Cina e USA in guerra sulle tecnologie

È in corso una strisciante guerra tecnologica tra Stati Uniti e Cina, fatta di colpi bassi, dazi, e tentativi di infiltrazione

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Hu Xijin, direttore del Global Times, che è un giornale cinese molto nazionalista ed esagerato ma che spesso ha il polso di quello che pensa l’ opinione pubblica della Repubblica popolare, ha scritto sui social network locali che “possiamo tranquillamente considerare l’ arresto di Meng Wanzhou da parte degli americani come una dichiarazione di guerra contro la Cina“. Come era facile immaginare, questa presunta “dichiarazione di guerra” è arrivata dal settore della tecnologia, quello che più di ogni altro sarà decisivo per capire quale sarà la potenza dominante del Ventunesimo secolo: in un’era che è sempre più governata dalla tecnologia, chi ne ha il predominio conquisterà il mondo.

Ma se davvero c’è una guerra, quali sono i suoi campi di battaglia? Dove si collocano le forze in campo? E chi ha maggiori possibilità di vincere?

Il primo scontro, quello da cui originano anche l’ affaire Huawei e l’ arresto di Meng Wanzhou, riguarda il 5G, le connessioni di nuova generazione. Gli esperti dicono che nel giro di pochi anni sulle nostre strade viaggeranno automobili che si guidano da sole.

Per farlo, i veicoli devono essere sempre connessi, e l’ unica connessione abbastanza veloce per farli funzionare (servono velocità e ridotta latenza, cioè tempo di risposta immediato) sarà il 5G. Allo stesso tempo, si progettano centrali elettriche intelligenti, capaci di riconoscere i problemi prima che avvengano perché sono sempre connesse: ovviamente al 5G. Gli F-35, gli aerei da guerra di nuova generazione costruiti dall’ America, possono dare il massimo del loro potenziale in guerra soltanto se sono sempre connessi: indovinate a cosa? Al 5G.

L’Amministrazione americana considera il 5G come un’ infrastruttura strategica, al pari del sistema autostradale voluto da Eisenhower, e chiaramente non vuole che a costruirlo sia un’ azienda cinese come Huawei, né in patria né nei paesi alleati perché teme operazioni di spionaggio e boicottaggio. L‘Australia e la Nuova Zelanda hanno bandito Huawei dagli appalti per il 5G: non sono paesi minori, perché fanno parte del Five Eyes, l’alleanza di stati che hanno la più stretta condivisione d’ intelligence con Washington.



Gli altri due membri del Five Eyes, Canada e Regno Unito, potrebbero seguire: questa settimana il capo dell’ agenzia d’ intelligence canadese ha messo in guardia il paese dall’avvalersi di Huawei, e British Telecom ha scaricato l’ azienda cinese, dopo molti avvertimenti da parte di agenzie di regolamentazione e d’intelligence. In Germania, il governo vuole inasprire i controlli.

Il secondo campo di battaglia decisivo è quello dell’intelligenza artificiale. Torniamo all’automobile che si guida da sola.

La connessione 5G è necessaria al veicolo per connettersi e ottenere i dati di navigazione, servono degli algoritmi di intelligenza artificiale molto sofisticati per consentire all’ automobile di navigare e districarsi tra gli ostacoli, distinguere un pedone in movimento da un cartello stradale, calcolare la traiettoria migliore. L’ intelligenza artificiale ha innumerevoli altri utilizzi, tra i quali moltissimi di tipo militare, ed è imperativo per la superpotenza dal Ventunesimo secolo padroneggiare la tecnologia.

Qui lo scontro è a due: Stati Uniti e Cina sono a oggi gli unici paesi al mondo che hanno centri di ricerca abbastanza avanzati da poter contare qualcosa. La guerra sull’intelligenza artificiale è anzitutto una lotta sui cervelli: chi ha i ricercatori più bravi vince.

Guardate per esempio ad Andrew Ng, luminare del campo, che è cinese ma ha cittadinanza americana. Dapprima è stato il capo dell’ intelligenza artificiale di Google, poi è passato all’azienda cinese Baidu, che grazie a lui è diventata una superpotenza nel campo. La ricerca sull’intelligenza artificiale, infatti, si basa in gran parte sull’apporto delle grandi aziende digitali, da Google e Amazon a Baidu e Tencent, e qui il protezionismo è feroce, specie da parte cinese: Pechino non vuole i giganti americani nel suo mercato, e se prima le ragioni principali riguardavano la censura del dissenso, oggi riguardano la lotta per la supremazia nell’intelligenza artificiale.

Nell’ottobre del 2017, Xi Jinping ha tenuto al Congresso del Partito un discorso di più di tre ore in cui esortava il popolo a diventare il numero uno nel campo, perché questa tecnologia cambierà il mondo. L’esperto Kai Fu Lee (ex capo di Google Cina) ha detto che quel discorso fu come quando Kennedy promise che gli americani sarebbero andati sulla Luna.

Terzo campo di battaglia: la nostra automobile che si guida da sola, oltre alle connessioni e agli algoritmi ha bisogno di microprocessori potenti per poter calcolare tutti i dati. L’Economist è stato molto esplicito in un suo articolo di copertina quando ha parlato di una guerra dei chip: le automobili diventano computer su ruote, le portaerei diventano computer in navigazione, i missili balistici diventano computer che portano distruzione, e tutta questa computerizzazione si basa sui microchip.

Qui la Cina ha un grosso problema: i suoi chip non sono avanzati abbastanza, e l’America è in forte vantaggio. Quando Donald Trump ha imposto alle aziende americane di non vendere componenti a Zte (in gran parte chip, appunto), la compagnia cinese è stata costretta a chiudere la produzione. Huawei è meno dipendente dalla tecnologia americana, ma la possibilità di un bando del genere terrorizza tutte le aziende cinesi che si occupano di tecnologia, e ha spinto il governo a correre ai ripari.

Il piano “Made in China 2025“, che è la versione locale di Industria 4.0 e prevede la trasformazione del paese in una superpotenza tecnologica nel giro di pochi anni, è molto spostato proprio sui microchip, un mercato che valeva 412 miliardi di dollari nel 2017 e che è la base per ogni altra tecnologia digitale. Huawei è una delle poche aziende cinesi che può fare microchip di alto livello.

America e Cina combattono anche per il predominio di internet. Il web è un’invenzione americana, ed è per questo che tutti i protocolli e tutti gli enti regolatori sono gestiti da enti americani. Ma la Cina, che in questo è sostenuta da Russia, India e Brasile, non vuole sottostare al dominio di Washington, e ha cominciato a costruire la sua rete, più chiusa, in un’operazione di nazionalismo digitale e lo stesso sta facendo anche la Russia. Questo significa boicottare Google e Facebook, ma anche creare infrastrutture nuove, stendere cavi sottomarini alternativi a quelli degli americani, rimpiazzare l’influenza occidentale sul web.

Un capitolo a parte lo merita l’industria aerospaziale. Mentre in America prosperano progetti privati come SpaceX di Elon Musk, è nata una “Space Force“, un’armata indipendente sia dall’aviazione sia dalla Nasa in grado di mettere in sicurezza la cosa più preziosa che c’è quando si parla di telecomunicazioni: i satelliti.

La Cina sta lavorando già da anni al suo sistema di posizionamento BeiDou 2, che sarà sempre più importante nell’ economia globale e farà concorrenza all’americano Gps – per intenderci, quello che si usa per le mappe di Google sullo smartphone. Sul fronte aerospaziale, il governo cinese non ha mai voluto rendere indipendente l’industria dalle Forze armate, e quindi da Pechino.

Anche dal punto di vista della scienza applicata alle cose terrene, come la scienza medica, l’obiettivo cinese resta quello dell’egemonia.

Lo dimostra l’accelerazione che ha fatto Pechino sull’ingegneria genetica: mentre l’occidente è vincolato da riflessioni di tipo bioetico, periodicamente arrivano dalla Cina notizie che hanno massima eco sui giornali internazionali.

Fece scalpore da noi la notizia del “Dr. Frankenstein”, lo scienziato cinese He Jiankui, che avrebbe fatto nascere una coppia di gemelli il cui Dna era stato modificato grazie alla tecnica Crispr. Una tecnica che va a modificare il genoma umano e che dalla comunità scientifica occidentale è considerata l’inizio di un percorso verso l’eugenetica. L’iniziativa del dottor He è stata condannata perfino da Pechino, ma non è la prima volta che gli scienziati cinesi si spingono più in là di quanto farebbero quelli occidentali.

Successivamente, l’Istituto cinese di neuroscienze di Shanghai, coordinato da Qiang Sun, ha clonato per la prima volta due scimmie con la stessa tecnica con la quale negli anni Novanta fu clonata la pecora Dolly.

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