mercoledì, Aprile 30, 2025
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Acque sotterranee dell’antico Marte: capire il loro flusso aiuterà l’esplorazione futura del Pianeta Rosso

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Una nuova ricerca ha rivelato che l’antico Marte è stato caratterizzato da un tasso di ricarica delle acque sotterranee significativamente basso, suggerendo che, nonostante l’evidenza di acqua sulla sua superficie, il regime idrico del pianeta è stato molto diverso da quello della Terra.

Marte, campioni incontaminati di Marte, acque sotterranee

La ricarica delle acque sotterranee su Marte

La documentazione geologica di Marte ha prodotto prove dell’esistenza in superficie dei fiumi e delle valli scavate da importanti inondazioni improvvise. Un nuovo studio tuttavia mostra che, indipendentemente dalla quantità di pioggia caduta sulla superficie dell’antico Marte, pochissima di essa è filtrata in una falda acquifera negli altopiani meridionali del Pianeta Rosso.

Uno studioso dell’Università del Texas ad Austin ha fatto questa scoperta modellando le dinamiche di ricarica delle acque sotterranee per la falda acquifera utilizzando una serie di metodi, dai modelli computerizzati a semplici calcoli.

Indipendentemente dal grado di complessità, i risultati convergono sulla stessa risposta: in media, un irrisorio 0,03 millimetri di ricarica delle acque sotterranee all’anno. Questo significa che, ovunque cadesse la pioggia nel modello, solo una media di 0,03 millimetri all’anno sarebbero potuti entrare nella falda acquifera e produrre comunque le morfologie che sono presenti oggi su Marte.

Perché Marte è rosso? UAV, campioni incontaminati di Marte, acque sotterranee

Per fare un confronto, il tasso annuale di ricarica delle acque sotterranee per le falde acquifere del Trinity e dell’Edwards-Trinity Plateau che forniscono acqua a San Antonio varia generalmente da 2,5 a 50 millimetri all’anno, ovvero da circa 80 a 1.600 volte il tasso di ricarica della falda acquifera marziana calcolato dai ricercatori.

Ci sono una serie di potenziali ragioni per portate così marginali delle acque sotterranee, ha spiegato l’autore principale Eric Hiatt, ricercatore della Jackson School of Geosciences. Quando ha piovuto, l’acqua potrebbe essersi riversata principalmente sul paesaggio marziano come deflusso, oppure potrebbe semplicemente non aver piovuto molto.

Come si è svolto lo studio sulle dinamiche delle acque sotterranee del Pianeta Rosso

Il fatto che le acque sotterranee non siano un processo così grande potrebbe significare che lo sono anche altre cose“, ha aggiunto Hiatt: “Potrebbe amplificare l’importanza del deflusso, o potrebbe significare che semplicemente non ha piovuto così tanto su Marte, ma è fondamentalmente diverso dalla Terra”.

I modelli utilizzati nello studio hanno simulato il flusso delle acque sotterranee in un ambiente “stazionario” in cui l’afflusso e il deflusso dell’acqua nella falda acquifera sono stati bilanciati. Gli scienziati hanno poi modificato i parametri che hanno influenzato il flusso, ad esempio, dove cade la pioggia o la porosità media della roccia, e hanno osservato quali altre variabili dovrebbero cambiare per mantenere lo stato stazionario e quanto siano plausibili tali cariche.

Altri ricercatori invece hanno simulato il flusso delle acque sotterranee su Marte utilizzando tecniche simili, questo modello è il primo a incorporare l’influenza degli oceani che sono esistiti sulla superficie di Marte più di tre miliardi di anni fa nei bacini di Hellas, Argyre e Borealis.

Lo studio ha incorporato anche moderni dati topografici raccolti dai satelliti. Il paesaggio moderno ha conservato ancora una delle caratteristiche topografiche più antiche e influenti del pianeta, un’estrema differenza di altitudine tra l’emisfero settentrionale, le pianure, e l’emisfero meridionale, gli altopiani, nota come la “grande dicotomia”.

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La dicotomia conserva segni di passate risalite delle acque sotterranee in cui esse hanno ripreso quota dalla falda acquifera alla superficie. I ricercatori hanno utilizzato i marcatori geologici di questi eventi passati di risalita per valutare i diversi risultati del modello.

Attraverso diversi modelli, i ricercatori hanno confermato che il tasso medio di ricarica delle acque sotterranee di 0,03 millimetri all’anno corrisponde maggiormente a quello che è noto sulla documentazione geologica.

Comprendere le dinamiche del passato delle acque sotterranee, aiuterà la ricerca di queste risorse nel futuro

La ricerca non riguarda solo la comprensione del passato del Pianeta Rosso. Questo studio ha implicazioni anche per la futura esplorazione di Marte. Comprendere il flusso delle acque sotterranee può aiutare a capire dove trovare l’acqua oggi.

Che si stiano cercando segni di vita antica, o cercando di sostenere esploratori umani o producendo carburante per missili per tornare a casa sulla Terra, è essenziale sapere dove l’acqua è reperibile.

La ricerca è stata finanziata dalla NASA , dall’Istituto di geofisica dell’Università del Texas e dall’UT Center for Planetary Habitability.

I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Icarus. I coautori dell’articolo sono Mohammad Afzal Shadab, della Jackson School e i membri della facoltà Sean Gulick, Timothy Goudge e Marc Hesse.

Come la fisica affronta l’origine dell’universo

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Come si accese la luce universo all'alba dei tempi universo
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Tra tutte le domande che l’umanità si è posta sull’universo, forse la più profonda è “da dove viene tutto ciò?”.

Per intere generazioni ci siamo raccontati storie inventate, e tra tutte queste storie abbiamo sempre scelto quella che ci sembrava più opportuna. Solo di recente abbiamo capito che le risposte alle nostre domande possono essere acquisite esaminando l’universo; ovvero da quando le misurazioni scientifiche hanno iniziato a risolvere tutti i dubbi che avevano ostacolato filosofi e teologi.

Come si accese la luce all'alba dei tempi universo

Il 20° secolo ha portato con sé la Relatività Generale, la fisica quantistica e il Big Bang, tutte teorie supportate da osservazioni spettacolari e successi sperimentali. Questi fenomeni ci hanno permesso di strutturare delle previsioni teoriche, che, dopo essere state opportunamente testate, hanno superato pienamente il vincolo sperimentale.

Le origini dell’universo

Con l’eccezione del Big Bang, però, lo scenario di queste previsioni lascia ancora irrisolti alcuni problemi, per i quali è necessario un più approfondito studio. Ogni qualvolta si è cercato di approfondire la nostra conoscenza, ci si è sempre trovati di fronte a una conclusione sconfortante: ogni informazione sulle origini dell’universo non è più contenuta all’interno del cosmo che oggi possiamo osservare. Cerchiamo di tracciare una cronistoria di questo percorso di ricerca.

Negli anni Venti del secolo scorso, a seguito del perfetto incrocio tra due insiemi di osservazioni, è cambiata per sempre la nostra concezione dell’universo. Negli anni precedenti, un gruppo di scienziati guidati da Vesto Slipher aveva iniziato a misurare le linee spettrali – ovvero le proprietà di emissione e di assorbimento della materia – di una varietà di stelle e di nebulose.

Poiché gli atomi, dovunque essi si trovino nell’universo, sono sempre gli stessi, gli elettroni che sono al loro interno effettuano le medesime transizioni: essi hanno gli stessi spettri di assorbimento e di emissione. Ma un paio di queste nebulose, quelle a forma ellittica e spiraleggianti, presentano un forte spostamento verso il rosso (redshift), che corrisponde ad elevate velocità di recessione: più veloci di qualunque altro elemento nella nostra galassia.

L’universo in espansione

A partire dal 1923, Edwin Hubble e Milton Humason, iniziarono a misurare singole stelle all’interno di queste nebulose, riuscendo a determinarne la distanza dalla Terra. Queste stelle si trovavano abbondantemente oltre la nostra Via Lattea: la maggior parte di esse si trova a milioni di anni luce.

Mettendo insieme misurazioni di distanze e di redshift, si perviene a una sola conclusione, supportata anche teoricamente dalla teoria della Relatività di Einstein: l’universo si sta espandendo. Più una galassia è lontana, più velocemente essa appare allontanarsi da noi.

Se oggi l’universo fosse in espansione, allora si dovrebbero verificare le situazioni sotto riportate.

  1. L’universo è sempre meno denso, poiché la quantità di materia in esso contenuta (sempre uguale) occupa un volume crescente.

  2. L’universo è sempre più freddo, in quanto la luce al suo interno viene portata a lunghezze d’onda sempre più ampie.

  3. Le galassie che non interagiscono gravitazionalmente si allontanano sempre di più.

Quelle sopra descritte sono delle situazioni che ci permettono di sviluppare delle previsioni su cosa accadrà all’universo, man mano che trascorre il tempo. Ma le leggi della fisica che ci dicono cosa accadrà nel futuro, sono le stesse che possono dirci cosa è accaduto nel passato, e lo stesso universo non fa eccezione. Se l’universo oggi si sta espandendo, si sta raffreddando e sta diventando meno denso, ciò significa che, in un passato remoto, esso è stato più piccolo, più caldo e più denso.

La grande idea del Big Bang era quella di portare l’universo più indietro possibile: retrocedendo nel tempo, a stati sempre più caldi, più densi e più uniformi. Questo percorso ha condotto a una serie di previsioni rilevanti, tra cui:

  • le galassie più distanti dovrebbero essere più piccole, più numerose, con massa inferiore e più ricche di stelle calde e blu, rispetto alle loro omologhe di oggi;

  • guardando indietro nel tempo dovrebbero esserci sempre meno elementi pesanti;

  • dovrebbe essere esistito un tempo in cui l’universo era così caldo da creare atomi neutri (e un miscuglio residuo di radiazione attuale fredda, che esiste da quei primordi);

  • dovrebbe essere esistito un tempo in cui i nuclei atomici sono stati disintegrati dalla radiazione a elevata energia (lasciando una miscela residua di isotopi di idrogeno e di elio).

Le previsioni sopra descritte sono state tutte e quattro confermate sperimentalmente, con quel residuo bagno di radiazione – originariamente noto con il termine di palla di fuoco primordiale e che oggi chiamiamo radiazione cosmica di fondo – scoperto nella metà degli anni Sessanta e a cui spesso ci si riferisce come alla pistola fumante del Big Bang.

Ciò porterebbe a pensare che si possa estrapolare il Big Bang fino in fondo, ovvero fino a quando tutta la materia e l’energia dell’universo siano concentrate in un unico punto. In questa situazione l’universo raggiungerebbe temperature e densità infinitamente elevate, creando una condizione fisica nota come singolarità: dove le leggi della fisica, così come oggi le conosciamo, forniscono delle previsioni che non hanno alcun senso e non possono essere validate.

Ed eccoci quindi, dopo anni di ricerche, a determinare le origini dell’universo. L’universo è iniziato, in un determinato tempo, con un Big Bang, corrispondente alla nascita dello spazio e del tempo; tutto ciò che è stato osservato, si può considerare come il prodotto di quell’evento.

Per la prima volta, si ha una risposta scientifica che, non solo dice che l’universo ha avuto un’origine, ma anche quando si è avuta questa origine. Riprendendo le parole di Georges Lamaitre, la prima persona a costruire la fisica dell’universo in espansione, il Big Bang è stato un giorno senza ieri.

Solo che il Big Bang ha messo in evidenza una serie di quesiti irrisolti, per i quali però non propone alcuna risposta.

Perché le regioni che sono casualmente scollegate – per esempio, non riescono a scambiarsi delle informazioni, nemmeno alla velocità della luce – hanno la stessa temperatura?

Perché, alle origini, la velocità iniziale di espansione dell’universo e la quantità totale di energia dell’universo (che gravita e quindi si oppone all’espansione), erano perfettamente bilanciate?

E perché, se alle origini sono state raggiunte temperature e densità così elevate, non vi sono residui di quei periodi, rimasti nell’universo attuale?

L’inflazione cosmica

Intorno agli anni Settanta, i fisici e gli astrofisici nutrivano delle forti perplessità relativamente a questi problemi, proponendo diverse teorie per giungere a delle risposte plausibili. Nel 1979, un giovane teorico di nome Alan Guth, propose una teoria che cambiò la storia.

Questa nuova teoria fu chiamata inflazione cosmica, e ipotizzava che forse l’idea del Big Bang poteva rappresentare una buona estrapolazione fino a un certo punto nel tempo, prima del quale sarebbe potuto esistere uno stato inflazionario. Invece di considerare arbitrariamente alte temperature, densità ed energie, l’inflazione afferma che:

  • l’universo non era pieno di materia e radiazione;

  • l’universo possedeva una grande quantità di energia contenuta nello stesso tessuto dello spazio;

  • questa energia ha causato l’espansione esponenziale dell’universo (con una velocità di espansione che non cambia con il tempo);

  • questa espansione conduce l’universo verso uno stato piatto, vuoto e uniforme, finché l’inflazione non si esaurisce.

Quando l’inflazione si è esaurita, l’energia connessa con lo spazio – energia che ha ovunque lo stesso valore, eccetto per le fluttuazioni quantistiche impresse su di esso – è stata convertita in materia ed energia, dando origine a un Big Bang a elevata temperatura.

Da un punto di vista teorico, questa ipotesi offreuna spiegazione fisica plausibile per quelle proprietà osservate, che il Big Bang da solo non era in grado di spiegare.

Le regioni casualmente disconnesse hanno la stessa temperatura perché discendono tutte dalla stessa zona inflazionaria di spazio. La velocità di espansione e la densità di energia sono perfettamente bilanciate perché, prima del Big Bang, l’inflazione ha dato all’universo quei valori di velocità di espansione e di densità di energia. E, infine, non vi sono residui ad alta energia di quei primordi, perché l’universo ha raggiunto una temperatura finita solo dopo che l’inflazione si è esaurita.

Inoltre, l’inflazione ha prodotto anche una serie di nuove previsioni che differivano da quelle del Big Bang non inflazionario, che potrebbero essere testate.

A oggi, sono stati raccolti dati che mettono alla prova quattro di queste previsioni:

  1. L’universo ha avuto un limite superiore massimo, non infinito, di temperatura, raggiunto durante il Big Bang;

  2. L’inflazione dovrebbe possedere delle fluttuazioni quantistiche che si trasformano in imperfezioni di densità nell’universo;

  3. Alcune fluttuazioni dovrebbero esistere su scale oltre l’orizzonte: è possibile che, dal Big Bang, siano pervenute delle fluttuazioni su scale più ampie di quelle della luce;

  4. Quelle fluttuazioni dovrebbero essere invarianti per dimensioni, con ampiezze leggermente più grandi su scale grandi rispetto a scale più piccole.

Con i dati acquisiti dai satelliti COBE, WMAP e Planck, sono state testate le quattro previsioni, e solamente la teoria inflazionaria supporta le previsioni, che sono in linea con quanto sperimentalmente osservato. Questo quindi significa che il Big Bang non è stato effettivamente l’inizio di tutto: esso è stato solo l’inizio dell’universo, così come siamo abituati a conoscerlo. Prima del Big Bang, vi era uno stato noto come inflazione cosmica, che, dopo la sua fine, ha dato origine al Big Bang, e oggi è possibile osservare i residui di questa inflazione cosmica.

Ma solo per una piccolissima frazione di un secondo dell’inflazione. Possiamo osservare i segnali che l’inflazione ha lasciato nell’universo solo per i suoi ultimi 10^-33 secondi. È possibile che l’inflazione sia durata quel preciso arco di tempo o poco più. È possibile che lo stato di inflazione sia eterno, o che sia transitorio, come originato da qualcos’altro. È possibile che l’universo sia nato da una singolarità, o derivi come parte di un ciclo, o che sia sempre esistito. Qualunque sia stata la situazione, oggi non disponiamo di alcuna informazione su quei momenti. L’inflazione – per sua stessa natura – cancella tutto ciò che è esistito nell’universo pre inflazionario.

L’inflazione è come spingere il tasto reset del cosmo. Tutto ciò che esisteva prima dello stato inflazionario viene espanso così rapidamente e completamente, che tutto ciò che rimane è uno spazio vuoto e uniforme, con le sole fluttuazioni quantistiche create dalla stessa inflazione. Quando l’inflazione si è esaurita, solo una piccola porzione di quello spazio è diventato l’universo che oggi osserviamo. Qualunque altra cosa, compresa ogni informazione che ci permetterebbe di ricostruire cosa sia successo nei primordi del nostro universo, oggi giace, e per sempre, al di fuori della nostra possibilità di conoscenza.

È in assoluto uno dei risultati più importanti della scienza: riuscire ad andare indietro miliardi di anni e capire quando, e come, l’universo, così come lo conosciamo oggi, sia arrivato fino a noi. Ma come tante avventure, fornire risposte ha destato nuove domande. Purtroppo, i dubbi che oggi attanagliano gli scienziati, difficilmente potranno essere risolti.

Se quell’informazione non è più presente nel nostro universo, sarà necessaria una vera e propria rivoluzione scientifica per risolvere il più grande dei quesiti: da dove viene tutto ciò?

I 3 rover CADRE esploreranno la Luna in sincronia (video)

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Rover CADRE
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Un trio di piccoli rover CADRE che esploreranno la Luna in sincronia tra loro si stanno avviando verso il lancio. Gli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory della NASA, nel sud della California, hanno recentemente finito di assemblare i robot, quindi li hanno sottoposti a una serie di test per assicurarsi che sopravvivessero al loro viaggio nello spazio e ai loro viaggi nell’ambiente lunare.

Rover CADRE

Le peculiarità dei rover CADRE

Parte di una dimostrazione tecnologica chiamata CADRE ( Cooperative Autonomous Distributed Robotic Exploration ), dove ogni rover a energia solare ha all’incirca le dimensioni di una valigia da bagaglio a mano.

I rover e l’hardware associato saranno installati su un lander diretto verso la regione Reiner Gamma della Luna. Trascorreranno le ore diurne di un giorno lunare, l’equivalente di circa 14 giorni sulla Terra, conducendo esperimenti esplorando, mappando e utilizzando un radar che penetra il terreno in modo autonomo e scruterà sotto la superficie della Luna.

L’obiettivo è dimostrare che un gruppo di veicoli spaziali robotici può lavorare insieme per svolgere compiti e registrare dati come una squadra senza comandi espliciti da parte dei controllori della missione sulla Terra. Se il progetto avrà successo, le missioni future potrebbero includere squadre di robot che si diffondono per effettuare misurazioni scientifiche simultanee e distribuite, potenzialmente a supporto degli astronauti.

Rover CADRE

Gli ingegneri hanno dedicato lunghe ore alla guida dei rover CADRE e all’elaborazione dei bug per completare l’hardware, sottoporli a test e prepararli per l’integrazione con il lander.

Siamo stati in piena attività per preparare questa demo tecnologica per la sua avventura lunare“, ha affermato Subha Comandur, project manager CADRE presso il JPL: “Sono stati mesi di test quasi 24 ore su 24 e talvolta di nuovi test, ma il duro lavoro del team sta dando i suoi frutti. Ora sappiamo che questi rover sono pronti a mostrare cosa può realizzare insieme una squadra di piccoli robot spaziali”.

Punishing test superati: i rover CADRE hanno dimostrato di poter tollerare l’ambiente ostile dello spazio

Sebbene l’elenco dei test sia lungo, i più aggressivi hanno simulato condizioni ambientali estreme per garantire che i rover CADRE potessero resistere al rigore del loro percorso spaziale.

Questo ha incluso l’essere rinchiusi in una camera a vuoto termico che ha simulato le condizioni senz’aria dello spazio e le sue temperature estreme sia calde che fredde. L’hardware è stato inoltre fissato a uno speciale “shaker table” che vibra intensamente per assicurarsi che potesse resistere al viaggio fuori dall’atmosfera terrestre.

Questo è quello a cui sottoponiamo i nostri rover CADRE: “shake” per simulare il lancio del razzo stesso e “bake” per simulare le temperature estreme dello spazio“, ha affermato Guy Zohar del JPL, responsabile del sistema di volo del progetto.

Rover CADRE

Stiamo utilizzando molte parti commerciali accuratamente selezionate nel nostro progetto. Ci aspettiamo che funzionino, ma siamo sempre un po’ preoccupati durante i test. Fortunatamente, ognuno di essi alla fine ha avuto successo”.

Gli ingegneri hanno anche eseguito test ambientali su tre elementi hardware montati sul lander: una stazione base con cui i rover CADRE comunicheranno tramite radio di rete mesh, una telecamera che fornirà una visione delle attività dei rover e i sistemi di distribuzione che li caleranno sulla superficie lunare tramite un cavo in fibra alimentato lentamente da una bobina motorizzata.

Ultime precauzioni prima del lancio

Gli ingegneri che hanno lavorato sul software di autonomia cooperativa di CADRE hanno trascorso molti giorni nel Mars Yard del JPL con versioni in scala reale dei rover chiamate modelli di sviluppo.

Con il software di volo e le capacità di autonomia a bordo, i rover CADRE di prova hanno dimostrato di poter raggiungere gli obiettivi chiave del progetto: hanno guidato insieme in formazione, di fronte a ostacoli imprevisti hanno modificato i loro piani in gruppo condividendo mappe aggiornate e riprogrammando percorsi coordinati e quando la carica della batteria di un rover è andata in riserva, l’intera squadra si è fermata per poter poi proseguire insieme.

Il progetto ha condotto diversi viaggi notturni sotto la luce di grandi fari in modo che i rover CADRE potessero sperimentare ombre e luci estreme che hanno simulato quelle che incontrerebbero durante il giorno lunare.

Rover CADRE

Successivamente, il team ha eseguito test di guida simili con modelli di volo in una camera bianca del JPL. Quando il pavimento immacolato si è rivelato un po’ scivoloso, una struttura diversa dalla superficie lunare, i rover CADRE sono usciti dalla formazione, ma si sono fermati, si sono adattati e hanno proseguito il percorso previsto.

Affrontare le difficoltà è importante per l’autonomia. La chiave è che i robot rispondano agli imprevisti, poi riprogrammino e abbiano comunque successo“, ha spiegato Jean-Pierre de la Croix del JPL, ricercatore principale del CADRE e responsabile dell’autonomia.

Andremo in un ambiente unico sulla Luna e, ovviamente, ci saranno alcune incognite. Abbiamo fatto del nostro meglio per prepararci testando insieme software e hardware in varie situazioni”, ha concluso l’esperto.

Universo: 5 concetti fantascientifici possibili nel futuro

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Universo: 5 concetti fantascientifici possibili nel futuro
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I romanzi e i film di fantascienza sono ricchi di idee stravaganti, il più delle volte come trampolino di lancio per un’avventura ricca di azione piuttosto che un serio tentativo di prevedere le tendenze future della scienza o della tecnologia. 

Alcuni dei tropi più comuni, come accelerare una navicella spaziale a velocità fantastiche in pochi secondi senza schiacciare gli occupanti, sono semplicemente impossibili secondo le leggi della fisica come le intendiamo nel nostro universo, eppure quelle stesse leggi sembrano consentire altri concetti fantascientifici apparentemente inverosimili, dai wormhole agli universi paralleli

Ecco una carrellata di alcune delle idee fantascientifiche che potrebbero davvero essere realizzate, almeno in teoria.

Wormholes

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L’idea di un wormhole, una scorciatoia attraverso lo spazio che consente viaggi quasi istantanei tra parti distanti dell’universo, suona come se fosse stata creata come una trama fittizia ma, sotto il suo nome più formale di ponte Einstein-Rosen, l’idea esiste come un concetto teorico serio da molto prima che gli scrittori di fantascienza se ne impadronissero.

L’idea esce da Albert Einstein con la teoria della relatività generale, che vede la gravità come una distorsione dello spazio-tempo causata da oggetti massicci. In collaborazione con il fisico Nathan Rosen, Einstein teorizzò, nel 1935, che punti di gravità estremamente forti, come i buchi neri, potessero essere direttamente collegati tra loro. E così è nata l’idea dei wormhole.

Le forze attorno a un buco nero dovrebbero distruggere qualunque cosa vi si avvicini, per cui l’idea di viaggiare attraverso un wormhole non è stata presa in seria considerazione fino agli anni ’80, quando l’astrofisico Carl Sagan ha deciso che avrebbe scritto un romanzo di fantascienza. Secondo la BBC, Sagan chiese a Kip Thorne, un fisico, di pensare ad un modo fattibile per percorrere distanze interstellari in un lampo. 

Thorne escogità un modo – possibile in teoria, ma altamente improbabile in pratica – attraverso il quale gli umani potrebbero raggiungere il viaggio interstellare attraversando indenni un wormhole. Il risultato ha trovato la sua strada nel romanzo di SaganContact” (Simon e Schuster: 1985), che è stato successivamente adattato in un film con Jodie Foster nel ruolo principale. 

Sebbene sia altamente improbabile che i wormhole diventino mai i metodi di trasporto semplici e convenienti descritti nei film, gli scienziati hanno ora escogitato un modo più praticabile per costruire un wormhole rispetto al suggerimento originale di Thorne. È anche possibile che, se esistono davvero wormhole nell’universo, possano essere localizzati utilizzando la nuova generazione di rivelatori di onde gravitazionali.

Buchi neri: l’IA rivela come crescono

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Buchi neri: l'IA rivela come crescono, buco nero
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Un nuovo studio, che utilizza l’apprendimento automatico, ha rivelato che la crescita dei buchi neri supermassicci nelle galassie richiede gas freddo oltre alle fusioni, sfidando le ipotesi precedenti e migliorando la nostra comprensione dell’evoluzione delle galassie.

Buchi neri: l'IA rivela come crescono

I buchi neri supermassicci: giganti dormienti che si risvegliano

Quando sono attivi, i buchi neri supermassicci svolgono un ruolo cruciale nel modo in cui si evolvono le galassie. Fino ad ora, si è pensato che la crescita fosse innescata dalla violenta collisione di due galassie seguita dalla loro fusione, tuttavia, una nuova ricerca condotta dall’Università di Bath ha suggerito che le fusioni tra galassie da sole non sono sufficienti ad alimentare un buco nero. Per spiegare la crescita di essi, è necessario un secondo ingrediente: un serbatoio di gas freddo a livello planetario situato al centro della galassia ospite.

Il nuovo studio, pubblicato sulla rivista Monthly Notice della Royal Astronomical Society, è stato il primo a utilizzare l’apprendimento automatico per classificare le fusioni galattiche con l’obiettivo specifico di esplorare la relazione tra le stesse, l’accrescimento di buchi neri supermassicci e la formazione stellare. Finora le fusioni sono state classificate (spesso erroneamente) esclusivamente attraverso l’osservazione umana.

Mathilda Avirett-Mackenzie, dottoranda presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Los Angeles Università di Bath e prima autrice del documento di ricerca, ha dichiarato: “Quando gli esseri umani cercano fusioni tra galassie, non sempre sanno cosa stanno guardando e usano molta intuizione per decidere se è avvenuta davvero. Addestrando una macchina a classificarle, si ottiene una lettura molto più veritiera di ciò che stanno effettivamente facendo le galassie”.

La ricerca è frutto di una collaborazione tra i partner di BiD4BEST (Big Data Applications for Black Hole Evolution Studies), la cui rete innovativa fornisce formazione di dottorato sulla formazione dei buchi neri supermassicci.

I buchi neri supermassicci sono una componente fondamentale delle galassie
(per dare un senso di scala, la Via Lattea, con circa 200 miliardi di stelle, è solo una galassia di medie dimensioni), al centro di essa si trova un buco nero chiamato Sagittarius A*, che ha una massa di circa 4 milioni di volte quella del Sole.

Per gran parte della loro esistenza, i buchi neri supermassicci sono quiescenti, rimangono in uno stato di calma, con la materia che orbita intorno, e hanno un impatto minimo sulla galassia nel suo complesso. Tuttavia, per brevi periodi della loro esistenza (brevi solo in termini astronomici, con una durata di milioni o centinaia di milioni di anni), essi sfruttano la loro forza gravitazionale per attirare grandi quantità di gas verso di sé. Questo fenomeno, noto come accrescimento, genera un disco luminoso talmente intenso da poter eclissare l’intera galassia.

Sono queste brevi fasi di attività ad essere più importanti per l’evoluzione delle galassie, poiché le enormi quantità di energia rilasciata attraverso l’accrescimento possono influenzare il modo in cui le stelle si formano nelle stesse. Per una buona ragione, quindi, stabilire cosa provoca il movimento di una galassia tra i suoi due stati – quiescente e formazione stellare – è una delle più grandi sfide dell’astrofisica.

Active Galactic Nucleus Concept

Buchi neri, ispezione umana vs Machine Learning

Per decenni, i modelli teorici hanno suggerito che i buchi neri crescono quando le galassie si fondono. Tuttavia, gli astrofisici che studiano da molti anni la connessione tra fusioni di galassie e crescita dei buchi neri hanno sfidato questi modelli con una semplice domanda: come possiamo identificare in modo affidabile le fusioni di galassie?

L’ispezione visiva è stato il metodo più comunemente utilizzato. I classificatori umani – esperti o membri del pubblico – hanno osservato le galassie e hanno identificato elevate asimmetrie o lunghe code di marea (regioni sottili e allungate di stelle e gas interstellare che si estendono nello spazio), entrambe associate alle fusioni delle stesse. Tuttavia, questo metodo di osservazione è dispendioso in termini di tempo e inaffidabile, poiché è facile per gli esseri umani commettere errori nelle loro classificazioni. Di conseguenza, gli studi sulle fusioni spesso forniscono risultati contraddittori.

Nel nuovo studio condotto da Bath, i ricercatori si sono posti la sfida di migliorare il modo in cui vengono classificate le fusioni studiando la connessione tra la crescita dei buchi neri e l’evoluzione delle galassie attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale.

black hole in space elements of this image furnished by nasa 285461906

L’IA illumina i segreti dei buchi neri

Gli scienziati hanno addestrato una rete neurale su fusioni di galassie simulate, quindi hanno applicato questo modello a quelle finora osservate nel cosmo.

In questo modo, sono stati in grado di identificare le fusioni senza pregiudizi umani e studiare la connessione tra fusioni di galassie e crescita dei buchi neri. Hanno anche dimostrato che la rete neurale supera i classificatori umani nell’identificarle.

Applicando questa nuova metodologia, i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che le fusioni non sono fortemente associate alla crescita dei buchi neri. Le firme delle stesse sono ugualmente comuni nelle galassie con e senza buchi neri supermassicci in accrescimento.

Utilizzando un campione estremamente ampio di circa 8.000 sistemi di buchi neri in accrescimento – che ha permesso al team di studiare la questione in modo molto più dettagliato – si è scoperto che le fusioni portano alla crescita dei buchi neri solo in un tipo molto specifico di galassie, ovvero quelle contenenti quantità significative di gas freddo.

Questo ha dimostrato che le fusioni tra galassie da sole non sono sufficienti ad alimentare i buchi neri: devono essere presenti anche grandi quantità di gas freddo per consentire al buco nero di crescere.

Avirett-Mackenzie ha affermato: “Affinché le galassie possano formare stelle, devono contenere nubi di gas freddo in grado di collassare in stelle. Processi altamente energetici come l’accrescimento di un buco nero supermassiccio riscaldano questo gas, rendendolo troppo energetico per collassare o espellendolo fuori dalla galassia”.

La dottoressa Carolin Villforth, docente senior presso il Dipartimento di Fisica e supervisore della signora Avirett-Mackenzie a Bath, ha concluso: “Fino ad ora le fusioni sono state studiate allo stesso modo, attraverso la classificazione visiva. Con questo metodo, utilizzando classificatori esperti in grado di individuare caratteristiche più sottili, siamo riusciti a osservare solo un paio di centinaia di galassie, non di più. L’utilizzo dell’apprendimento automatico ha aperto un campo completamente nuovo e molto entusiasmante in cui è possibile analizzare migliaia di galassie alla volta”.

Gigantesca tempesta solare testimoniata da vari veicoli spaziali

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Sole
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Il 17 aprile 2021 è stato un giorno come qualsiasi altro sul Sole, finché non è scoppiato un lampo brillante e un’enorme nuvola di materiale solare si è allontanata dalla nostra stella.

Tali esplosioni dal Sole non sono insolite, ma questa tempesta solare è stata insolitamente diffusa, scagliando protoni ed elettroni ad alta velocità prossima a quella della luce e colpendo diversi veicoli spaziali attraverso il sistema solare interno.

tempesta solare

Tempesta solare: protoni ed elettroni scagliati ad alta velocità

Tre anni fa, il 17 aprile 2021, si è verificata un’esplosione solare eccezionalmente ampia, un evento drammatico che ha proiettato nello spazio particelle provenienti da circa due terzi della superficie del Sole, un angolo molto più ampio rispetto a quello solitamente coinvolto nelle esplosioni solari comuni.

L’evento descritto è certamente affascinante e di grande importanza per la comprensione del comportamento del Sole e del suo impatto sul sistema solare.

tempesta solare

Le esplosioni solari possono avere conseguenze significative sulla Terra e su altri corpi celesti, influenzando le comunicazioni radio, le reti elettriche e persino la salute degli astronauti in missione. Studiare eventi come questo ci aiuta a migliorare la nostra capacità di prevedere e mitigare i potenziali danni causati dalle tempeste solari. Inoltre, questo fenomeno offre anche una preziosa opportunità per ampliare la nostra conoscenza del Sole e dei fenomeni astronomici correlati.

tempesta solare

Sei ci pensiamo, è stata la prima volta che protoni ed elettroni ad alta velocità – chiamati particelle energetiche solari (SEP) – sono stati osservati da veicoli spaziali in cinque posizioni diverse e ben separate tra il Sole e la Terra, nonché da veicoli spaziali in orbita attorno a Marte. E ora queste diverse prospettive sulla tempesta solare stanno rivelando che diversi tipi di SEP potenzialmente pericolosi possono essere lanciati nello spazio da diversi fenomeni solari e in direzioni diverse, causandone la diffusione.

tempesta solare

Cosa sappiamo sui SEP

Nina Dresing lavora presso il Dipartimento  di Fisica e Astronomia dell’Università di Turku in Finlandia. L’esperta ha spiegato tramite alcune dichiarazioni riportate dalla Nasa:I SEP possono danneggiare la nostra tecnologia, come quella dei satelliti, e disturbare il GPS. Inoltre, gli esseri umani nello spazio o anche sugli aerei sulle rotte polari possono subire radiazioni dannose durante forti eventi SEP”.Scienziati come Dresing sono ansiosi di scoprire da dove provengono esattamente queste particelle – e cosa le spinge a velocità così elevate – per imparare meglio come proteggere le persone e la tecnologia dai pericoli. Dresing ha guidato un team di scienziati che hanno analizzato quali tipi di particelle hanno colpito ciascun veicolo spaziale e quando. Il team ha pubblicato i suoi risultati sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Attualmente in viaggio verso Mercurio, la navicella spaziale BepiColombo, una missione congiunta dell’ESA (Agenzia spaziale europea) e della JAXA (Japan Aerospace Exploration Agency), è la più vicina alla linea di fuoco diretta dell’esplosione ed è stata colpita dalle particelle più intense. Allo stesso tempo, la Parker Solar Probe della NASA e il Solar Orbiter dell’ESA si trovavano sui lati opposti del brillamento, ma la prima era più vicina al Sole, quindi ha subito un colpo più duro rispetto al Solar Orbiter.

Il successivo in fila era uno dei due veicoli spaziali del Solar Terrestrial Relations Observatory (STEREO), STEREO-A, seguito dal NASA/ESA Solar and Heliospheric Observatory (SOHO) e dalla navicella spaziale Wind della NASA, che erano più vicini alla Terra e ben lontani dall’esplosione. In orbita attorno a Marte, la navicella spaziale MAVEN della NASA e Mars Express dell’ESA sono state le ultime a rilevare le particelle dell’evento.

Che cos’è una tempesta solare

La tempesta solare è un evento di attività intensa da parte della nostra stella che può avere un impatto significativo sul nostro pianeta e sulle tecnologie spaziali. Questi eventi sono associati a esplosioni di energia sulla superficie del Sole, note come brillamenti solari, e all’emissione di particelle cariche, come i raggi cosmici e il vento solare. Le tempeste solari possono essere classificate in base alla loro intensità. Le tempeste più intense sono chiamate tempeste solari maggiori, mentre quelle di minore intensità sono note come tempeste solari minori.

Gli effetti delle tempeste solari possono variare notevolmente, ma alcuni degli impatti comuni includono:

  1. Aurora boreale e australe: le tempeste solari possono causare brillanti brillamenti di luce nelle regioni polari, noti come aurora boreale nell’emisfero settentrionale e aurora australe nell’emisfero meridionale. Questo avviene quando le particelle cariche provenienti dal Sole interagiscono con l’atmosfera terrestre, eccitando gli atomi di gas nell’atmosfera e causando la loro emissione di luce colorata.
  2. Interruzioni delle comunicazioni: una tempesta solare può interferire con le comunicazioni radio e satellitari sulla Terra. Le particelle cariche possono influenzare le trasmissioni radio, causando disturbi e interferenze nelle comunicazioni.
  3. Danni ai satelliti: il vento solare e le particelle cariche possono danneggiare i satelliti in orbita intorno alla Terra, compromettendo la loro funzionalità e riducendo la loro durata operativa.
  4. Problemi nelle reti elettriche: una tempesta solare può indurre correnti elettriche nelle reti elettriche terrestri, causando blackout e interruzioni di energia in alcune aree.
  5. Rischio per gli astronauti nello spazio: gli astronauti nello spazio sono esposti a un maggiore rischio durante una tempesta solare a causa dell’aumento dell’esposizione alle radiazioni.

Per mitigare gli effetti di una tempesta solare, gli scienziati monitorano attentamente l’attività della nostra stella e sviluppano sistemi di previsione per avvisare e proteggere le persone e le tecnologie esposte ai loro effetti.

L’America scoperta 150 anni prima di Cristoforo Colombo

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L'America scoperta 150 anni prima di Cristoforo Colombo
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Una nuova analisi sugli antichi scritti suggerisce che i marinai della città natale italiana di Cristoforo Colombo conoscevano l’America 150 anni prima della sua famosa “scoperta”.

L’America citata per la prima volta in antichi manoscritti del 1345

Trascrivendo e dettagliando un documento del 1345 circa di un frate milanese, Galvaneus Flamma, esperto di letteratura latina medievale, il professor Paolo Chiesa ha fatto una “sorprendente” scoperta di un passaggio “eccezionale” riferito ad un’area che oggi conosciamo come Nord America.

Secondo Chiesa, l’antico saggio – scoperto per la prima volta nel 2013 – suggerisce che i marinai genovesi conoscessero già questa terra, riconoscibile come ‘Markland’/ ‘Marckalada’ – citata da alcune fonti islandesi e identificata dagli studiosi come parte della costa atlantica del Nord America.

Pubblicata sulla rivista peer-reviewed Terrae Incognitae, la scoperta precede il Columbus Day 2021, celebrato in alternativa come Giornata dei popoli indigeni in molti stati degli Stati Uniti. I risultati aggiungono ulteriore benzina al fuoco per la continua domanda di “cosa, esattamente, si aspettava di trovare Colombo quando partì attraverso l’oceano?” e vengono dopo un periodo in cui le sue statue sono state decapitate, ricoperte di vernice rossa, avvolte al laccio intorno alla testa e abbattute, date alle fiamme e gettate in un lago.

“Siamo in presenza del primo riferimento al continente americano, seppure in forma embrionale, nell’area mediterranea”, afferma il professor Chiesa, del Dipartimento di Studi letterari, filologici e linguistici dell’Università degli Studi di Milano.

Galvaneus era un frate domenicano che viveva a Milano ed era legato ad una famiglia che deteneva la signoria della città.

Ha scritto diverse opere letterarie in latino, principalmente su argomenti storici. La sua testimonianza è preziosa per informazioni sui fatti contemporanei milanesi, di cui ha conoscenza diretta.

Cronica universalis, analizzata da Chiesa, è ritenuta una delle sue ultime opere, forse l’ultima, rimasta incompiuta e non perfezionata. Ha lo scopo di dettagliare la storia di tutto il mondo, dalla “Creazione” a quando è stato pubblicato.

Nel tradurre e analizzare il documento, il professor Chiesa dimostra come Genova sarebbe stata una “porta di accesso” per le notizie, e come Galvaneus sembra sentire, in modo informale, le voci dei marittimi sulle terre all’estremo nord-ovest per eventuali benefici commerciali – anche come informazioni sulla Groenlandia, che dettaglia accuratamente (per conoscenza del tempo).

“Queste voci erano troppo vaghe per trovare consistenza nelle rappresentazioni cartografiche o accademiche“, afferma il professore, mentre spiega perché all’epoca Marckalada non era classificata come una nuova terra.

Indipendentemente da ciò, tuttavia, afferma Chiesa, Cronica universalis “porta una prova senza precedenti alla speculazione che notizie sul continente americano, derivate da fonti nordiche, circolassero in Italia un secolo e mezzo prima di Colombo”.

E aggiunge: “Ciò che rende eccezionale il passaggio (su Marckalada) è la sua provenienza geografica: non l’area nordica, come nel caso delle altre citazioni, ma l’Italia settentrionale.

“Questi dettagli potrebbero essere standard, in quanto distintivi di qualsiasi buona terra; ma non sono banali, perché la caratteristica comune delle regioni settentrionali è di essere desolate e aride, come in realtà è la Groenlandia nel racconto di Galvaneus, o come l’Islanda è descritta da Adamo di Brema“.

Nel complesso, dice il professor Chiesa, bisogna “fidarsi” di Cronica universalis poiché in tutto il documento Galvaneus dichiara dove ha sentito parlare di racconti orali, e sostiene le sue affermazioni con elementi tratti da racconti (leggendari o reali), appartenenti a tradizioni precedenti su terre diverse, mescolati insieme e riassegnati in un luogo specifico.

“Non vedo alcun motivo per non credergli”, afferma il professor Chiesa, che aggiunge “da tempo si nota che le carte portolane (nautiche) trecentesche disegnate a Genova e in Catalogna offrono una rappresentazione geografica più avanzata del nord, che potrebbe essere raggiunto attraverso contatti diretti con tali regioni”.

“È probabile che queste nozioni sul nord-ovest siano arrivate a Genova attraverso le rotte di navigazione verso le isole britanniche e le coste continentali del Mare del Nord”.

“Non abbiamo prove che marittimi italiani o catalani abbiano mai raggiunto l’Islanda o la Groenlandia in quel momento, ma sono stati certamente in grado di acquisire dai mercantili nordeuropei di quell’origine per essere trasportati nell’area del Mediterraneo”.

“I marinarii citati da Galvaneus possono inserirsi in questa dinamica: i genovesi potrebbero aver riportato nella loro città notizie sparse su queste terre, alcune vere e altre fantasiose, che hanno sentito nei porti del nord da marinai scozzesi, britannici, danesi, norvegesi con con cui commerciavano”.

Cronica universalis, scritta in latino, è ancora inedita; è comunque prevista un’edizione, nell’ambito di un programma scientifico e didattico promosso dall’Università degli Studi di Milano.

SpaceX: sarà un test estremo il volo di prova della terza Starship

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SpaceX: sarà un test estremo il volo di prova della terza Starship, Starship IFT-3
SpaceX ha esaminato attentamente il suo nuovissimo megarocket Starship in vista del suo imminente volo di prova. il razzo più grande e potente mai costruito, è composto da due elementi completamente riutilizzabili: un enorme primo stadio chiamato Super Heavy e un veicolo spaziale di stadio superiore noto come Starship, o semplicemente Ship. Un veicolo impilato ha volato quattro volte fino ad oggi, ma SpaceX prevede di aumentare presto questo conteggio
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SpaceX metterà sottoporrà a una serie di test estremi il suo megarazzo Starship durante il terzo volo di prova.

La prossima missione, che potrebbe essere lanciata già il 14 marzo, sarà nettamente diversa rispetto alle due precedenti, con obiettivi più numerosi e più ambiziosi per la Starship, il razzo a due stadi alto 122 metri con il quale SpaceX intende arrivare sulla Luna e su Marte.

Il comunicato di SpaceX con gli obbiettivi di missione

Questo lancio prevede una traiettoria diversa rispetto ai precedenti, con la Starship destinata ad atterrare nell’Oceano Indiano invece che al largo delle Hawaii,” aggiunge la compagnia. “Questa nuova traiettoria di volo ci consentirà di tentare nuove tecniche come l’accensione di motori nello spazio massimizzando al tempo stesso la sicurezza pubblica“.

La Starship

SpaceX sta sviluppando Starship con l’obiettivo di sostenere la colonizzazione della Luna e di Marte, oltre a compiere una serie di altre imprese esplorative. Il veicolo in acciaio inossidabile, il razzo più grande e potente mai costruito, è progettato per essere completamente e rapidamente riutilizzabile.

Finora Starship ha effettuato due missioni di prova, entrambe dal sito Starbase di SpaceX ubicato a Boca Chica nel sud del Texas. Entrambi i lanci di prova di Starship miravano a inviare lo stadio superiore per gran parte del percorso attorno alla Terra, con un rientro mirato nell’Oceano Pacifico vicino alle Hawaii. Entrambi i test, però, hanno mancato il loro obiettivo.

Durante il primo volo, nell’aprile 2023, i due stadi della Starship non si separarono come previsto e il veicolo fu fatto esplodere intenzionalmente circa quattro minuti dopo il lancio.

Starship si è comportata molto meglio nel secondo volo, lanciato nel novembre 2023. Il veicolo ha raggiunto un’accensione nominale del motore del primo stadio e i suoi due stadi si sono separati nei tempi previsti. Lo stadio superiore è esploso circa otto minuti dopo il lancio a causa di uno sfiato di ossigeno liquido, ma probabilmente ciò non sarebbe accaduto su un volo operativo, secondo il fondatore e CEO di SpaceX Elon Musk.

In un volo operativo la Starship non sarebbe stata appesantita con quell’ossigeno liquido perché avrebbe avuto il peso di un carico utile“, ha detto Musk in un aggiornamento aziendale pubblicato da SpaceX su X  il 12 gennaio. “Quindi, ironicamente, se avesse avuto un carico utile, avrebbe raggiunto l’orbita“.

starship launchIl razzo Starship Flight 3 di SpaceX e il booster Super Heavy in cima alla rampa di lancio di notte durante un test di rifornimento presso la struttura Starbase della compagnia a Boca Chica, Texas.  (Credito immagine: SpaceX)

SpaceX punta al 14 marzo per il terzo volo di prova, ma quella data è lungi dall’essere fissata nella pietra, come sottolinea la società nella descrizione della missione.

La Federal Aviation Administration degli Stati Uniti ha recentemente concluso le indagini su quanto accaduto sul volo Starship di novembre, ma per quanto ne sappiamo l’agenzia non ha ancora concesso la licenza per il terzo lancio.

Space Telescope Live: l’app che ci dice cosa stanno osservando Hubble e Webb in ogni momento

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Costante di Hubble: viviamo in un universo bizzarro. O lo stiamo guardando male, Space Telescope Live
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Space Telescope Live della NASA, un’applicazione web originariamente sviluppata nel 2016 per fornire aggiornamenti in tempo reale sugli obiettivi di Hubble, ora offre un facile accesso a informazioni aggiornate sulle osservazioni attuali, passate e future sia di Hubble che di Webb.

Webb scopre molecole organiche in un ambiente estremo, Space Telescope Live

Space Telescope Live: sempre aggiornati sulle osservazioni di Hubble e Webb

Non è difficile scoprire cosa hanno osservato in passato i telescopi spaziali Hubble e James Webb della NASA. Non passa quasi una settimana senza la notizia di una scoperta cosmica resa possibile utilizzando immagini e altri dati catturati dai telescopi astronomici della NASA.

Space Telescope Live

Ma cosa stanno guardando Hubble e Webb in questo momento? Un pilastro oscuro che ospita stelle nascenti? Una coppia di galassie in collisione? L’atmosfera di un pianeta lontano? Luce galattica, allungata e distorta in un viaggio di 13 miliardi di anni attraverso lo spazio? Ora si potrà essere aggionati in ogni momento con l’ausilio dell’app Space Telescope Live.

Progettata e sviluppata per la NASA dallo Space Telescope Science Institute di Baltimora, l’app Space Telescope Live è uno strumento esplorativo che offre al pubblico un modo semplice e coinvolgente per saperne di più su come vengono condotte le indagini astronomiche.

Space Telescope Live: libero accesso non solo alle osservazioni del presente e del futuro, ma anche a quelle del passato

Con la sua interfaccia utente ridisegnata e funzionalità ampliate, gli utenti possono scoprire non solo quale pianeta, stella, nebulosa, galassia o regione dello spazio profondo sta osservando ogni telescopio in questo momento, ma anche dove si trovano esattamente e quali strumenti scientifici vengono utilizzati per acquisire immagini, spettri e altri dati.

Si potrà esattamente informati quando e per quanto tempo sono previste le osservazioni lo stato dell’osservazione, chi sta conducendo la ricerca e, soprattutto, cosa stanno cercando di scoprire gli scienziati.

Le informazioni per le osservazioni dei programmi scientifici approvati sono disponibili tramite l’Archivio Mikulski per i telescopi spaziali. Space Telescope Live della NASA offre un facile accesso a queste informazioni, non solo agli obiettivi del giorno attuale, ma anche all’intero catalogo delle osservazioni passate, con i record Webb che risalgono ai suoi primi obiettivi di messa in servizio nel gennaio 2022, e i record di Hubble fino al l’inizio delle sue operazioni nel maggio 1990.

La mappa del cielo zoomabile centrata sulla posizione del bersaglio è stata sviluppata utilizzando Aladin Sky Atlas, con immagini provenienti da telescopi terrestri per fornire il contesto per l’osservazione.

Costante di Hubble: viviamo in un universo bizzarro. O lo stiamo guardando male, Space Telescope Live

Poiché i dati di Hubble e Webb devono passare attraverso un’elaborazione preliminare e, in molti casi, un’analisi preliminare, prima di essere rilasciati al pubblico e alla comunità astronomica, le immagini in tempo reale non sono disponibili in questo strumento per nessuno dei due telescopi.

Dettagli come il nome e le coordinate del target, gli orari di inizio e fine programmati e l’argomento di ricerca vengono estratti direttamente dai database di pianificazione dell’osservazione e di pianificazione delle proposte. I collegamenti all’interno dello strumento indirizzano gli utenti alla proposta di ricerca originale, che funge da gateway per informazioni più tecniche.

Space Telescope Live funziona su dispositivi desktop e mobili

Sebbene quest’ultima versione della Space Telescope Live della NASA costituisca una trasformazione significativa rispetto alla versione precedente, il team sta già raccogliendo feedback dagli utenti e pianificando ulteriori miglioramenti per offrire opportunità di esplorazione e comprensione più approfondite.

Space Telescope Live della NASA è progettato per funzionare su dispositivi desktop e mobili ed è accessibile tramite i siti Web ufficiali Hubble e Webb della NASA. Ulteriori dettagli sul contenuto, comprese spiegazioni accessibili al pubblico delle informazioni visualizzate nello strumento, sono disponibili nella Guida per l’utente.

Tensione di Hubble: siamo al centro di un enorme vuoto?, Space Telescope Live

Space Telescope Live è uno strumento che in un certo modo rivoluziona il mondo della conoscenza e il contatto con essa. Sarebbe interessante vederla applicati a tutti i rami del sapere, in un momento storico dove la cultura è ai margini, potrebbe diventare improvvisamente protagonista.

Trasformare i fibroblasti in osteoblasti: le basi della terapia rigenerativa del futuro

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Fibroblasti
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In una ricerca collaborativa, gli scienziati dell’Università di Kyushu e della Harvard Medical School hanno scoperto proteine ​​capaci di trasformare o “riprogrammare” i fibroblasti, le cellule predominanti nella pelle e nel tessuto connettivo, in cellule che possiedono caratteristiche simili alle cellule progenitrici degli arti.

Fibroblasti

I risultati, pubblicati sul Journal Developmental Cell, hanno migliorato la comprensione dello sviluppo degli arti e gettato le basi per la terapia rigenerativa in futuro.

Trasformare i fibroblasti in osteoblasti: una speranza per chi convive con la perdita di uno o più arti

Circa 60 milioni di persone in tutto il mondo convivono con la perdita degli arti, una conseguenza di diverse patologie mediche come tumori, infezioni, difetti congeniti o traumi derivanti da incidenti.

Gli individui con lesioni agli arti ricorrono spesso a materiali sintetici e protesi metalliche di supporto. Tuttavia, diversi ricercatori stanno approfondendo le complessità dello sviluppo degli arti, impegnandosi per promuovere la terapia rigenerativa e la sostituzione dei tessuti naturali come opzione terapeutica promettente.

Fibroblasti

Durante lo sviluppo degli arti nell’embrione, le cellule progenitrici danno origine alla maggior parte dei diversi tessuti delle ossa, muscoli, cartilagine e tendini. È quindi importante stabilire un modo semplice e accessibile per produrre queste cellule”, ha spiegato il dottor Yuji Atsuta, ricercatore capo presso la scuola di medicina di Harvard.

Attualmente, le cellule progenitrici degli arti provengono comunemente dagli embrioni, ponendo dilemmi etici sugli embrioni umani. In alternativa, possono essere sfruttate le cellule staminali pluripotenti indotte, riprogrammate da cellule adulte, ma questa scelta comporta non pochi  rischi su una probabile loro conversione in cellule tumorigene.

Come vengono riprogrammati i fibroblasti

Il nuovo metodo sviluppato da Atsuta e
colleghi, che riprogramma direttamente i fibroblasti in cellule progenitrici degli arti bypassa l’induzione delle cellule staminali pluripotenti e semplifica questo processo riducendo anche i costi. Non solo, vengono abbattute anche le preoccupazioni sulla possibilità che le cellule diventino cancerose, cosa che spesso si verifica con le cellule staminali pluripotenti indotte.

Nella fase iniziale, i ricercatori hanno esaminato l’espressione genetica nei primi abbozzi degli arti di topi e negli embrioni dei polli e hanno trovato 18 geni, per lo più fattori di trascrizione altamente espressi. L’introduzione di questi geni nei fibroblasti di embrioni di topo ha portato alla formazione di cellule somiglianti agli osteoblasti.

Fibroblasti

Ulteriori esperimenti hanno identificato tre proteine ​​essenziali: Prdm16, Zbtb16 e Lin28a: per riprogrammare i fibroblasti in cellule simili agli osteoblasti, le cellule degli arti, con Lin41 che aiuta nella crescita della cellula e nella sua moltiplicazione.

Queste cellule riprogrammate non sono solo imitazioni molecolari. Abbiamo osservato il loro potenziale svilupparsi in tessuti specializzati degli arti, sia in piastre di laboratorio (in vitro) che anche in organismi viventi (in vivo)”, ha spiegato Atsuta.

I test in vivo sono stati particolarmente impegnativi, poiché abbiamo dovuto trapiantare le cellule di topo riprogrammate nelle gemme degli arti degli embrioni di pollo“.

Cosa sono i fibroblasti?

I fibroblasti sono un tipo di cellula responsabile della produzione della matrice extracellulare e del collagene.

Insieme, questa matrice extracellulare e il collagene formano la struttura dei tessuti e svolgono un ruolo importante nella loro riparazione. I fibroblasti sono le principali cellule del tessuto connettivo presenti nel corpo. Oltre ad essere presenti come fibroblasti, queste cellule esistono in uno stato alternativo, come fibrociti. Fibroblasto è il termine usato per descrivere queste cellule quando sono in uno stato attivato.

Fibroblasti

Il fibrocito si riferisce allo stato meno attivo, quando la cellula è coinvolta nel mantenimento e nel metabolismo dei tessuti. Alcuni ricercatori usano il termine fibroblasti per entrambi gli stati cellulari, ma il termine “blasto” di solito si riferisce a una cellula staminale o allo stato attivato di una cellula.

L’aspetto dei fibroblasti cambia a seconda della loro funzione e del sito d’azione. I fibroblasti prelevati da un particolare sito possono “ricordare” la loro posizione e funzione originali quando trapiantati in un’altra sezione del corpo.