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La macchina che imita i primi passi della vita nello spazio

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Gli scienziati dell’Università CY Cergy di Parigi e dell’Osservatorio di Parigi hanno sviluppato un nuovo dispositivo che permetterà di capire come si formano gli elementi costitutivi della vita nello spazio.
I risultati ottenuti sono stati pubblicati in un articolo apparso su Review of Scientific Instruments. Nel documento gli scienziati descrivono in dettaglio come il dispositivo chiamato VENUS – acronimo della frase francese Vers de Nouvelles Syntheses, che significa “verso nuove sintesi” – imita il modo in cui le molecole si uniscono nella gelida oscurità dello spazio interstellare.
“Cerchiamo di simulare come si formano complesse molecole organiche in un ambiente così duro“, ha detto Emanuele Congiu, uno degli autori e astrofisico dell’osservatorio. “Gli osservatori possono vedere molte molecole nello spazio. Quello che non capiamo ancora, o completamente, è come si siano formate in questo ambiente ostile”.
VENUS ha una camera progettata per replicare il vuoto ultra spinto dello spazio, mantenendo una temperatura di circa 10 kelvin o – 240° Celsius. Utilizza fino a cinque raggi per sparare atomi o molecole su un minuscolo frammento di ghiaccio senza disturbare quell’ambiente.
Questo processo, ha spiegato Congiu, riproduce il modo in cui si formano le molecole sul ghiaccio che si trova sopra minuscole particelle di polvere presenti all’interno delle nuvole interstellari. VENUS è il primo dispositivo a eseguire la replica con più di tre fasci, il che consente ai ricercatori di simulare interazioni più complesse.
Negli ultimi 50 anni, nelle regioni di formazione stellare sono state trovate quasi 200 specie molecolari diverse e gli scienziati ritengono che alcune di esse, le cosiddette specie prebiotiche, siano coinvolte nei processi che portano alla nascita delle prime forme di vita. Man mano che gas e polvere si condensano gradualmente in materia interstellare più fredda e più densa, i processi chimici iniziano a produrre molecole dal gas atomico. Sebbene le molecole delle dimensioni della formaldeide (H 2 CO) esistano in nuvole diffuse, la produzione di molecole complesse sembra avvenire nelle regioni più dense, dove i campi UV sono notevolmente ridotti e le temperature sono inferiori a 15 K.
Un importantissimo utilizzo del dispositivo VENUS sarà quello di lavorare in concerto con scienziati che scoprono reazioni molecolari nello spazio ma necessitano di una comprensione più completa di ciò che hanno osservato.
Queste osservazioni saranno ampliate grazie al lancio del nuovo telescopio spaziale della NASA il James Webb Space Telescope, il più grande e potente telescopio spaziale mai lanciato, previsto per il 2021, amplierà le nostre conoscenze dell’universo.
Per questo il dispositivo VENUS potrà lavorare in concerto con i più potenti osservatori spaziali oggi in fase di sviluppo integrandone i dati e studiando le reazioni molecolari in laboratorio, proprio come ha spiegato Congiu affermando:
“Quello che possiamo fare in laboratorio in un giorno richiede migliaia di anni nello spazio. Il nostro lavoro in laboratorio può integrare la ricchezza di dati che proviene dagli osservatori spaziali. Altrimenti, gli astronomi non sarebbero in grado di interpretare tutte le loro osservazioni. I ricercatori che fanno osservazioni possono chiederci di simulare una certa reazione, per vedere se cosa pensano di vedere sia reale o no”.
Fonte: https://phys.org/news/2020-12-device-mimics-life-outer-space.html
 

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Una forma esotica della materia sfida le leggi della fisica

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L’elettricità e il magnetismo sono due delle manifestazioni della natura più note oggi studiate. Abbiamo sperimentato tutti o quasi l’effetto di uno shock statico in una secca giornata invernale, o abbiamo osservato come i magneti vincono la gravità. Conosciamo inoltre la combinazione delle due forze chiamata elettromagnetismo che permette trasmissioni radiofoniche e televisive, e tiene insieme gli  atomi e le molecole di cui siamo fatti.
Eppure, una nuova stima, eseguita da David Cassidy e dai colleghi dell’University College di Londra, nel Regno Unito, ha il potenziale per indurre i ricercatori a rivedere le teorie che raccontano come si comportano queste forze. I fisici hanno studiato il comportamento di un atomo esotico chiamato “positronio” e hanno trovato una differenza tra la previsione e la misurazione del livello di energia di una specifica transizione energetica. Il positronio è un atomo costituito esclusivamente da un elettrone e da un anti elettrone (la controparte di antimateria o positrone). Considerato che il positronio non è costituito da protoni o neutroni, non è influenzato dalla forza nucleare forte, e quindi è un laboratorio ideale per testare quanto sappiamo dell’elettromagnetismo.
La differenza tra il livello di energia previsto e quello misurato conduce a una differenza dello 0,1% nella frequenza delle microonde necessarie per spingere l’atomo a cambiare livello.
Per più di settant’anni, gli scienziati hanno pensato di possedere una comprensione molto precisa di come funzionano le forze elettriche e magnetiche.
Nel 1948 i fisici svilupparono una teoria chiamata elettrodinamica quantistica , o QED. La teoria combinava elettricità, magnetismo, meccanica quantistica e la teoria della relatività speciale di Einstein.
La teoria QED è stata pensata inizialmente per apportare piccole correzioni alle previsioni fatte da una precedente teoria elettromagnetica, chiamata Teoria di Dirac.
Il ricercatore Willis Lamb misurò gli atomi di idrogeno usando fasci di microonde. Scoprì che due transizioni atomiche che si aspettava fossero identiche, erano in realtà diverse. Diede notizia del suo risultato alla Shelter Island Conference, tenutasi nell’estate del 1948. La differenza era molto piccola, circa una parte su un milione. Un altro ricercatore, con l’insolito nome di Polykarp Kusch, scoprì che le proprietà magnetiche dell’elettrone (chiamato momento magnetico dell’elettrone) differivano dalle previsioni di circa lo 0,1%.
La teoria QED è in grado di prevedere correttamente sia la misurazione di Lamb sia quella di Kusch. La teoria di Dirac è stata accantonata e la nuova teoria QED è stata la teoria accettata dell’elettromagnetismo per oltre sette decenni. Sia la teoria che la misurazione sono state migliorate nel corso degli anni. La previsione e la misurazione del momento magnetico dell’elettrone ora concordano fino alla dodicesima cifra. La QED è una delle teorie testate con maggiore precisione in tutta la fisica moderna.
Questo la rende ancora più interessante nella misurazione del positronio effettuate da Cassidy e dai suoi collaboratori. Hanno usato la QED per fare le loro previsioni ed è stata osservata una discrepanza dello 0,1%. Per gli sperimentatori abituati alla precisione del QED, questo è un mistero sconcertante.
Naturalmente, misurare la frequenza di transizione per il positronio è molto complicato. Poiché il positronio è composto da un elettrone e da un positrone, si annichilisce in poche centinaia di miliardesimi di secondo. Inoltre, il positronio viene prodotto creando prima i positroni mediante potenti laser o fasci di particelle, quindi sparando i positroni su materiale contenente elettroni. Il risultato è un atomo di positronio con una quantità variabile di energia. Ciò rende la misurazione ancora più complessa.
Il gruppo di Cassidy ha utilizzato i laser per portare il positronio in uno stato con una durata prolungata utilizzando inoltre tecniche avanzate per raffreddare il positronio in modo che la sua energia fosse molto bassa. Infine, hanno utilizzato microonde a bassa potenza per indurre le transizioni. La bassa potenza assicurava che qualsiasi distorsione della misurazione dovuta al processo di misurazione stesso fosse molto piccola.
Il gruppo ha osservato che la frequenza necessaria per causare la transizione tra i livelli di energia è di circa lo 0,1% superiore a quella prevista dalla teoria QED.
Le ricerche non hanno una spiegazione. Un errore di calcolo è estremamente improbabile. È possibile un errore di misurazione, poiché il processo è difficile. Tuttavia, i ricercatori ritengono di comprendere i limiti del loro sistema e hanno riportato un’incertezza associata che riflette le prestazioni del loro apparato. La previsione e la misurazione sono in disaccordo in misura maggiore di quanto consentano le incertezze. Se i risultati reggono a ulteriori studi, significa che è necessaria una nuova fisica per spiegare la discrepanza.
Gli scienziati sono consapevoli di un’altra interessante possibile discrepanza tra la misurazione e le previsioni della teoria QED. Questa discrepanza emerge negli studi sulle proprietà magnetiche del muone, che è un cugino pesante e instabile dell’elettrone. Nel 2001, i ricercatori del Brookhaven National Laboratory hanno effettuato misurazioni molto precise del momento magnetico del muone, indicato con 12 cifre di accuratezza. La previsione è altrettanto precisa. le due proprietà sono in disaccordo per una quantità molto piccola, ma più grande di quanto le incertezze possano spiegare.
Questa discrepanza è un’opportunità per la fisica. Una nuova misurazione delle proprietà magnetiche del muone è in corso presso il Fermi National Accelerator Laboratory. Questa misurazione dovrebbe essere più precisa di quella effettuata al Brookhaven. Inoltre, si prevede che il gruppo di ricerca annuncerà i propri risultati probabilmente all’inizio del 2021.
Data la precisione della QED, la recente discrepanza nella misurazione del positronio e la discrepanza nota da tempo nelle proprietà magnetiche dei muoni sono molto interessanti per gli scienziati. Se confermati, uno o entrambi potrebbero portare gli scienziati verso una nuova fisica. Considerato il successo delle attuali teorie sulla fisica delle particelle, la prospettiva che potremmo essere vicini a un progresso nella comprensione delle leggi dell’universo significa che gli scienziati stanno aspettando con impazienza il prossimo annuncio.
Fonte: https://www.forbes.com/sites/drdonlincoln/2020/12/14/exotic-form-of-matter-challenges-the-laws-of-physics/

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Merchandising aziendale: quali sono i benefici che ne possono derivare?

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Sono parecchie le campagne pubblicitarie che si avvalgono del ricorso a regali promozionali: si è ormai capito, infatti, che il merchandising aziendale è in grado di offrire numerosi vantaggi. Una strategia di marketing efficace non dovrebbe prescindere dall’impiego dei regali aziendali, che hanno un’influenza positiva dal punto di vista della redditività e, al tempo stesso, permettono di far conoscere le aziende tramite i destinatari dei gadget. Ma di che cosa si parla di preciso quando si fa riferimento al merchandising aziendale? Esso include quei prodotti che vengono adoperati a scopo promozionale e che, proprio per questo motivo, vengono personalizzati ad hoc, di solito con il logo dell’organizzazione.

Le soluzioni per il merchandising aziendale

È davvero lunga la lista di oggetti che possono essere sfruttati per il merchandising aziendale: si spazia dalle tazze alle penne, dalle borse alle magliette, dalle chiavette USB agli ombrelli. Ciascun accessorio si presta a essere personalizzato, con uno slogan, un disegno, un logo, e così via. Tali oggetti nel settore del mercato pubblicitario vengono utilizzati, nella maggior parte dei casi, come regali promozionali. Il merchandising dura a lungo nel tempo, ma questo è solo uno dei tanti vantaggi che lo caratterizzano. Esso, infatti, è in grado di generare un elevato livello di redditività anche se il budget che si ha a disposizione è limitato. Inoltre, permette di consolidare l’identità di un marchio. Si tratta, insomma, di uno strumento pubblicitario che vale la pena di prendere in considerazione, anche perché capace di favorire in chi riceve i gadget in dono una sensazione di gratitudine nei confronti dell’azienda che li consegna.

I prodotti personalizzati

Che si tratti di un quaderno, di una borsa per fare la spesa, di una t-shirt o di qualsiasi altro prodotto, sono davvero tanti gli oggetti che possono essere regalati dalle aziende nelle occasioni più diverse: per esempio durante un congresso, in una fiera, e così via. La personalizzazione dei gadget con il logo di un marchio ha lo scopo di pubblicizzare e favorire la vendita dei servizi e dei prodotti del marchio in questione. Non è detto che i gadget che vengono regalati debbano far parte della stessa categoria merceologica dei prodotti da promuovere: proprio la flessibilità è uno dei punti di forza di questo tipo di campagna.

Un’azione pubblicitaria redditizia

È il principio della reciprocità una delle caratteristiche più significative alla base del successo del merchandising aziendale come azione pubblicitarie. Si tratta, in sostanza, di sfruttare l’esigenza che si avverte, nel momento in cui si riceve un regalo, di dare un cambio qualcosa. Tale principio si concretizza ogni volta che un’azienda offre dei campioni gratuiti, propone un regalo o mette a disposizione sconti molto importanti. Se si riceve gratis qualcosa, nel cervello si accende una sensazione di gratitudine, che a volte può assumere la forma di un senso di colpa, per effetto del quale si è indotti a contraccambiare.

I regali pubblicitari

L’azione più frequente nel settore dei regali pubblicitari consiste nell’offrire un gadget personalizzato a chi prende parte un evento, ma anche ai dipendenti e ai clienti. Gli obiettivi che possono essere conseguiti con questa semplice azione sono diversi: per esempio promuovere la reputazione di un marchio, oppure accogliere un dipendente appena assunto, o ancora fidelizzare la clientela. Ecco, quindi, che tutti coloro che ottengono il gadget diventano a tutti gli effetti degli ambasciatori del marchio. L’azienda beneficia di una notevole visibilità mettendo a disposizione regali utili che potranno essere impiegati nella vita di tutti i giorni. Si pensi, per esempio, a come viene messa in mostra una borsa personalizzata, usata tutti i giorni per tenere a portata di mano lo smartphone, il portafoglio e tutti gli altri effetti personali. Il marchio presente sulla borsa potrà essere visto da tutti coloro che incontreranno la persona che la utilizza. Ecco perché dall’esperienza positiva e dalla gratitudine ci si può ritrovare con un vero e proprio strumento pubblicitario.

Le tazze personalizzate

Nel novero dei gadget più apprezzati dai clienti, un posto di primo piano spetta senza alcun dubbio alle tazze personalizzate, oggetti che ottengono riscontri davvero positivi. Stiamo parlando, d’altro canto, di un prodotto che viene utilizzato letteralmente da tutti: di conseguenza ci si può rivolgere a un target vasto ed eterogeneo. Chiunque usa le tazze, a casa ma anche sul posto di lavoro. Ricevendo un gadget di questo tipo, si sarà indotti a ritrovarselo spesso di fronte, il che agirà a mo’ di promemoria. Il logo rimane impresso nella mente, a beneficio dell’azienda che deve essere promossa.

Il valore della personalizzazione

Il valore di un accessorio speciale non può mai essere trascurato. Un errore da non commettere è quello di optare per un modello standard; occorre, invece, puntare su un elemento più originale. È evidente che la personalizzazione non ha a che fare unicamente con ciò che si decide di far stampare sul prodotto, ma riguarda anche la categoria merceologica di quel gadget. Tornando all’esempio delle tazze, un modello tradizionale e senza colori attraenti può rivelarsi poco interessante. Per altro, i gadget promozionali vengono avvertiti da chi li riceve come regali, e non come strumenti pubblicitari: di conseguenza, tendono a essere apprezzati di più. I clienti hanno l’impressione che le aziende che distribuiscono i prodotti personalizzati non chiedano niente in cambio, ed è questa parziale mancanza di consapevolezza che contribuisce a rendere i gadget tanto efficaci sul piano della comunicazione.

Le soluzioni di Gadget365

Le tazze personalizzate fanno parte del ricco catalogo di proposte che vengono messe a disposizione da Gadget365, azienda specializzata proprio nella fornitura di servizi in questo ambito. Dalle matite alle borracce, dagli zaini alle borse, dai capi di abbigliamento agli articoli di cancelleria e per l’ufficio, sono numerose le alternative tra cui scegliere. Gadget365 ha sede in provincia di Varese, a Gorla Minore, e qui c’è anche il reparto di logistica, a garanzia della qualità e della sicurezza delle consegne. Con un’esperienza di più di 10 anni, si tratta di un punto di riferimento da tenere in considerazione per tutte le campagne di comunicazione basate sugli oggetti.

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Nuove restrizioni sulle teorie alternative sulla gravità che potrebbero favorire la ricerca sulla materia oscura

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Oggi il modello standard delle particelle è la via più battuta più nel tentativo di spiegare la materia oscura, anche se i fisici non hanno ancora rilevato nessuna particella per confermare o smentire l’efficacia del modello. Altri teorici esplorano teorie alternative sulla gravità per spiegare l’esistenza di questo tipo sfuggente di materia. Per ovviare alla necessità della materia oscura, tuttavia, queste teorie dovrebbero essere allineate con le osservazioni cosmologiche raccolte finora.
La sostanza della materia oscura è ancora ignota. Essa può avere ingredienti diversi: una componente di tipo barionico (materia ordinaria) e una componente di tipo non barionico.
La componente barionica, costituita da oggetti massicci ma non luminosi, può essere composta da pianeti, nane bianche, nane brune, stelle di neutroni e buchi neri. Questi oggetti prendono il nome di MACHOs (Massive Astrophysical Compact Halo Objects o Oggetti astrofisici massicci e compatti di alone) ed emettono una quantità di luce insufficiente per poter essere osservati. Questi oggetti possono però essere rilevati attraverso un effetto chiamato lente gravitazionale. Le osservazioni attuali indicano che la materia oscura barionica presente nell’universo può contribuire per una piccolissima percentuale alla Materia Oscura.
La componente non barionica è invece costituita da particelle non ancora rilevate. Si ritiene che possa trattarsi di particelle supersimmetriche quali neutralini, o neutrini massicci o particelle mai osservate che rispondono solo alla forza gravitazionale e all’interazione nucleare debole. Queste particelle, note con il nome di WIMPs (Weakly Interacting Massive Particles = particelle massive debolmente interagenti), sono molto massive (100 volte più pesanti di un protone o più), ma interagiscono debolmente con la materia. Queste particelle vagherebbero nell’universo, addensandosi in prossimità delle galassie a causa dell’attrazione gravitazionale. Le WIMPs sono particelle previste da alcune teorie (per esempio la supersimmetria), ma non ancora osservate neanche nei più potenti acceleratori oggi a disposizione della scienza.
Di recente, due ricercatori del Jet Propulsion Laboratory (JPL) e della Princeton University hanno condotto uno studio volto a comprendere meglio quali punti dovrebbero affrontare le teorie della gravità alternative per sostenere l’esistenza della materia oscura nell’universo. Il loro articolo, pubblicato su Physical Review Letters, traccia una serie di vincoli che potrebbero permettere di determinare la potenziale validità delle teorie alternative sulla gravità.
Il modello cosmologico standard, ΛCDM (dove CDM sta per Cold Dark Matter, ossia Materia Oscura Fredda e Λ (lambda)e la costante cosmologica che è l’energia oscura rappresentata dall’energia del vuoto), spiega come l’universo attuale si è sviluppato dal fondo cosmico a microonde (CMB), tessendo una “tela” dello sviluppo dell’universo dalla sua origine fino ai giorni nostri. L’evoluzione della struttura della CMB in galassie e nell’attuale struttura della rete cosmica potrebbe essere giustificata dall’esistenza della materia oscura fredda (CDM).
Kris Pardo, uno dei ricercatori che ha partecipato allo studio, ha detto a Phys.org:
“Volevamo vedere se potevamo utilizzare i dati CMB e i dati della galassia disponibili oggi per porre alcuni vincoli su come dovrebbe comportarsi una teoria della gravità alternativa per spiegare la materia oscura.Fondamentalmente, se è effettivamente qualche gravità alternativa che è responsabile della materia oscura, allora dovrebbe essere in grado di spiegare esattamente come si evolve la materia normale dalla CMB ad oggi”.
Il concetto di fondo dello studio condotto da Pardo e dal suo collega David N. Spergel è già stato indagata da altri ricercatori, tra cui Scott Dodelson del Kavli Institute for Cosmological Physics in un articolo pubblicato nel 2011. Nondimeno, Pardo e Spergel sono stati i primi a quantificare effettivamente la funzione che riassume questa idea.
Come ha spiegato Pardo:
“Abbiamo dimostrato che qualsiasi teoria che cerchi di spiegare la materia oscura cambiando la gravità (anziché avere una nuova particella) avrebbe bisogno di avere una forma molto particolare. In effetti, questa forma sarebbe così unica che probabilmente porterebbe ad alcuni movimenti piuttosto folli delle galassie vicino a noi, di cui non vediamo le prove. Quindi la spiegazione più semplice per la materia oscura è che si tratta di una particella”.
L’attuale studio di Pardo e Spergel ha fissato nuove restrizioni sulle qualità specifiche che le teorie alternative sulla gravità dovrebbero avere per sostenere l’esistenza della materia oscura. È interessante notare che i ricercatori hanno scoperto che nessuna delle teorie sulla gravità proposte finora soddisfa queste restrizioni, il che suggerisce che se la materia oscura può essere spiegata da tali teorie, una teoria valida non è stata ancora sviluppata. In futuro, il lavoro di Pardo e Spergel potrebbe aggiornare lo sviluppo di teorie sulla gravità alternativa più in linea con le osservazioni cosmologiche.
“Nel nostro studio, abbiamo ipotizzato che la teoria della gravità alternativa dovesse essere ‘lineare'”, ha detto Pardo. “Stiamo ora esaminando come estenderlo a teorie non lineari”.
Fonte: https://phys.org/news/2020-12-constraints-alternative-gravity-theories-dark.html

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I primi dinosauri erano agili e mangiavano carne

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Una ricostruzione pionieristica del cervello appartenente a uno dei primi dinosauri a vagare per la Terra, ha gettato nuova luce sulla sua possibile dieta e sulle capacità di muoversi velocemente di questi animali preistorici vissuti 220 milioni di anni fa.

La ricerca, guidata dall’Università di Bristol, ha utilizzato tecniche avanzate di imaging e modellazione 3-D per ricostruire digitalmente il cervello del tecodontosauro (Thecodontosaurus), meglio conosciuto come il dinosauro di Bristol a causa delle sue origini nella città del Regno Unito. I paleontologi hanno scoperto che l’animale preistorico potrebbe aver mangiato carne, a differenza dei suoi parenti successivi ,dal collo lungo gigante, tra cui Diplodocus e Brontosaurus, che si nutrivano solo di piante.

Il Thecodontosaurus aveva le dimensioni di un cane

Antonio Ballell, autore principale dello studio pubblicato su Zoological Journal of the Linnean Society, ha dichiarato: “La nostra analisi del cervello di Thecodontosaurus ha scoperto molte caratteristiche affascinanti, alcune delle quali sono state piuttosto sorprendenti. Mentre i suoi parenti successivi si muovevano pesantemente a quattro zampe, i nostri risultati suggeriscono che questa specie potrebbe aver camminato su due gambe ed essere stata occasionalmente carnivora“.

Il Thecodontosaurus visse nel tardo Triassico circa 205 milioni di anni fa ed aveva le dimensioni di un grosso cane. Sebbene i suoi fossili siano stati scoperti nel 1800, molti dei quali sono accuratamente conservati presso l’Università di Bristol, solo di recente gli scienziati sono stati in grado di utilizzare software di imaging per estrarre nuove informazioni senza distruggerle. I modelli 3-D sono stati generati da scansioni TC estraendo digitalmente l’osso dalla roccia, identificando dettagli anatomici sul cervello e sull’orecchio interno precedentemente invisibili nel fossile.

Ricostruzione al computer del cervello del dinosauro

Come ha spiegato lo studioso, anche se il cervello vero e proprio è scomparso da tempo, il software consente di ricreare la forma del cervello e dell’orecchio interno attraverso le dimensioni delle cavità lasciate indietro. La scatola cranica del Thecodontosaurus è ben conservata, quindi è stata confrontata con altri dinosauri, identificando caratteristiche comuni, e alcuni che sono specifici per Thecodontosaurus.

Il suo modello cerebrale mostrava persino i dettagli dei lobi flocculari, situati nella parte posteriore del cervello, che sono importanti per l’equilibrio. Le loro grandi dimensioni indicano che era bipede. Questa struttura è anche associata al controllo dell’equilibrio e dei movimenti degli occhi e del collo, suggerendo che il Thecodontosaurus era relativamente agile e poteva mantenere uno sguardo stabile mentre si muoveva velocemente.

Ricostruzione delle orecchie interne del dinosauro

La nostra analisi ha mostrato che le parti del cervello associate al mantenimento della testa stabile, agli occhi e allo sguardo fissi, durante il movimento erano ben sviluppati. Ciò potrebbe anche significare che il Thecodontosaurus catturava occasionalmente prede, sebbene la sua morfologia dei denti suggerisce che le piante fossero il componente principale della sua dieta. È possibile che adottasse abitudini onnivore“, ha dichiarato Antonio Ballell.

I ricercatori sono stati anche in grado di ricostruire le orecchie interne, consentendo loro di stimare quanto bene potesse sentire rispetto ad altri dinosauri. La sua frequenza uditiva era relativamente alta, indicando una sorta di complessità sociale, una capacità di riconoscere vari squittii e clacson di animali diversi.

L’emblema del Bristol Dinosaur Project

Il professor Mike Benton, coautore dello studio, ha dichiarato: “È fantastico vedere come le nuove tecnologie ci stanno permettendo di scoprire ancora di più su come viveva questo piccolo dinosauro più di 200 milioni di anni fa”.

Il ricercatore e la sua equipe hanno iniziato a lavorare su Thecodontosaurus nel 1990, ed è l’emblema del Bristol Dinosaur Project, un programma educativo di sensibilizzazione in cui gli studenti vanno a parlare di scienza nelle scuole locali. “Siamo molto fortunati ad avere così tanti fossili ben conservati di un tale dinosauro così importante qui a Bristol. Questo ci ha aiutato a comprendere molti aspetti della biologia del Thecodontosaurus, ma rimangono ancora tante domande su questa specie ancora da esplorare“, ha concluso il professore di Bristol.

Fonte: https://phys.org/news/2020-12-reveals-unexpected-insights-early-dinosaur.html

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La sacra Trimurti della Fisica

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La fisica è essenzialmente una disciplina empirica e quantitativa. Qualunque teoria matematica prima o poi deve essere sottoposta ad una conferma sperimentale prima che sia accettata in modo incontestabile (per quanto questo termine abbia un significato relativo tra gli scienziati) dalla comunità scientifica.
Altrimenti rimaniamo nell’alveo delle pur ben costruite speculazioni teoriche. Stephen Hawking non ha vinto il Nobel per la sua scoperta negli anni Settanta del fenomeno noto come “radiazione di Hawking” poiché nessuno ha potuto confermare sperimentalmente la sua pur brillante costruzione teorica. Ed il Premio Nobel è assegnato soltanto a teorie o scoperte confermate sperimentalmente.
Peter Higgs ottenne il Nobel soltanto nel 2013 per la sua teoria che prevedeva l’esistenza del bosone che porta il suo nome formulata cinquanta anni prima. Higgs ha dovuto aspettare la conferma sperimentale del CERN avvenuta nel 2012 per ricevere l’ambito e meritato riconoscimento.
Insomma il cuore della fisica è strettamente ancorato alla sperimentazione e quindi alle misure dei fenomeni che sottostanno alla vita del nostro universo. Ad orientare i fisici nelle loro ricerche teoriche e sperimentali sono tre concetti cardine di questa disciplina. Una vera e propria “sacra trimurti”: universalità, simmetria e riduzionismo.
La prima “legge universale” è stata quella sulla gravità scoperta da Isaac Newton (e per la verità in qualche misura anticipata da Robert Hooke). In sostanza Newton affermò che il comportamento degli oggetti sottoposti alla gravità, qui sulla Terra, è uguale a quello della Luna attorno alla Terra, dei pianeti attorno al Sole, e del Sole attorno al centro della Via Lattea.
La teoria della relatività generale di Einstein migliorò la predittività di quella di Newton che però funziona benissimo ancora oggi, tanto è che tutta l’esplorazione spaziale si basa ancora sulle formule matematiche del grande fisico inglese.
Semmai la teoria di Einstein mostra un’universalità ancora più stupefacente di quella newtoniana riguardando oltre che lo spazio anche il tempo. La teoria della relatività di Einstein si applica egualmente bene sui più piccoli e i più lunghi intervalli di tempo.
Fin qui abbiamo usato il termine universale intendendo come determinati fenomeni fisici valgono nello stesso modo in qualunque parte dell’universo. In ambito della fisica statistica, il termine universalità introdotto dal fisico americano Leo Kadanoff si riferisce ad una classe di sistemi fisici che non dipendono dai dettagli della loro struttura o dinamica, ma si possono invece dedurre da pochi parametri globali.
Questo paradigma della fisica però non è assoluto. Sappiamo che su lunghezze estremamente piccole e su intervalli di tempo brevissimo la fisica classica non funziona più ed entra in campo la meccanica quantistica. La stessa definizione di tempo tra relatività generale e meccanica quantistica è diversa.
Il secondo elemento della “sacra trimurti” è la simmetria. Ad un livello “grossolano” ognuno di noi può comprendere questo concetto. Un quadrato è simmetrico perché se lo ruotiamo di 90° otteniamo lo stesso risultato e così dicasi per una sfera. In fisica però la simmetria va ben oltre le invarianze geometriche.
Quando i fisici dicono che un sistema fisico ha una certa simmetria, intendono dire che una certa proprietà di quel sistema rimane la stessa quando qualcos’altro cambia. Si hanno simmetrie globali quando le leggi della fisica rimangono le stesse al cambiare di qualche altra cosa. Nel 1915, in piena guerra, la matematica tedesca Emmy Noether scoprì il legame tra simmetrie di un sistema fisico e quantità conservate. Esempi importanti sono la quantità di moto se il sistema ha una simmetria per traslazioni spaziali, il momento angolare per sistemi invarianti per rotazioni e l‘energia per le simmetrie temporali.
Una di queste simmetrie matematiche è stata definita “supersimmetria“. Si tratta ancora di un costrutto teorico e non sappiamo se effettivamente fa parte di una proprietà reale della natura. Se lo fosse probabilmente farebbe luce, fra l’altro, sulla materia oscura e se la teoria delle stringhe è la candidata giusta per unificare la gravità e la meccanica quantistica.
Sfortunatamente la supersimmetria prevede un certo numero di particelle subatomiche ancora mai rilevate. Come per il concetto di universalità anche le simmetrie hanno la loro eccezione. I fisici hanno teorizzato la cosiddetta “rottura della simmetria“, Ma cos’è la rottura della simmetria?
In fisica la rottura spontanea di simmetria è un fenomeno fisico in cui la perdita nahttps://it.wikipedia.org/wiki/Fisicaturale di simmetria di un sistema non avviene a livello fondamentale, rimanendo valida nelle equazioni che lo governano. A fini esplicativi si usa anche il termine simmetria nascosta.
Il fenomeno è presente estesamente in meccanica classica ed in meccanica quantistica relativamente alla teoria quantistica dei campi. La rottura di simmetria ha aiutato i fisici a capire i componenti fondamentali della materia, cioè le particelle elementari e le forze che le legano.
L’ultimo elemento della “sacra trimurti” è il riduzionismo. In epistemologia il termine riduzionismo rispetto a qualsiasi scienza sostiene che gli enti, le metodologie o i concetti di tale scienza debbano essere ridotti al minimo sufficiente a spiegare i fatti della teoria in questione. In questo senso il riduzionismo può essere inteso come un’applicazione del cosiddetto “rasoio di Occam” secondo cui non bisogna aumentare senza necessità le entità coinvolte nella spiegazione di un fenomeno.
Questa idea risale al filosofo greco Democrito, padre dell’atomismo. In fisica il riduzionismo cerca di determinare i costituenti fondamentali della materia ma anche in questo caso, è evidente il tallone d’Achille di questo concetto, che pur non minandone la validità complessiva, pone dei limiti a quanto possiamo apprendere da una sua applicazione generalizzata.
Prendiamo ad esempio l’acqua. Si possono certamente studiare tutte le proprietà di una molecola di H2O: la geometria dei legami tra atomi di ossigeno e idrogeno e le regole quantistiche che li governano, il modo in cui le molecole d’acqua stanno insieme e si dispongono, e così via. Ma non riusciremmo mai, guardando solo ai costituenti a livello molecolare, a dedurre la proprietà dell’acqua di essere bagnata. Questa proprietà «emergente» diviene evidente solo quando trilioni di molecole d’acqua si presentano tutte insieme.
Il fatto che esistano emergenze come il calore, la pressione o il bagnato che non possiamo spiegare a livello dei costituenti fondamentali della materia non implica che un sistema sia più della somma delle sue parti, a patto che queste proprietà emergenti siano anch’esse costruite su concetti ancora più basilari, come le forze elettromagnetiche tra particelle subatomiche, nel caso dell’acqua.
Fonti: alcune voci di Wikipedia, Il mondo secondo la fisica di J. Al Khalili

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Giove: la sonda Juno rivela gli “hot spot”

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Giove viene considerato il pianeta più bello del nostro sistema solare ma sono molti i misteri che ancora riserva agli studiosi; uno di questi sono i cosiddetti “hot spot” della sua atmosfera, i quali sono regioni quasi totalmente prive di nubi dalle quali il calore interno può essere emesso liberamente senza che esso sia assorbito dalla copertura nuvolosa, che avvolge il pianeta.

Finestre da cui osservare gli strati più profondi dell’atmosfera

I risultati delle osservazioni di Juno, la quale dal 2016 orbita attorno a Giove, sono stati presentati lo scorso 11 dicembre durante la conferenza autunnale dell’American Geophysical Union, tenutasi quest’anno in modalità virtuale.
La sonda ha completato il suo 29° passaggio scientifico ravvicinato attorno al gigante gassoso e Scott Bolton, ricercatore presso il Southwest Institute di Sant’Antonio e uno dei responsabili del progetto, ha spiegato che i pianeti giganti hanno atmosfere profonde senza una base solida o liquida come la Terra e per capire cosa succede negli strati più bassi di esse è necessario guardare attraverso lo strato di nubi che le avvolge e, a questo scopo, le osservazioni della sonda Juno sono fondamentali perché forniscono indizi su vecchi misteri irrisolti e inducono gli studiosi a porsi domande nuove.
Le sue rilevazioni mostrano che l’intera fascia nord equatoriale è generalmente molto secca e ciò porta a pensare che gli hot spot non siano un fenomeno isolato e che caratterizzino un’ampia regione dell’atmosfera gioviana, più secca e calda in paragone ad altre.

I fulmini di Giove

Essi, inoltre, sono associati a “spiragli” nei banchi di nuvole, da dove è possibile lanciare uno sguardo verso le pieghe più profonde dell’atmosfera del pianeta; inoltre gli hot spot sono affiancati da nuvole e tempeste attive, le quali alimentano scariche elettriche nell’alta e fredda atmosfera di Giove,
Tristan Guillot è un altro ricercatore impegnato nel progetto relativo alla sonda Juno e  lavora presso l’Université Côte d’Azur a Nizza, in Francia; egli ha spiegato che nella parte superiore dell’atmosfera del pianeta si notano i fulmini superficiali, i quali sono formati da nuvole costituite da ammoniaca e acqua, le quali danno origine anche alla formazione di grandine ammoniacale, denominata dai ricercatori “mushballs“.
Queste palline di grandine sono costituite da strati di fanghiglia composta da una miscela di acqua per 2/3 e di ammoniaca per 1/3. La ricopertura è costituita semplicemente da uno spesso strato ghiacciato.

L’ammoniaca si “nasconde” a Juno

Bolton ha spiegato che l’ammoniaca in realtà non manca negli strati più profondi dell’atmosfera di Giove, come si è ipotizzato fino ad adesso dalle analisi dei dati forniti dalle varie sonde, che, nel tempo, si erano avvicinate a Giove; in realtà essa è trasportata in profondità da questa grandine; quando tali chicchi diventano pesanti e ricadono nell’atmosfera apparentemente si determina un’ampia area priva di ammoniaca ed acqua. Questa circostanza si spiega con il fatto che quando l’acqua e l’ammoniaca sono in uno stato liquido sono invisibili agli strumenti delle sonde terrestri; le due sostanze diventano di nuovo visibili allo “sguardo” di Juno solo quando i chicchi si sciolgono ed evaporano ritornando allo stato gassoso.

Un nuovo ciclone osservato da Juno

Juno ha osservato anche un fenomeno legato ai cicloni che caratterizzano il polo sud del pianeta; la sonda della Nasa ha osservato un vortice, mai osservato prima, più piccolo di tutti gli altri, il quale è parso volersi unire agli altri, ma il suo tentativo non è riuscito ed è stato respinto e alla fine si è dissolto.
I cicloni del polo meridionale di Giove sono un mistero che gli studiosi stanno cercando di comprendere utilizzando anche alcuni modelli informatici.
La sonda Juno continuerà a orbitare attorno a Giove per 37 orbite pianificate del pianeta e continuerà a raccogliere dati sempre più importanti per scoprire maggiori caratteristiche di questo luogo straordinario.

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Artemis III, missione lunare, quali sono gli obiettivi?

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La NASA ha finalmente rilasciato una carrellata di obiettivi scientifici per la missione Artemis III, tra cui la geologia sul campo, la raccolta e il ritorno dei campioni e diversi esperimenti che saranno effettuati per vedere il risultato  in un ambiente lunare.

Scoprire l’evoluzione della Luna

La scienza condotta in questa missione ha il potenziale per gettare più luce sull’evoluzione della Luna e le sue interazioni con il Sole, la Terra e altri corpi celesti. Potrebbe anche demistificare di più su come si è realmente formata la Luna o su come l’acqua e altri volatili (sostanze che possono facilmente vaporizzare) sono atterrati lì. Anche se Artemis III potrebbe non scoprire tutto, farà sicuramente più luce su diverse questioni.

L’augurio di Renee Weber, co-presidente di Artemis III

Volevamo mettere insieme ciò che era più convincente per la comunità scientifica sulla Luna con ciò che gli astronauti possono fare sulla superficie lunare e come i due possono rafforzarsi a vicenda“, ha detto Renee Weber, co-presidente di Artemis III Science Definition Team e capo scienziato presso il Marshall Space Flight Center della NASA, che ha guidato il rapporto ufficiale su ciò che avrà la priorità scientifica per gli astronauti Artemis.

A suo dire il duro lavoro del team garantirà che si è in grado di sfruttare il potenziale della missione Artemis III e che si può “imparare” dalla Luna come porta d’accesso al resto del sistema solare.

Sette obiettivi NASA sulla Luna

L’agenzia spaziale ha sette obiettivi che dovrebbero portare la scienza lunare al livello successivo. Mentre le missioni robotiche hanno restituito alcune scoperte sorprendenti, l’aggiunta dell’elemento umano può solo portare avanti le scoperte di quelle missioni.

Primo obiettivo, i processi geofisici

Il primo obiettivo della NASA è comprendere i processi geofisici avvenuti e in corso sulla Luna. Questo potrebbe illuminare di più su fenomeni come le antiche eruzioni vulcaniche.

Secondo obiettivo, l’acqua ghiacciata

L’obiettivo due approfondirà i volatili lunari ai poli, principalmente acqua ghiacciata, come un modo per guardare indietro nel tempo fino alla loro origine.

Terzo obiettivo, impatti tra la Terra e la Luna

Il terzo obiettivo è interpretare la storia degli impatti tra la Terra e la Luna: questa potrebbe potenzialmente essere l’ultima parola sul fatto che la Luna fosse una volta un pezzo del nostro pianeta o un planetoide che è stato catturato dalla gravità terrestre.

Quarto obiettivo, il Sole

Vedere il Sole da un punto di vista lunare è anche un vantaggio per il quarto obiettivo, che è guardare miliardi di anni nel passato, quando la nostra stella era giovane e il sistema solare era temperamentale. Allora le cose si scontravano continuamente. Ciò potrebbe essere correlato ad alcuni degli obiettivi precedenti perché gli asteroidi o le comete che trasportano acqua o altri elementi volatili probabilmente hanno colpito la Luna mentre gli oggetti hanno continuato a volare nel caos più totale per eoni.

Quinto obiettivo, Point Of View

Il quinto obiettivo utilizza anche l’esclusivo POV per osservare il nostro ambiente cosmico da qualche altra parte; immagina di capovolgere le posizioni e di guardare la Terra ogni notte invece della Luna.

Sesto obiettivo, esperimenti scientifici

In modo diverso, il sesto obiettivo è quello di portare a termine esperimenti scientifici sulla Luna per vedere cosa accadrebbe rispetto ai risultati sul pianeta natale.

Settimo obiettivo, l’esplorazione

L’obiettivo sei potrebbe anche aiutare con il settimo obiettivo, che è capire come esplorare con il minor rischio possibile. Ci vorrà davvero un po’di sperimentazione.

La polvere lunare

La polvere lunare è così abrasiva che gli astronauti dell’Apollo spesso si lamentavano di come si sarebbero consumati i loro stivali e la parte inferiore delle gambe delle loro tute spaziali, per non parlare del fatto che respirando accidentalmente dava ad alcuni di loro una tosse come nessun altro. La polvere lunare rappresenta anche un rischio per gli strumenti ipersensibili che potrebbero raggiungere alcuni degli altri obiettivi purché non siano danneggiati.

Poiché la luna non ha vento o acqua che scorre per erodere particelle del suo suolo come fa la Terra, rimangono pezzi di metallo affilati come rasoi mescolati con schegge di vetro che erano il sottoprodotto dell’attività vulcanica o fusione da collisioni di asteroidi.

La regolite lunare nasconde l’ossigeno

Almeno la regolite lunare nasconde l’ossigeno che gli astronauti, sia nelle missioni Artemis III che in quelle future, possono eventualmente estrarre sul posto e utilizzare sia per la respirazione che per il carburante per missili. Processi come questo potrebbero essere parte integrante delle missioni su Marte e dei viaggi nello spazio profondo se si può dimostrare che funzionano in modo coerente sulla Luna. Mentre il Lunar Gateway ha ancora alcuni anni prima che sia operativo, la NASA considera la Luna stessa una porta verso l’ultima frontiera.

Fonte: https://www.syfy.com/syfywire/science-first-artemis-astronauts-will-do-on-moon

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L’arma segreta delle api contro i calabroni

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Ogni mondo ha le sue guerre, ed in quello animale ce ne sono diverse. La api, ad esempio, tra gli insetti più intelligenti del pianeta, stanno avviando da un po’ di tempo una sorta di “guerra chimica” contro i terribili nemici calabroni.

Questa battaglia, ma soprattutto questa difesa da parte delle api del loro alverare e delle loro larve, obiettivo dei calabroni, sta avvenendo in Asia.
A differenza dei loro cugini in Nord America, dove i calabroni mangiatori di api sono arrivati ​​solo di recente, le api asiatiche vengono cacciate senza sosta da queste vespe giganti. Gli attacchi costanti hanno portato l’evoluzione delle api asiatiche a una marcia in più, tanto che gli insetti sono riusciti a sviluppare diverse tattiche difensive oltre a usare semplicemente le loro punture.

La difesa delle api

In primo luogo, le api mellifere asiatiche costruiscono i loro nidi come fortezze, con minuscoli ingressi e pareti robuste. Sibilano anche aggressivamente ai predatori, per avvertirli che vengono monitorati. E, se non funziona, possono sommergere gli aggressori in “palle d’api“, che generano un tale calore che i calabroni all’interno vengono cotti vivi.
Ora, uno studio pubblicato su PLOS ONE, di Heather Mattila, del Wellesley College, nel Massachusetts, mostra che queste api hanno ancora un altro asso nella manica: proteggono le loro case con lo sterco.

La tattica di attacco dei calabroni

Vespa mandarinia e Vespa soror sono conosciuti come calabroni assassini per un motivo. Quando gli esploratori di queste specie trovano un alveare di api, atterrano e lasciano segni chimici vicino all’ingresso. Dopo di che tornano con altri 50 rinforzi per lanciare un attacco. Armati di mascelle potenti e di una robusta armatura che li rende resistenti alle punture di api, i calabroni assediano l’ingresso dell’alveare e cercano di farlo a pezzi in modo che possano entrare con la forza. Sono attaccati dalle api guardiane mentre lo fanno, e a volte vengono scacciati con successo. Ma non sempre. Spesso entrano e, una volta lì, ogni calabrone uccide migliaia di api. Questo massacro apre la strada ai calabroni per raccogliere il vero bersaglio dell’attacco, la covata di larve che si sviluppa nell’alveare. Questi li portano via per nutrire i propri piccoli che li aspettano al nido.

Gli attacchi di calabroni sono devastanti per l’apicoltura

Gli attacchi di calabroni sono devastanti per l’apicoltura, quindi c’è un grande interesse da parte degli apicoltori nel trovare modi per aiutare le loro api a tenere a bada questi predatori. Quando il coautore della dottoressa Mattila Gard Otis, dell’Università di Guelph, in Canada, ha appreso da un apicoltore in Vietnam che le api attaccano sfere di sterco di bufalo d’acqua sui loro alveari dopo essere state visitate dai calabroni, è stato deciso di approfondire la cosa.

Monitorati 339 alveari in Vietnam

Ciò, a sua volta, ha portato il dottor Otis, il dottor Mattila ei loro colleghi a visitare il Vietnam, dove hanno monitorato 339 alveari di api. Hanno scoperto che molti di questi alveari erano effettivamente ricoperti di globi di quello che sembrava letame, e che la maggior parte di questi globi erano raggruppati attorno all’ingresso dell’alveare. Quando hanno monitorato i movimenti delle api, hanno scoperto non solo che le api raccoglievano sterco di bufalo, ma anche che creavano regolarmente globi dalle feci raccolte in un pollaio e un mucchio di letame in un recinto di maiali. Un ulteriore monitoraggio degli alveari ha mostrato che le api hanno rapidamente attaccato centinaia di globi di feci ai loro alveari dopo gli attacchi di calabroni.

L’esperimento del team

Per vedere se questa fosse una conseguenza dei segni chimici, la ricercatrice Mattila ei suoi colleghi hanno raccolto estratti dalle ghiandole usate dai calabroni per secernere le sostanze coinvolte. Hanno quindi immerso alcune carte da filtro in questi estratti e hanno messo pezzi di questo materiale vicino agli ingressi dell’alveare. Come controllo, hanno anche immerso nell’etere alcune carte da filtro e hanno distribuito anche quelle vicino agli ingressi di altri alveari.

L’estratto di calabrone ha provocato una forte risposta. Entro un giorno dal suo arrivo i membri dell’alveare hanno creato una media di 15 globi vicini. L’etere ha provocato una media di solo due. Ciò suggerisce che le api sono davvero sagge per la tattica di marcatura dei calabroni e si preparano di conseguenza per un potenziale attacco.

Il metodo delle api è efficace

Per assicurarsi che i globi aiutino effettivamente le api a difendere i loro alveari, il team ha registrato alcuni attacchi. Un alveare ben inglobato, hanno scoperto, ha ridotto del 94% il tempo impiegato dai calabroni per tentare di entrare.

Perché i globuli di feci respingono i calabroni rimane un enigma. Mattila ipotizza che lo sterco contenga composti che in qualche modo antagonizzano i calabroni. Nello specifico, si tratterebbe di sostanze difensive sintetizzate dalle piante che mangiano bufali, maiali e polli. Se questa idea si rivela davvero corretta, allora sembra che le api asiatiche abbiano inventato una forma efficace di guerra chimica.

Fonte: https://www.economist.com/science-and-technology/2020/12/12/bees-defend-their-hives-against-hornets-with-animal-dung

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