prevedere.

Gli atolli sono formati dai sedimenti della barriera corallina, ma le barriere coralline potrebbero non continuare a produrre gli stessi livelli di sedimenti in futuro se l’ecologia della barriera corallina ne risente.

Il problema dell’inquinamento

La ricerca mostra che il cambiamento climatico sta già avendo un enorme impatto sulle barriere coralline: uno studio presentato all’inizio di quest’anno ha stimato che circa il 70-90% di tutte le barriere coralline esistenti dovrebbe scomparire nei prossimi 20 anni a causa del riscaldamento degli oceani, dell’acqua acida e inquinamento.

Ciò che accadrà in futuro all’ecologia della barriera corallina è un fattore determinante per ciò che accadrà all’ecologia dell’isola in futuro“, ha affermato Ford spiegando che gli scienziati non comprendono ancora le scale temporali: se una barriera corallina morisse oggi, ad esempio, non è chiaro se ci vorrebbe un anno o un decennio o più perché abbia un effetto sui livelli di sedimenti prodotti.

Come vivono gli abitanti delle isole

Ma per le persone che vivono sulle isole, il fatto che la massa terrestre stia crescendo potrebbe non alleviare le loro paure di perdere la loro casa a causa del cambiamento climatico. Secondo Ford, la maggior parte delle persone che vivono sugli atolli vive in parti delle isole che sono state modificate o sviluppate dalle persone. È improbabile che le strutture artificiali subiscano un accumulo naturale di sedimenti, in parte a causa della loro costruzione e del desiderio dei residenti di mantenerle.

Non tollereranno il lavaggio della sabbia sulla superficie dell’isola e l’interruzione delle loro attività. Ma i residenti possono imparare dal processo naturale“, ha detto Ford che ha infine concluso spiegand che:  “In un certo senso, la natura sta fornendo un modello per come adattarsi all’innalzamento del livello del mare, ovvero sta suggerendo di costruire le isole più in alto attraverso l’acquisizione di sedimenti. È una buona notizia da quella prospettiva, ma di sicuro non aiuta le persone sulle isole popolate“.

Fonte: https://edition.cnn.com/2020/12/06/asia/pacific-islands-growing-intl-dst-hnk/index.html

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Alaska, le isole farebbero parte di un unico gigantesco vulcano

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Le isole dell’Alaska potrebbero essere parte di un unico, enorme vulcano, una gigantesca caldera situata al largo delle coste dell’Alaska meridionale, che in passato avrebbe provocato un’esplosione talmente grande, da far sembrare cosa da poco la disastrosa eruzione del Monte Sant’Elena nel 1980, nello stato di Washington.

Un colosso formato da un gruppo di vette messe a semicerchio nelle Isole Aleutine (ci troviamo nell’Oceano Pacifico, territorio dell’Alaska), e conosciute come le Isole delle Quattro Montagne; sinora gli scienziati avevano ritenuto che queste sei vette (Herbert, Carlisle, Cleveland, Tana, Uliaga e Kagamil), fossero dei singoli vulcani indipendenti, ma in realtà potrebbe trattarsi di sfiati diversi di un’unica caldera più grande. Un’ipotesi che, se venisse confermata, non sta a indicare che in futuro potrebbero esserci necessariamente delle violente eruzioni, nonostante le dimensioni del vulcano: “La nuova ricerca ha portato a un risultato che non cambia o aumenta il rischio”, ha infatti detto Josh Power, geofisico presso lo US Geological Survey e l’Alaska Volcano Observatory.

E’ dal 2014 che gli scienziati hanno intrapreso uno studio più approfondito di questa area a largo dell’Alaska, non tanto nel timore di nuove catastrofi naturali in arrivo, ma più interessati all’archeologia della regione; e anche nei due anni successivi, un altro gruppo di studiosi ha cercato di comprendere meglio i supporti tettonici dei vulcani, avvalendosi dell’aiuto della tecnologia, come sismografi in grado di registrare anche le minime scosse e l’analisi chimica dei gas esalati da terreno. La raccolta di questi dati però, col passare del tempo, ha contribuito all’aumento dei dubbi nei ricercatori, come se si fossero improvvisamente trovati davanti un intricato puzzle. Innanzitutto, la curiosa forma a semicerchio dei sei vulcani, tutti vicini tra loro, quasi raggruppati, cosa che ha fatto presumere che appartenessero a un’unica più grande caldera.

Sappiamo che le caldere si formano quando una grossa sacca di magma all’improvviso si svuota e il terreno sovrastante collassa, creando così una depressione sulla superficie della Terra. La sua formazione produce una serie di fratture attraverso le quali il magma poi fuoriesce in superficie, mentre i vulcani di solito sono posizionati lungo i loro bordi o al centro.

Nel caso in questione, i ricercatori hanno iniziato a sospettare che i vulcani delle Isole delle Quattro Montagne potessero esser parte di una più complessa serie di strutture geologiche connesse attorno a una caldera potenzialmente larga 12 miglia, che ritengono sia situata centinaia di metri sotto le gelide acque del Pacifico.

“Questo sarebbe un dilemma semplice da risolvere se ci trovassimo sulla terraferma” ha detto Diana Roman, vulcanologa al Carnegie Institution for Science e tra i principali ricercatori del progetto, “Ma essendo sott’acqua, rende più complicato stabilirne la grandezza”.

Un altro passo avanti in questo studio è stato fatto quando sono state scoperte delle rocce di ignimbrite, materiale che si forma quando una grossa eruzione si trova sotto ceneri vulcaniche talmente spesse che i granuli si saldano tra di loro, dando vita a rocce durissime. Tanti però sono ancora i dubbi legati all’esistenza di questa unica, gigantesca caldera, e il lavoro dei ricercatori continua in tale direzione: il fatto di avere rilevato sul fondale marino una depressione profonda più di 120 metri, non fa che supportare la tesi della presenza di questa caldera. Se i loro sospetti venissero confermati, il team crede che il potenziale bacino sott’acqua potrebbe essere il risultato di una esplosione vulcanica.

Dunque ancora non vi sono certezze sulla grandezza della caldera, e se si sia formata con tante piccole eruzioni, o in seguito a un’unica grande esplosione: anche in quest’ultimo caso, si sarebbe comunque trattato di un evento di media entità, soprattutto se paragonato ad altri avvenuti in tutto il pianeta nel corso dei tempi. Giusto per fare un esempio che renda l’idea, questa eventuale esplosione, sarebbe di circa un decimo della potenza di quella che scosse Yellowstone circa 640.000 anni or sono: insomma, un’eruzione in grado di cambiare il mondo forse, ma di certo non la fine del mondo.

Una ricerca come quella in questione, potrebbe col passare del tempo, aiutare gli scienziati a comprendere eventuali futuri pericoli nella zona, oltre a un notevole passo avanti nella conoscenza di questa parte di pianeta e delle sue dinamiche geologiche.

Fonte: https://www.nationalgeographic.com/science/2020/12/alaska-islands-may-be-part-single-massive-volcano

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Il bizzarro asteroide che vale più del nostro pianeta

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Un asteroide chiamato 16 Psiche, si avvicinerà oggi al nostro pianeta e sarà visibile con un telescopio per tutta la notte. Un giorno questo Oggetto potrebbe rivelarsi straordinariamente prezioso.
Durante la sua opposizione odierna, 16 Psiche arriverà entro le 1,6 unità astronomiche (UA) dalla Terra. Una AU è la distanza della Terra dal Sole, l’unità di misura è utilizzata dagli astronomi per misurare le distanze all’interno del nostro Sistema Solare.
L’asteroide 16 Psiche è un oggetto molto strano, orbita attorno al Sole nella fascia principale degli asteroidi posta tra Marte e Giove. 16 Psiche è il sedicesimo asteroide scoperto nel 1852, è uno degli oggetti più massicci del Sistema Solare, pianeti a parte.
Largo circa 226 chilometri, 16 Psiche, secondo un recente studio effettuato mediante il Telescopio Spaziale Hubble, sembra essere estremamente denso e metallico.
L’asteroide 16 Psiche, fatto di ferro e nichel potrebbe essere un “protopianeta”, cioè il nucleo di un pianeta che non ha mai raggiunto la maturità. Questo asteroide è davvero un oggetto unico, motivo per cui la NASA ha in programma di visitare 16 Psiche nel 2026.
16 Psiche potrebbe probabilmente essere l’ asteroide più prezioso mai trovato, anche se non è questo il motivo per cui la NASA vuole inviare un veicolo spaziale.
“Opposizione significa che sarà il punto più lontano dal Sole”, ha detto la dottoressa Tracy Becker, scienziata planetaria presso il Southwest Research Institute di San Antonio, in Texas. È autrice di un recente articolo su 16 Psiche che è stato  pubblicato  sul  Planetary Science Journal. La Becker ha aggiunto:“L’opposizione è il momento migliore per studiare qualcosa, specialmente nella luce ultravioletta (visibile), perché è davvero buio e non c’è alcun tipo di bagliore nell’atmosfera terrestre dovuta alla luce solare”.
Rispetto ad altri asteroidi, 16 Psiche è molto grande e molto luminoso, sebbene non sia visibile a occhio nudo.
I fatti indiscussi su 16 Psiche sono pochi, ma la maggior parte degli astronomi concorda sul fatto che probabilmente contiene molto metallo. “Non sappiamo se si tratta di un nucleo puro residuo di un planetesimale che si è formato e poi è stato distrutto”, ha detto Becker. “Questo è ciò che lo rende interessante perché quando ci arriveremo scopriremo cosa sta succedendo”.
La missione Psiche della NASA è programmata per l’agosto 2022 e verrà lanciata da un razzo della SpaceX, il Falcon Heavy. La missione giungerà sull’asteroide nel gennaio 2026. La missione durerà 21 mesi e avrà il compito di mappare 16 Psyche e dirci di quali elementi è composto.
Sono le osservazioni a infrarossi che sono fondamentali. Il James Webb Space Telescope aiuterà gli astronomi a capire come gli asteroidi emettono luce e calore. “Si riscaldano e poi irradiano nuovamente quel calore, quindi devi tenerne conto quando cerchi di capire quanta luce viene riflessa”, ha spiegato la Becker.
Dopo che gli astronomi raccolgono i loro dati dalla luce, la  suddividono in uno spettro attraverso un processo chiamato spettroscopia. “Ogni parte dello spettro contiene informazioni diverse sulla mineralogia e sui materiali sulla superficie di un oggetto”, ha detto la Becker“La luce ultravioletta guarda solo lo strato più superficiale della superficie, ma se guardi nell’infrarosso ottieni informazioni sempre più in profondità nell’asteroide stesso”, ha detto la Becker. “Ottieni una luce riflessa che può penetrare più in profondità”.
La Becker spera di ottenere maggiori informazioni sulla mineralogia della superficie di 16 Psyche, e se contiene o meno l’acqua.
“Ci sono stati rilevamenti a una specifica lunghezza d’onda della luce, quindi potrebbe esserci acqua, ma potrebbe anche essere solo idrossile”, ha detto la Becker. “Non ci saranno pozze d’acqua sulla superficie, sarebbe una specie di acqua contenuta nel materiale roccioso”.
Se contenesse riserve d’acqua 16 Psiche sarebbe prezioso come punto di sosta per il rifornimento di carburante per le future missioni con equipaggio nello spazio profondo. Forse potrebbe essere altrettanto prezioso per le future navi minerarie che scaveranno gli asteroidi.
Le discussioni su 16 Psiche non si allontanano mai troppo dal suo presunto valore astronomico. È stato detto che 16 Psiche potrebbe valere circa  10.000 quadrilioni di dollari, molte volte più dell’economia mondiale, che è stata misurata pari a circa 142 trilioni di dollari nel 2019, tuttavia questa informazione dovrebbe essere presa con molta cautela.
Dopotutto, se dovessimo portare enormi quantità di metallo sulla Terra, probabilmente faremmo crollare i mercati delle materie prime, il che ne ridurrebbe immediatamente il valore.
In ogni caso, 16 Psiche è un oggetto del nostro Sistema Solare intrigante di cui presto, ci auguriamo, sapremo molto di più.
Fonte: https://www.forbes.com/sites/jamiecartereurope/2020/12/05/a-bizarre-trillion-dollar-asteroid-worth-more-than-our-planet-is-now-aligned-with-the-earth-and-sun/

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Hayabusa 2, alla scoperta delle origini della vita

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Riportati sulla terra frammenti dell’asteroide Ryugu; l’Agenzia Spaziale Giapponese’ (JAXA) ha annunciato che, dopo un viaggio di oltre 5 miliardi e 273 milioni di chilometri, è tornata sulla terra la capsula, separatasi navicella principale Hayabusa2, la quale ha raccolto due campioni dell’asteroide Ryugu, uno in superficie e l’altro più in profondità. L’arrivo sulla Terra della capsula con il carico è avvenuto alle 18:50 circa ora italiana, in un’area di test militari dell’Australia meridionale. La sonda era partita il 3 dicembre 2014.

Gli scopi della missione

L’agenzia spaziale giapponese ha spiegato che i campioni di materiali presi sull’asteroide Ryugu conservano traccia delle interazioni nei primi attimi di vita del nostro sistema solare tra i materiali, che hanno formato la Terra, i suoi oceani e la vita, i quali erano presenti nella nube primordiale da cui si esso ha avuto origine.
La teoria sull’origine dei pianeti ipotizza, che essi derivino, appunto, da una nebulosa ricca di gas e granelli di polvere, i quali si unirono tra di loro per originare piccoli corpuscoli; con il passare del tempo è continuato hanno questo processo fino a dare vita a corpi sempre più grandi chiamati planetesimi, i quali, infine, unendosi, diventarono pianeti.
Gli avanzi di questo processo sono gli asteroidi, i quali sono rimasti come erano all’inizio della loro formazione; i pianeti, al contrario hanno subito profondi cambiamenti nel corso della loro vita sviluppando croste, mantelli e nuclei nel corso della loro vita subendo profondi cambiamenti.
Raccogliere un campione direttamente da un asteroide offre l’opportunità di studiare le rocce risalenti alla formazione del Sistema Solare, avvenuta più di 4,5 miliardi di anni fa.

Le origini della vita

Gli scienziati cercano una risposta ad un quesito essenziale, capire se gli elementi costitutivi della vita erano presenti nella nebulosa da cui ha avuto origine il sistema solare oppure si sono sviluppati successivamente sulla Terra.
Se essi erano già presenti prima della nascita della Terra è probabile che essi siano presenti anche sull’asteroide Ryugu e questo dimostrerebbe che la vita potrebbe essere più comune nell’Universo di quanto si possa pensare.
La missione di riporto dei campioni da Ryugu è stata preparata in modo da evitare qualsiasi contaminazione riconducibile a materiali organici terrestri; se si trovassero aminoacidi su Ryugu sarebbe certo che essi provengano da lì.
Questo asteroide ha un diametro di circa un chilometro e potrebbe avere avuto origine da un cumulo di macerie rotanti prodotte dallo scontro di precedenti asteroidi; esso appartiene alla categoria degli “asteroidi a condrite carboniosa”.
Questa terminologia si riferisce a un tipo di meteorite, che può contenere composti organici complessi, come gli aminoacidi e gli acidi nucleici: in pratica, i materiali di costruzione delle proteine e del Dna.

La missione continua

Le osservazioni effettuate fino a questo momento hanno permesso di concludere che non ci sia tanta acqua all’interno delle componenti di Ryugu; secondo i ricercatori l’acqua, che in origine era contenuta nei pezzi di roccia da cui ha avuto origine si sia evaporata a causa del riscaldamento interno da parte di materiale radioattivo.
La sonda Hayabusa2 non ha esaurito la sua missione e continuerà il suo viaggio verso il prossimo obiettivo: esplorare un altro asteroide 2001 CC21 nel 2026 e arrivare a destinazione verso l’asteroide 1998 KY26 nel 2031.
In questo caso per la prima volta sarà osservato un asteroide, che ruota rapidamente, con periodo di rotazione di 11 minuti e che ha una composizione sconosciuta.
Una missione simile a quella condotta dalla capsula giapponese è stata OSIRIS-Rex realizzata dalla NASA, la quale ha raccolto materiali dall‘asteroide Bennu e che tornerà sulla Terra nel settembre 2023.

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Osservati i primi indizi del bosone oscuro?

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Particelle estremamente leggere che interagiscono debolmente possono svolgere un ruolo fondamentale nella cosmologia e nella ricerca della sfuggente materia oscura. Sfortunatamente queste particelle si sono rivelate molto difficili da rilevare utilizzando i collisori ad alta energia oggi a disposizione degli scienziati. I ricercatori di tutto il mondo hanno quindi cercato di sviluppare tecnologie e metodi alternativi che potrebbero consentire il rilevamento di queste sfuggenti particelle.

Utilizzando questa tecnica, due diversi gruppi di ricerca (uno dell’Università di Aarhus in Danimarca e l’altro del Massachusetts Institute of Technology), hanno recentemente eseguito esperimenti volti a raccogliere indizi sull’esistenza dei bosoni oscuri, particelle elusive che sono tra i candidati più promettenti della materia oscura. I loro risultati, pubblicati su Physical Review Letters, potrebbero avere importanti implicazioni per i futuri esperimenti sulla materia oscura.
In teoria, le interazioni tra particelle che non sono mai state osservate prima, come i bosoni e particelle note come gli  elettroni, dovrebbero riflettersi in una discrepanza tra le frequenze di transizione previste dal Modello Standard e quelle misurate in atomi reali. Anche se i fisici sono in grado di raccogliere misurazioni di frequenza estremamente precise, i calcoli basati sulla teoria per i grandi atomi avranno un margine di incertezza così ampio da non poter essere confrontati in modo affidabile con le misurazioni dirette.
Elina Fuchs, fisica teorica del Fermilab che ha collaborato con il team dell’Università di Aarhus ha detto a Phys.org:
“Il trucco utilizzato nei lavori precedenti era quello di eseguire misurazioni di frequenza delle stesse transizioni in diversi isotopi dell’elemento an, e risalire a un’ansatz degli anni ’60 (King ’63). La differenza tra la stessa transizione in due diversi isotopi è chiamata spostamento isotopico. Confrontando almeno tre spostamenti isotopici di almeno due transizioni, non è più necessario fare affidamento sui calcoli delle frequenze nel modello standard. Invece, il nostro metodo utilizza solo le misurazioni, disposte in 3 punti dati che sono ciascuna una coppia delle due frequenze di transizione misurate in un cosiddetto diagramma King. Allora la domanda è abbastanza semplice: i tre punti giacciono su una linea retta, come previsto nel modello standard?”
La tecnica utilizzata dal team di Aarhus, guidato da Michael Drewsen, e dal team di ricercatori del MIT guidato da Vladan Vuletic, prevede l’esame degli spostamenti isotopici disposti in 4 punti dati. Se questi punti formano una linea retta, le osservazioni sono allineate con il modello standard, il che suggerisce che non è stata rilevata alcuna nuova fisica. Se non formano una linea retta il risultato potrebbe suggerire la presenza di nuovi bosoni o altri fenomeni fisici sconosciuti.
Se la non linearità osservata utilizzando questo metodo supera in modo significativo le barre di errore del modello standard, i ricercatori dovrebbero essere in grado di impostare nuovi limiti sugli accoppiamenti e sulla massa del bosone che potrebbero aver rilevato. Tuttavia, se è inaspettatamente grande, la non linearità potrebbe essere associata a un bosone che ha disturbato i livelli di energia di un elettrone o ad altri fenomeni fisici previsti dal Modello Standard che sono anche noti per infrangere la linearità degli spostamenti isotopici.
Julian Berengut, teorico del team di Aarhus, che lavora all’UNSW di Sydney e ha condotto il recente studio, ha detto a Phys.org:
“La ricerca di nuovi bosoni utilizzando la non linearità del diagramma di King è una delle numerose ricerche di nuova fisica che utilizzano esperimenti atomici o molecolari di precisione anziché collisori ad alta energia. L’idea alla base di tutte queste ricerche è che con alta precisione è possibile sondare gli effetti sottili delle particelle che potresti non essere in grado di rilevare facilmente nei collisori. In genere, questi esperimenti sono molto più piccoli e molto più economici degli esperimenti sui collisori e fornire un approccio complementare. Il nostro articolo, così come quello adiacente del gruppo di Vladan Vuletic al MIT, sono davvero le prime misurazioni dedicate raccolte utilizzando il metodo di non linearità del diagramma di King”.
Sia il gruppo di ricerca di Vuletic che il team di Drewsen hanno raccolto le misurazioni utilizzando una tecnica chiamata spettroscopia di precisione. Questa tecnica può essere utilizzata per raccogliere misurazioni di frequenza molto precise negli atomi, ad esempio registrando le frequenze mostrate quando un atomo transita tra stati diversi. Nei loro esperimenti, il team del MIT e i ricercatori dell’Università di Aarhus hanno esaminato rispettivamente ioni di itterbio e ioni di calcio.
Vladan Vuletic, il ricercatore che ha guidato il gruppo al MIT ha detto a Phys.org:
“Il nostro obiettivo principale era testare nuove forze oltre a quelle attualmente conosciute (come delineato dal Modello Standard) ed escluderle a un certo livello. Questo test era stato fatto prima, ma non con la precisione che abbiamo raggiunto. Contemporaneamente al nostro lavoro, il gruppo guidato da Michael Drewsen in Danimarca ha misurato transizioni simili circa 10 volte più precisamente, ma in un atomo con circa 10 volte meno sensibilità al nuovo effetti rispetto all’atomo che usiamo, quindi la sensibilità del nostro esperimento e dell’esperimento di Drewsen hanno finito per essere più o meno la stessa cosa”.
Per condurre una ricerca di bosoni oscuri in maniera efficace utilizzando il metodo basato sulla spettroscopia di precisione, i fisici devono misurare le transizioni ottiche in diversi isotopi dello stesso elemento a 10-15 Hz con una precisione sub-kHz (cioè, con una precisione frazionaria di 1 parte in 10 12 o migliore). Per fare ciò, le particelle che esamineranno dovrebbero essere intrappolate. Vuletic e i suoi colleghi hanno intrappolato ioni di itterbio che hanno usato in quella che è nota come “trappola di Paul“, utilizzando campi elettrici oscillanti. Hanno studiato questi ioni con un laser stabilizzato utilizzando un risonatore ottico con specchi altamente riflettenti.
Come ha detto Vuletic:
“Abbiamo misurato la frequenza di un isotopo per mezz’ora scansionando la frequenza laser, quindi siamo passati a un altro isotopo, misurato per 30 minuti, siamo tornati al primo isotopo e abbiamo calcolato la media delle misurazioni dopo ogni giorno di lavoro. Il giorno successivo, avremmo misurato un’altra coppia di isotopi e così via”.
Poiché si basano su misurazioni di altissima precisione, gli esperimenti condotti dai gruppi di Vuletic e Drewsen sono molto complessi da eseguire. Gli esperimenti, richiedono un buon controllo sia degli ioni intrappolati che delle diverse sorgenti laser utilizzate per la ionizzazione, il raffreddamento e la spettroscopia.
Il team dell’Università di Aarhus ha raccolto misurazioni ancora più precise rispetto al gruppo di Vuletic, raggiungendo una precisione senza precedenti di 20 Hz sulla cosiddetta struttura D-fine ~ 2 THz che si divide in cinque isotopi Ca+, che corrisponde a una precisione relativa di 10-11Nei loro esperimenti, hanno utilizzato una serie di strumenti tecnologici e tecniche sviluppati nel secolo scorso, tra cui trappole ioniche, metodi di raffreddamento laser e uno strumento speciale noto come laser a pettine di frequenza a femtosecondo.
Cyrille Solaro, ricercatore dell’Università di Aarhus che ha condotto il recente studio, ha detto a Phys.org:
“L’invenzione del cosiddetto laser a pettine di frequenza a femtosecondi intorno all’anno 2000 è ciò che ha reso possibile sondare in modo molto preciso i livelli di energia elettronica della divisione della struttura D-fine, utilizzando un metodo che abbiamo recentemente dimostrato all’Università di Aarhus. Sebbene non sia paragonabile in termini di dimensioni e investimenti agli enormi sforzi collettivi del CERN, è notevole che tali esperimenti ‘da tavolo’ possano contribuire a esplorare alcune delle stesse domande fondamentali nella scienza, affrontando principalmente particelle più leggere, e significativi progressi sperimentali hanno è avvenuto nel breve lasso di tempo di pochi anni”.
Oltre alla notevole precisione, i due team di ricerca hanno misurato 4 spostamenti isotopici utilizzando 5 diversi isotopi, mentre studi precedenti hanno raccolto misurazioni per un massimo di 4 isotopi. In definitiva, i loro esperimenti hanno permesso di migliorare il limite sull’accoppiamento di un nuovo bosone con elettroni e neutroni di un fattore 30 rispetto al limite precedente, anch’esso impostato sulla base di un diagramma King degli spostamenti degli isotopi (ovvero, utilizzando lo stesso tecnica).
Come ha detto Fuchs:
“Il nostro limite fortemente migliorato non è più forte di quello esistente derivato dalla combinazione di due modi complementari di testare gli accoppiamenti (dispersione dei neutroni e momento magnetico dell’elettrone), ma evidenzia i rapidi e significativi progressi ottenibili con il metodo King plot. Inoltre, abbiamo evidenziato lo spazio realistico per un ulteriore miglioramento del limite se questa transizione di scissione della struttura D-fine viene misurata in ioni Ca, Ba o Yb con la precisione attuale o futura, dimostrando che accoppiamenti e masse finora non testati possono essere testato con la precisione ammissibile di 10 mHz. Tale precisione consentirà anche un test indipendente dell’anomalia Be”
Mentre le misurazioni raccolte dal team dell‘Università di Aarhus erano lineari e quindi allineate con le previsioni del modello standard, il team di Vuletic ha osservato una deviazione dalla linearità con una significatività statistica di 3 sigma. Sebbene questa deviazione potrebbe derivare da termini aggiuntivi all’interno del Modello Standard, potrebbe anche suggerire l’esistenza dei bosoni oscuri.
Come ha detto Vuletic
“Ci sono ampie prove che ci sia fisica oltre il Modello Standard (ad esempio, sappiamo che c’è Materia Oscura nell’universo), ma non abbiamo idea di cosa costituisca questa nuova fisica. È importante cercare sperimentalmente in direzioni diverse per escludere certe possibilità, o se si è estremamente fortunati, per trovare nuova fisica o una nuova particella da qualche parte. Stiamo cercando particelle in un intervallo di massa intermedio, dove in realtà abbiamo una sensibilità migliore di ricerche dirette che utilizzano acceleratori di particelle, poiché abbiamo uno straordinario grado di controllo sul sistema a livello di singolo atomo e quantistico”.
Sia il team del MIT che il gruppo dell’Università di Aarhus hanno in programma di condurre ulteriori ricerche per i bosoni oscuri e per altri candidati alla materia oscura utilizzando la spettroscopia ad alta risoluzione e tramite grafici King degli spostamenti degli isotopi. Il loro lavoro potrebbe infine aprire la strada all’osservazione sperimentale dei segnali associati alla materia oscura.
Come ha detto Vuletic:
“Ora continueremo la nostra ricerca con maggiore precisione e su nuove transizioni in cui le non linearità dovrebbero essere ancora più grandi. Questo alla fine ci permetterà di individuare la fonte della non linearità che abbiamo osservato; se proviene dalla struttura nucleare, o addirittura da una nuova fisica precedentemente sconosciuta”.
Nei loro prossimi studi, il team dell‘Università di Aarhus proverà a misurare gli spostamenti degli isotopi con una precisione ancora maggiore, in quanto ciò potrebbe consentire loro di stabilire nuovi limiti o rilevare nuove deviazioni dalle previsioni del Modello standard. Nel frattempo, i membri del team continueranno ad esplorare una varietà di altri argomenti, che vanno dal miglioramento della spettroscopia di precisione e dell’interferometria alla fisica del collisore per studiare le proprietà del bosone di Higgs o cercare nuove particelle pesanti.
Michael Drewsen, che ha guidato il team di Aarhus, ha detto a Phys.org:
“In particolare, abbiamo stabilito un contatto con il Prof. Hua Guan, presso l’Accademia cinese delle scienze di Wuhan, Cina, al fine di avviare una collaborazione volta a migliorare la sensibilità alla trama Ca + King di un fattore ~ ​​1000. Ciò può essere ottenuto attraverso una misurazione ~ 1000 volte più precisa della divisione della struttura D-fine eseguita presso l’Università di Aarhus sfruttando l’entanglement quantistico di due ioni di isotopi diversi e misurazioni della transizione SD con una precisione relativa di 10-17 da il gruppo di Wuhan”.
Oltre al metodo sperimentale utilizzato finora, Fuchs e i suoi colleghi del Weizmann Institute of Science in Israele stanno cercando di capire se è possibile misurare gli spostamenti isotopici degli stati di Rydberg. Questa versione alternativa del loro esperimento richiederebbe solo due isotopi.
Come ha concluso Berengut:
“Sono estremamente fiducioso sulla possibilità di migliorare il nostro esperimento sfruttando gli studi di precisione appena disponibili in ioni di calcio altamente caricati”, ha concluso Berengut. Con questi dati aggiuntivi, dovremmo essere in grado di rimuovere tutti i potenziali effetti sistematici e assicurarci di ottenere il massimo dalle nostre trame King”.
Fonte: https://phys.org/news/2020-12-hints-dark-bosons.html

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