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Al Polo Sud una zona marina si sta riscaldando a un ritmo sbalorditivo

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Un gruppo di studiosi è riuscito a scoprire che nelle profondità del mare di Weddell, una zona situata nell’oceano Antartico, sta avvenendo un riscaldamento molto veloce, ben cinque volte superiore rispetto al resto dell’oceano, situazione che sta accadendo ad una profondità superiore a 2000 metri.
La notizia che è stata divulgata fa parte di una serie di dati estrapolati ricavati da una ricerca pubblicata sul Journal of Climate, che è stata condotta da un gruppo di ricercatori oceanografi appartenenti all’Istituto Alfred Wegener per la ricerca marina e polare, la AWI.
Il gruppo di oceanografici ha preso in esame una serie temporale di dati relativi alla zona marina in questione, mostrando che il riscaldamento che sta avvenendo nelle profondità marine è soprattutto causato dal cambiamento dovuto dai venti e dalle correnti sia in superficie che nelle profondità dell’oceano Antartico.
Questo tipo di riscaldamento, secondo il gruppo di studio, potrebbe causare il rischio di indebolimento permanente del ghiaccio presente nelle aree marine circostanti, con delle conseguenze che si potrebbero espandere a livello globale per quanto riguarda la circolazione oceanica mondiale.
I dati raccolti sono stati acquisiti grazie a delle navi speciali su cui erano presenti delle sonde di tipo “CTD”, utilizzate per misurare la conduttività, la temperatura e la profondità delle acque analizzate. La precisione con cui le sonde effettuano le misurazioni sono cosi accurate, da riuscire a misurare i cambiamenti che avvengono nei livelli di temperatura fino al decimillesimo del grado Celsius.
Lo studio svolto ha elaborato dei dati che sono stati raccolti negli ultimi tre decenni durante le spedizioni effettuate a bordo della nave rompighiaccio tedesca Polarstern. I ricercatori hanno preso in esame sia gli stessi siti che le medesime zone superficiali, così da poter mettere a confronto, col passare del tempo, quali erano le reali differenze dei dati raccolti, riuscendo così ad ottenere dei risultati sorprendenti.
Volker Strass, un oceanografo e autore principale dello studio, spiega che: “I dati da noi raccolti mettono in evidenza che esiste una chiara divisione presente nel mare di Weddell. Nonostante l’acqua nei 700 metri sotto la superficie risulti appena riscaldata, in quella più in profondità invece avviene un aumento costante della temperatura da 0,0021 a 0,0024 gradi Celsius all’anno”.
I ricercatori concludono spiegando che: “Nonostante possa sembrare un aumento di temperatura minima, bisogna mettere in conto che le acque oceaniche presentano una capacitò termica 1000 volte superiore a quella dell’atmosfera. Quindi da questo dato si capisce quanto questi cambiamenti siano in realtà un enorme assorbimento di calore che, nel caso della Mare di Weddell, è addirittura cinque volte più alto rispetto al resto dell’oceano circostante”.
https://journals.ametsoc.org/jcli/article/33/22/9863/354273/Multidecadal-Warming-and-Density-Loss-in-the-Deep

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Arriva la pet robot therapy, animali artificiali e intelligenti contro solitudine e patologie

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Che gli animali domestici siano terapeutici è risaputo, ma che possano esserlo anche dei robot, e possano farlo benissimo, interagendo con il “padrone“, è una novità.
Per gli assistenti umanoidi, già più noti, era stata coniata quindi l’espressione “Socially Assistive Robotics” (SAR), che definisce un tipo di assistenza, in un ambiente sociale interattivo. Un robot umanoide svolge il ruolo di trainer, monitorando al tempo stesso i progressi del trattamento impartito, in modo da poterlo modificare, se necessario, ricorrendo all’intelligenza artificiale.
Sulla stessa scia anche gli animali robotici funzionano allo stesso modo. La SAR include interazioni sociali, che hanno lo scopo di fornire assistenza riguardo non solo al movimento, ma anche alla riabilitazione psicologica. Questi robot sono già stati impiegati in riabilitazione post-traumatica, recupero di pazienti cardiopatici, programmi di allenamento, rieducazione del paziente dopo ictus o altre patologie neurologiche, e anche nel campo della salute mentale.

Come può un pet robot agire come un terapeuta?

Sappiamo tutti che cani e gatti e qualsiasi animale domestico, anche un criceto, un uccellino, e dei semplici pesci rossi, possono alleviare la solitudine, ed avere un effetto terapeutico sulla persona. Infatti la solitudine porta alla depressione e la compagnia di un animale può aiutare a superare momenti difficili, nonché a migliorare l’umore. Insomma, gli amici a quattro zampe sono capaci di farci sentire psicologicamente meglio. Ma questa stessa efficacia si può  trovare in un robot? Secondo gli scienziati sì. Infatti questi Pet sono stati costruiti e progettati proprio per una terapia domiciliare, ma anche ospedaliera. 
In realtà, anche se può sembrare strano, ci sono addirittura dei vantaggi in un animale che non è di carne ed ossa. Innanzitutto questi Pet sono prevedibili, ovvero sono programmati solamente per fare determinate azioni, che servono a far star meglio la persona che deve essere curata. Poi non procurano allergie, Infatti avendo un pelo artificiale non possono creare alcun tipo di problema a chi gli è accanto, a chi lo accarezza o a chi semplicemente gli respira vicino; e non lasciano appunto peli in casa, quindi non sporcano.
Inoltre in persone che hanno dei problemi motori e psicologici non sono di peso. I malati non devono occuparsi dei loro animali robotici, non devono portarli fuori a fare i bisogni o pulire i loro bisogni in casa; non devono dargli da mangiare e da bere. Questi animali non abbaieranno o miagoleranno mai senza motivo, non disturberanno. Non daranno quindi noie e problemi ai loro “padroni” che hanno già da combattere con i propri.
Pensiamo ad esempio a persone che si sentono sole o a coloro che sono affetti da malattie degenerative come l’Alzheimer. Ma anche a più giovani che soffrono di autismo e di altre problematiche, che impediscono loro di fare tante cose. Potranno avere un compagno da cui riceveranno solo vantaggi, senza dover occuparsi attivamente di loro. Potranno accarezzarli, giocarci, starci vicino ed avere su se stessi i medesimi effetti di un animale vero.

Paro, il robot foca

Anche se può sembrare assurdo il primo modello di robot con sembianze animali, non è stato né un cane né un gatto, come si potrebbe immaginare. Ad essere utilizzato per la terapia sugli anziani, affetti da demenza, è stato un robot foca. L’animale robotico, per la prima Pet Therapy, è stato chiamato Paro, ed è stato realizzato da Takanori Shibata, ricercatore dell’azienda giapponese Aist, Institute of Advanced Industrial Science and Technology, ovvero Istituto nazionale di scienza e tecnologia industriale avanzata.
La piccola foca Paro, in circolo ormai da qualche anno, è lunga 55 centimetri e pesa 2 chili e mezzo.  È in grado di muovere gli occhi, la testa, le pinne, e dispone di un gran numero di sensori che la rendono sensibile alla luce e al tatto su tutto il corpo, compresi i baffi. Tra le sue caratteristiche, grazie all’AI (Intelligenza Artificiale), può riconoscere la voce del paziente e apprende informazioni. Infatti può memorizzare il nome del proprietario e imparare i suoi comportamenti e le sue abitudini personali.
Paro è stata usata anche per restituire sicurezza agli anziani traumatizzati dall’incidente della centrale nucleare di FukushimaLa cosa più bella è che la foca robotica è interattiva. Il tenero mammifero artificiale risponde agli abbracci e alle carezze, ed in questo modo aiuta a migliorare lo stato d’animo delle persone. È utilizzata soprattutto con anziani con un deficit cognitivo o soggetti a disturbi depressivi. Paro è stata anche capace di ridurre lo stress e la solitudine degli anziani senza gravi patologie.
Perché proprio un cucciolo di foca? La scelta si deve, naturalmente, al paese di origine, il Giappone, dove le foche sono molto popolari. Soprattutto, si è preferita la foca, al posto di un cane o un gatto, perché è un animale sconosciuto tanto da non generare aspettative nella persona durante l’interazione
Recentemente invece con il Coronavirus, in America, stanno avendo un boom i nuovi “cani robot“, per gli anziani in isolamento. Negli Stati uniti, sempre più persone avanti con l’età, costrette a restare a casa in totale solitudine a causa della pandemia, scelgono la compagnia degli animali automatizzati. Questo Simpatico quadrupede  artificiale è stato chiamato Jennie. La sua nascita si deve alla Tombot, una società di Santa Clarita, in California, che lavora sui robot sociali, progettati per rispondere alle esigenze degli anziani. 
Lo scopo è lo stesso che ispirò l’azienda giapponese a creare Paro. Gli ingegneri si sono ispirati ai problemi che gli anziani, affetti da malattie mentali, incontrano tutti i giorni. Nel 2011 è stato diagnosticato alla madre dell’amministratore delegato di Tombot, Tom Stevens, l’Alzheimer. Per questo motivo le aziende hanno voluto realizzare un robot che potesse sostituire i benefici che regala un animale da compagnia. 
Prendersi cura quindi di un compagno in modo pratico e sicuro, senza doversi preoccupare delle esigenze che possono nascere se quest’ultimo fosse effettivamente vivo. I robot-cuccioli della Tombot costano intorno ai 500 dollari.
Oltre alla giapponese foca e all’americano cane esiste anche il gatto robot. Nel 2015 l’azienda Hasbro ha infatti iniziato a commercializzare questi felini artificiali. Sicuramente la compagnia di un “animale vero” è più bella, ma questi robotici quadrupedi possono aiutare chi non può occuparsi di un cucciolo in carne ed ossa.
Fonte: Ai4business.it 

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Buchi neri e collisori naturali

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I buchi neri sono oggetti cosmici con un campo gravitazionale così intenso da non lasciare sfuggire dal loro interno né la materia, né la radiazione elettromagnetica, ovvero, da un punto di vista relativistico, un luogo dello spaziotempo con una curvatura grande abbastanza che nulla dal suo interno può uscirne.
Alcuni fisici hanno suggerito che sarebbe possibile utilizzare i campi gravitazionali dei buchi neri per realizzare potenti acceleratori di particelle. Un nuovo studio svela come fare, in modo che le particelle non vengano intrappolate all’interno dell’orizzonte degli eventi, terminando la loro esistenza nella singolarità al centro del buco nero. L’intuizione sarà d’aiuto nell’individuazione dei buchi neri identificando le particelle che sfuggono dalle loro vicinanze.
Supponiamo che una particella inizi a precipitare in un buco nero. Man mano che si avvicina, accelera, come una palla accelera mentre rotola giù da un pendio. Certo, l’accelerazione impressa alla particella dalla grande curvatura del campo gravitazionale è di gran lunga più potente, tanto che la particella si avvicina all’orizzonte degli eventi quasi alla velocità della luce.
L’orizzonte degli eventi è una superficie immaginaria che circonda ogni buco nero, ed è caratterizzata dal fatto che in ogni suo punto la velocità di fuga è uguale alla velocità della luce. All’interno di questo orizzonte raggiungere la velocità della luce non è più sufficiente a sfuggire alla morsa del buco nero, e dato che nell’universo non è possibile muoversi più velocemente della propagazione della luce, da ogni punto interno all’orizzonte degli eventi non può uscire nulla.
Se una particella precipita al suo interno, non ha nessuna speranza di fuga. Realizzare un acceleratore di particelle in un luogo simile non è ovviamente possibile, in quanto una particella non può sfuggire da quella regione. Però se a essere coinvolte sono due o più particelle le cose possono cambiare.
Se due particelle si avvicinano a un buco nero, ciascuna di esse aumenta la propria energia. I nostri attuali collisori accelerano le particelle pesanti come i protoni a oltre il 99% della velocità della luce, ma ci vuole molto lavoro e nel caso del più grande collisori di protoni del mondo, il Large Hadron Collider, un anello di tubi a vuoto superconduttori lungo quasi 27 chilometri. I buchi neri creano questo tipo di accelerazione semplicemente esistendo.
Quando le due particelle si avvicinano all’orizzonte degli eventi, le loro velocità aumentano. E se hanno la giusta combinazione di velocità e direzione, possono rimbalzare a vicenda, facendo precipitare una di loro verso il buco nero, mentre l’altra costeggia l’orizzonte degli eventi evitando di essere preda della singolarità.
Questi eventi capitano molto raramente, ma ricerche svolte in precedenza hanno scoperto che coppie di particelle possono collidere e decadere ad energie arbitrariamente alte, tutto dipende da quanto possono avvicinarsi all’orizzonte degli eventi (e quanto si avvicinano alla velocità della luce) alla momento di collidere.
Un acceleratore di particelle simile funzionerebbe ancora meglio se il buco nero fosse rotante. Grazie al loro spin estremo, questi tipi di buchi neri possono distorcere lo spazio-tempo attorno all’orizzonte degli eventi, consentendo a più particelle di raggiungere le vicinanze dell’orizzonte degli eventi stesso prima di volare verso l’infinito.
Dobbiamo però segnalare un problema dovuto alla natura complessa della matematica coinvolta in questo tipo di ricerche. Lo scenario preso in esame poco fa è stato analizzato solo nel caso dei cosiddetti buchi neri “estremi”. Questi buchi neri sono solo “teorici” e hanno la massa più piccola possibile che può ruotare a una data velocità. In realtà, gli scienziati pensano che quasi tutti (se non assolutamente tutti) i buchi neri siano molto più massicci di quanto debbano essere.
Ciò renderebbe i buchi neri reale “non estremi”, il che significa che fino ad ora i fisici non erano sicuri che potessero agire o meno come collisori di particelle. Grazie a una ricerca pubblicata l’1 ottobre nel database di preprint arXiv e impostata per la pubblicazione sulla rivista Physics Review D gli scienziati hanno scoperto che i buchi neri possono comportarsi come collisori. La nuova ricerca ha scoperto che i buchi neri reali, inclusi buchi neri massicci e rotanti e elettricamente carichi possono accelerare le particelle.
Per funzionare a dovere e dare la velocità richiesta, le particelle devono avvicinarsi al buco nero a velocità elevate, e i ricercatori hanno scoperto che più collisioni a bassa velocità possono avvenire vicino all’orizzonte degli eventi, portando alla quantità richiesta di alta energia.
Sfortunatamente, poiché le collisioni devono avvenire vicino all’orizzonte degli eventi in modo da raggiungere energie elevate, quando sfuggono al buco nero devono lottare contro l’intensa gravità, rallentando prima di raggiungere lo spazio interstellare. Per fortuna, i ricercatori hanno trovato una soluzione anche a questo problema, dimostrando che le collisioni ad alta energia possono verificarsi attorno ai buchi neri rotanti senza avvicinarsi troppo all’orizzonte degli eventi, il che significa che le particelle possono lasciare il buco nero ed essere rilevate.
Fonte: https://www.livescience.com/black-holes-transformed-into-particle-accelerators.html 

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ISS: i cosmonauti stanno lavorando alla chiusura della perdita d’aria

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Sulla ISS (Stazione Spaziale Internazionale) i cosmonauti stanno ancora cercando di chiudere la perdita d’aria riscontrata nel mese di Settembre. Anche se la situazione a bordo della ISS continua a non destare preoccupazione, cosmonauti e astronauti stanno lavorando alla riparazione della perdita d’aria.

Da un’agenzia russa arrivano le ultime informazioni che hanno spiegato gli ultimi passaggi effettuati a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Dopo alcune settimane passate ha cercare di capire dove fosse la perdita d’aria, il 15 Ottobre i componenti della ISS hanno l’origine della perdita e hanno proceduto con la riparazione.

Si continua a lavorare alla riparazione

Inizialmente sembrava che la falla fosse nella parte statunitense della Stazione Spaziale ma la riparazione è stata effettuata nel modulo russo Zvedza, individuata grazie ai successivi test effettuati.
Non sono state divulgate immagini della falla, e non sono state fornite informazioni riguardanti la riparazione. La riparazione effettuata, però, sembrerebbe solo aver rallentato la perdita d’aria dalla ISS, ora i cosmonauti si vedranno costretti a chiedere aiuto ai loro colleghi statunitensi per trovare un altro modo per la riparazione.
Forse dovremmo provare riparazioni più resistenti che hanno i nostri partner. Possiamo parlare con loro. Questo perché l’attuale riparazione non è così efficiente” ha dichiarato Ivan Vagner (cosmonauta).
Nella parte russa, nei giorni scorsi, è stato riscontrato anche un malfunzionamento del riciclo dell’ossigeno. Anche in questo caso non è stato riscontrato alcun pericolo per l’equipaggio.
Il 17 Ottobre comunque la situazione è stata ripristinata. “L‘equipaggio della ISS sotto la guida di specialisti del team di controllo delle operazioni della missione ha eseguito con successo lavori di ripristino del funzionamento del sistema Electron-BM”, questo è quanto si legge in un comunicato.
Ricordando che l’anomalia di pressione all’interno della Stazione Spaziale Internazionale era stata riscontrata inizialmente a Settembre, ma considerando che non rappresentava un pericolo e in vista di una serie di operazioni di routine si è deciso di posticipare la riparazione, non considerata urgente.

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Astronauti del nuovo millennio: lancio dei veicoli privati

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Quando nel 1968 Stanley Kubrick mostrò al mondo il suo capolavoro assoluto “2001: Odissea nello spazio”, non aveva idea che la sua visione eccentricamente futuristica, sarebbe diventata una prospettiva per la conquista del nostro sistema solare.
In effetti, questo film, ancora troppo lungimirante per la scienza attuale, vede la conquista dello Spazio sull’astronave Discovery, come un’esperienza adatta a tutti. Dall’ibernazione, ai computer, alle navicelle d’avanguardia di ultima generazione, con dispositivi dai nomi impronunciabili nessuno, tranne la fantascienza, avrebbe potuto compiere una simile impresa.
Eppure agli albori del XXI secolo, già rivoluzionato da imprese tecnologiche, scoperte scientifiche rivoluzionarie, e ingegneria a livelli mai raggiunti prima, mancava solo lo spazio e le nuove conquiste del “nostro” universo.
Ma non è tutto. La vera impresa in tal senso, era privatizzare una missione spaziale con dispositivi e navicelle all’unisono dal punto di vista della targetizzazione.
Uno dei primi ad effettuare questo grande passo che segnerà la storia, è stato Elon Musk con la sua Crew Dragon “Endeavour”, che ha permesso di entrare nell’ottica di una nuova dimensione commerciale quella che viene chiamata “Space Economy”.
Dunque, era prevedibile già agli inizi di questo nuovo progetto che tutto ciò avrebbe inesorabilmente delineato i nuovi profili di una nuova classe di Astronauti.
Tra la Luna e Marte, i nuovi viaggiatori dello spazio, saranno selezionati in maniera meticolosa. Si pensi che sono già 12.040 gli aspiranti futuri Astronauti che si sono iscritti al programma per il nuovo reclutamento.
Una nuova era, questa, che designerà i futuri membri per la rinnovata agenzia spaziale; ma ovviamente, nonostante i numeri, i predestinati saranno abbondantemente scremati.

Astronauti del nuovo millennio: un XXI secolo di cambiamenti

Arrivati a questo punto, è inevitabile considerare che le esigenze degli astronauti stiano cambiando rapidamente con le nuove navette spaziali di privati, comprese le missioni di lunga durata.
Essere un astronauta nel XXI secolo, sarà completamente diverso da ciò che è stato per qualsiasi altro anni addietro. Questo è un pensiero comune a molti professionisti oggi. Non a caso una simile dichiarazione è stata fatta da un gruppo di esperti al Congresso Astronautico Internazionale virtuale mercoledì (data 14 ottobre).
Ma alla base di tutto, quello che sta cambiando radicalmente è l’ambiente di volo spaziale, e le motivazioni sono da vedersi dietro tanti fattori. La Stazione Spaziale Internazionale (ISS – International Space Station) sta spingendo sempre più verso la commercializzazione; infatti, accoglierà presto un numero sempre maggiore di equipaggi di agenzie spaziali su veicoli commerciali, portando con sé alcuni astronauti privati.
Nel frattempo, la NASA e i suoi partner internazionali, si stanno preparando per la prossima fase delle missioni di volo umano nello spazio dopo la ISS che si spera comprenda l’atterraggio sulla Luna nel 2024 e le eventuali escursioni degli astronauti su Marte.
Aziende private come Virgin Galactic, sperano di inviare astronauti e turisti in voli suborbitali, nel tentativo di aprire lo spazio a più persone oltre agli astronauti professionisti.
Da come si evince piuttosto chiaramente, questo è un ambiente molto diverso da quando la ISS ha ospitato il primo equipaggio di lunga durata nell’ottobre 2000.

Professionisti con lo sguardo al futuro

A conti fatti, si tratta esattamente di 20 anni fa (proprio nel mese di Ottobre). Le esigenze degli astronauti cambiano, si evolvono rapidamente e tutto questo è un divenire e progredire con la scienza, “Anche tra una missione e l’altra”, ha dichiarato l’ex astronauta della NASA Cady Coleman, che prosegue:
È stato molto emozionante vedere il lancio di Kate Rubins con il suo equipaggio russo otto ore fa“.  Con riferimento al lancio della spedizione 64 di mercoledì scorso (14 ottobre) da Baikonur, Kazakistan, verso la Stazione Spaziale Internazionale.
Rubins – meglio conosciuta per essere stata la prima astronauta a sequenziare il DNA nello spazio  – spingerà la scienza ancora più in là dalla sua ultima escursione nel 2016.
Coleman ha rilevato che, durante l’ultima missione, Rubins ha fatto crescere alcune cellule del muscolo cardiaco; “si potevano vedere le cellule che battevano al microscopio”.
“In questa missione, Rubins e il team di scienziati sulla Terra, faranno crescere piccoli pezzi di tessuto con estensimetri per vedere cosa succede al muscolo cardiaco quando è nello spazio”. Ha aggiunto Coleman.
Mi fa pensare a quello che è successo veramente in 20 anni sulla stazione spaziale, in campo scientifico“. Ha aggiunto l’ex astronauta, che ha pilotato due missioni dello Space Shuttle e la missione Expedition 27.
Ricordando una delle sue missioni sullo Shuttle, la STS-73, ha detto che era “una preparazione – per come stavamo -per fare esperimenti scientifici su quella stazione spaziale“.

Astronauti presenti, passati e futuri

Tuttavia, non è solo la scienza che è cambiata, ma anche le capacità degli astronauti. La prima generazione di astronauti, che ha testato le missioni orbitali e gli atterraggi sulla Luna negli anni Sessanta, deriva in gran parte da piloti collaudatori militari.
Mentre gli astronauti-scienziati hanno iniziato a partecipare alle missioni Apollo, Skylab e Space Shuttle negli anni Settanta e Ottanta.
Da allora, abbiamo visto per lo più scienziati e astronauti addestrati militarmente nello spazio; anche se i requisiti hanno continuato a cambiare nel corso dei decenni.
Il due volte astronauta dell’Agenzia Spaziale Europea Pedro Duque, che ha visitato la ISS nel 1998 e nel 2003, ha dichiarato che durante i suoi anni di intenso addestramento come astronauta, ha trovato difficile immaginare di essere altrove.
Poi, nel 2018 è diventato ministro della Scienza, dell’Innovazione e dell’Università per il governo spagnolo e ha detto che le sue capacità di astronauta lo stanno ancora aiutando ogni giorno.
Credo che lavorando come astronauta si impara, e questo è utile per molte cose nella vita“. Ha detto. “Impari a lavorare con persone molto intelligenti e lasci che facciano il loro lavoro mentre tu fai il tuo. Capisci come puoi essere in una posizione dove la gente ti ascolta; ma poi impari a usare tutto saggiamente “.

L’arrivo di astronauti – scienziati

L’astronauta della NASA Ricky Arnold, ha partecipato ad una missione dello Space Shuttle e la missione Expedition 55 nel 2009 e nel 2018, (rispettivamente).
“È stata un’epoca in cui l’addestramento in scienze, tecnologia, ingegneria e matematica (STEM) è diventato particolarmente importante; giacché gli astronauti hanno imparato un ‘comportamento da spedizione’ più generico per le missioni di lunga durata, ha detto, piuttosto che concentrarsi su alcune piccole abilità specifiche”.
“Il nuovo cambiamento nell’addestramento degli astronauti”, ha aggiunto,” si sta preparando alla proliferazione di nuove navicelle spaziali – tra cui l’equipaggio di SpaceX Dragon, lo Starliner di Boeing e la navicella Orion della NASA. Questo si aggiungerà alla navicella Russa Soyuz che attualmente traghetta gli astronauti nello spazio. C’è il potenziale di quattro diversi veicoli per capire come volare”. Ha detto Arnold, “e sarà interessante vedere cosa farà il team di addestramento con la prossima classe di astronauti che arriverà”.
Le competenze cambieranno ancora di più quando gli astronauti privati, saliranno a bordo della ISS o lavoreranno su altri veicoli spaziali”; ha detto Michael López-Alegría, che ha volato in tre missioni dello Space Shuttle e la lunga Expedition 14 negli anni ’90 e 2000.
López-Alegría ha partecipato insieme a Anousheh Ansari ad una missione spaziale, dichiarando in seguito “Altre nuove idee arriveranno man mano che diversi tipi di persone andranno nello spazio”, ha aggiunto.

Conclusioni e aspettative

“Stiamo entrando in un nuovo regno dove non è necessario essere un astronauta professionista per volare nello spazio; è l’era della democratizzazione di questo accesso“, ha detto López-Alegría. “È molto difficile in questo momento, perché i posti a sedere sono pochi”.
“E di conseguenza, sono abbastanza costosi. Ma sono abbastanza fiducioso che questi prezzi scenderanno, proprio come fu per l’aviazione negli anni Venti e Trenta. L’aviazione commerciale, infatti, era una cosa raggiungibile solo da chi era molto, molto ricco“.
López-Alegría si è ritirato dalla NASA come cosmonauta, ma è tornato alla stazione spaziale in un altra forma.
È entrato in Axiom Space come direttore dello sviluppo commerciale nel 2017; lavorando con una società che sta costruendo un modulo privato per la stazione spaziale che sogna di creare stazioni spaziali indipendenti nel prossimo futuro. López-Alegría farà un ritorno all’ISS in una missione Axiom Crew Dragon nel 2021, questo, quantomeno è ciò che dicono le fonti.
Quando si è chiesto chi altri parteciperà a quella missione durante la tavola rotonda, López-Alegría però, ha detto che “non può realmente confermare o negare ciò che sta accadendo“. Ma ha concluso che “Axiom ha in programma una missione privata nel quarto trimestre del 2021, a condizione che l’azienda passi le approvazioni con i suoi contratti. Fino a quel momento, non siamo pronti a discutere su chi saranno gli altri membri dell’equipaggio. Ma posso dirvi che sarà la prima missione commerciale pubblico-privata”.

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Il robot Pepper, un umanoide a disposizione degli anziani e dei medici

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Il robot Pepper, un umanoide il cui utilizzo è in fase di sperimentazione presso l’Irccs Casa Sollievo della Sofferenza a San Giovanni Rotondo, a Foggia, è stato messo a servizio per le persone anziane come supporto per la loro riabilitazione, la comunicazione con i parenti e la valutazione sanitaria.
Il progetto, che è stato iniziato presso la struttura, fa parte della ricerca sulla trasformazione digitale nella sanità, creata con la finalità di facilitare il lavoro del personale medico. Questa iniziativa, che si sta attuando presso Casa Sollievo, è stata avviata già da alcuni anni.
Infatti, il robot Pepper è arrivato presso l’Ospedale di San Giovanni Rotondo nel dicembre 2019 e oggi, grazie ai finanziamenti della Fondazione UBI Carime, è potuto divenire parte integrante di un progetto di ricerca, che ha come scopo quello di sviluppare soluzioni di robotica assistita, che si focalizzano sulla prevenzione del declino funzionale e cognitivo delle persone anziane.
Il robot Pepper, grazie ad un processo di co-creazione che ha coinvolto l’Unità Sistemi Informativi, innovazione e ricerca insieme all’Unità di Geriatria e ai pazienti stessi, si è potuto evolvere fino a riuscire a svolgere diverse mansioni all’interno dell’ospedale.
Tra i compiti che il robot Pepper andrà a svolgere ci sono il supporto nei percorsi di riabilitazione cognitiva e l’affiancamento ad uno psicologo durante la somministrazione dei test di valutazione del declino cognitivo. Inoltre, è stato creato per formare sessioni educative interattive per i pazienti, ai quali dovrà insegnare come poter conservare uno stile di vita sano e attivo.
Il robot Pepper avrà un compito molto prezioso da rivolgere ai pazienti, quello di creare dei collegamenti con le loro famiglie, grazie alla sua “Virtual Round”, una piattaforma che consente di svolgere delle visite virtuali al reparto di ricovero, che è stata migliorata presso la Casa Sollievo.
Antonio Greco, direttore della unità di Geriatria, spiega che: “Il progetto del robot Pepper a livello tecnologico è piuttosto semplice, ma offre delle grandi opportunità a livello umano per i pazienti. La sua presenza permette alle famiglie degli assistiti di poter vedere i propri cari, seguendo così a distanza le attività che vengono svolte nel reparto.
Antonio Greco, aggiunge inoltre che: “I medici attraverso il robot Pepper potranno condividere in maniera semplice e immediata le scelte delle cure da fornire ai pazienti presenti nella terapia intensiva. Ma soprattutto per le persone anziane poter avere la famiglia vicino, grazie all’utilizzo di una tele-presenza supportata da un robot è un immenso aiuto. Questa possibilità fornisce indubbiamente un enorme aiuto psicologico e molto più benessere per il paziente da molti punti di vista”.
Il robot Pepper potrà essere utile anche dopo che il paziente e ritornato a casa, che verrà seguito grazie ad un collegamento da remoto, cercando così di evitare ulteriori ricoveri se non necessari.
Francesco Giuliani, direttore dell’Unità Sistemi informativi, innovazione e ricerca, spiega che: “Presso Casa Sollievo negli ultimi anni abbiamo maturato un’esperienza considerevole nel campo della robotica assistita. Noi lavoriamo alla progettazione dei robot del futuro in maniera sinergica con le aziende produttrici. Inoltre, coinvolgiamo gli anziani nella co-creazione e nella sperimentazione dei prototipi”.
Francesco Giuliani, conclude affermando che: “Siamo riusciti già ad ottenere dei risultati molto positivi sulla capacità di queste tecnologie di riuscire a stimolare il processo cognitivo. La sperimentazione che stiamo facendo partire ci permetterà di compiere ulteriori e importanti passi in avanti”.
L’evoluzione del robot Pepper, avvenuta grazie al modello di interazione che si è creato tra il mondo tecnologico e quello clinico, ha permesso lo sviluppo di progetti utili sia per il paziente che per gli operatori sanitari. Inoltre, il progetto prevede che in futuro potrà essere applicato anche in altri reparti presenti in Casa Sollievo.
La struttura di Casa Sollievo della Sofferenza è uno dei pochissimi enti sanitari a possedere una lunga esperienza sul campo, per quanto riguarda l’utilizzo dei robot assistenziali per pazienti anziani con demenza senile o difficoltà di movimento.
Questo progetto si è potuto mandare avanti presso la struttura grazie alla sua partecipazione, come unico partner clinico, insieme ai due progetti internazionali MARIO e ACCRA, finanziati dall’Europa nell’ambito del programma Horizon 2020.
Il team dei ricercatori dell’ospedale ha contribuito alla progettazione dei robot secondo delle modalità innovative di coinvolgimento degli utenti finali. Inoltre, ha anche sperimentato dei robot in settings ospedalieri o domestici reali, come nelle corsia di reparto di geriatria, medicina fisica e riabilitativa, presso la residenza per anziani Casa Padre Pio e l’ambulatorio sanitario.
Le sperimentazioni, che hanno prodotto molte evidenze, sono state già pubblicate o sono in corso di pubblicazione sulle riviste scientifiche internazionali di settore, e riguardano il reale impatto di queste tecnologie in termini clinici, psicologici, etici e sociali sia sui pazienti che sugli operatori sanitari e gli altri caregiver.

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Quando finisce una pandemia?

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Con il coronavirus che non accenna a rallentare la propria corsa in tutto il pianeta e il numero delle persone contagiate che ormai ha superato i 40 milioni di casi (per non parlare dei decessi, che hanno scavalcato il milione di persone), c’è tutta una serie di domande che quotidianamente ognuno di noi si pone: quando finisce una pandemia?

Quando si può dire veramente che il pericolo è passato? Ci sono dei criteri per stabilirlo? E quali sono? Sarà un vaccino a mettere la parola fine a questa situazione, o qualche nuova cura, oppure il nostro organismo si abituerà al virus, che diventerà di conseguenza uno dei tanti che circolano e con cui conviviamo?

Ovviamente tutto ciò altro non è che un modo di capire quando potremo tornare alla normalità, alla nostra vecchia vita, senza mascherine, distanziamenti, e senza sentir più parlare di lockdown o terapie intensive cariche di malati di covid-19.

Se dal fronte della ricerca scientifica, qualche buona notizia arriva, al momento non c’è però ancora nulla di concreto che possa farci tornare in tempi brevi alla nostra vita di prima.

Dunque, a quando il ritorno alla “normalità”? Secondo gli storici, ogni pandemia in genere ha due soluzioni: quella medica, ovvero quando l’incidenza e la mortalità del virus calano significativamente, e quella sociale, ovvero quando tra la gente finisce la paura del contagio, sia perché si è stancata di vivere nel panico, sia perché ha imparato a convivere con la malattia.

Quale ipotesi è più realistica per il covid-19? Cerchiamo di andare con ordine. Sappiamo che a causare la diffusione della malattia è stato un coronavirus in precedenza “sconosciuto”, un patogeno nuovo verso il quale l’uomo non aveva mai sviluppato prima un’immunizzazione, oltremodo contagioso, ma di certo non il primo a cogliere l’umanità alla sprovvista causando centinaia di migliaia di morti.

La storia ci mostra infatti come nel corso dei secoli siano stati tanti i virus che hanno causato malattie anche mortali, molti dei quali non sono però mai spariti del tutto, semplicemente modificandosi sono diventati meno aggressivi, oppure è stata trovata una cura, o ancora l’organismo umano si è adattato alla loro presenza. In un unico caso, quello del vaiolo, un vaccino è riuscito a debellare completamente la malattia, così come attestato dall’OMS nel 1980.

Per cercare di comprendere i possibili scenari futuri legati all’attuale pandemia, può essere utile dare uno sguardo al passato, andando a vedere come si sono comportate le diverse pandemie che si sono verificate nel corso dei secoli. Senza però arrivare a scomodare la peste nera del 1300 (provocata non da un virus ma da un batterio) o altre malattie che hanno flagellato l’umanità, basta far riferimento all’influenza spagnola che, subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, uccise tra i 50 e i 100 milioni di persone tra il 1918 e il 1919, soprattutto giovani. Fu il primo virus H1N1 dell’epoca moderna, e svanì poco a poco, mutando col tempo in una delle tante varianti di influenza stagionale, e lo stesso destino toccò anche all’influenza di Hong Kong del 1968.

Sarà lo stesso anche per il covid-19? Nei prossimi anni saremo talmente abituati alla sua presenza quasi da non dovercene più preoccupare al pari di un banale raffreddore? Una prospettiva così a lungo termine si basa purtroppo solo su supposizioni (o forse dovremmo dire speranze), e di certo non ci aiuta oggi a combattere la malattia nel pieno della sua corsa, contro la quale abbiamo sicuramente più esperienza rispetto ai mesi scorsi, ma armi non ancora sufficienti a farci stare tranquilli del tutto.

Nessuno, allo stato attuale delle cose, sa stabilire con assoluta certezza cosa ci aspetta in futuro, ma sono ormai tanti i virologi e gli epidemiologi che sostengono che il coronavirus diventerà endemico, ovvero in circolo tra la popolazione in tutte le stagione, più dei raffreddori o dell’influenza che prevalentemente colpiscono in inverno.

Sarà dunque la teoria degli storici a prevalere, come accennato all’inizio di questo articolo, o farà prima la scienza a venirci in soccorso? Difficile a dirsi allo stato attuale delle cose: molto probabilmente non arriverà una fine improvvisa, e decretare la fine della pandemia sarà un processo lungo e difficile.

In attesa, continuiamo a seguire le indicazioni base per ridurre il pericolo di contagio: indossiamo la mascherina, manteniamo una distanza interpersonale di almeno un metro, laviamoci spesso le mani.

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Osservato il bosone di Higgs decadere in coppie di muoni?

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Il bosone di Higgs scoperto al Large Hadron Collider (LHC) nel 2012 è l’ultimo tassello del puzzle del modello standard delle particelle. Il bosone è stato teorizzato dal Peter Higgs decenni fa per dare consistenza a tutte le particelle fondamentali oggi note come i quark, gli elettroni, i neutrini, i muoni, e a tutte le altre particelle dotate di “massa” ad eccezione del fotone.

Il ruolo che ricoprono il bosone di Higgs e il suo campo è fondamentale nell’universo che osserviamo, i fisici ritengono che la particella sia responsabile della “massa” manifestata dalle particelle. Le particelle che attraversano il campo di Higgs, che oggi permea l’intero universo, più vi rimangono “invischiate”, tanto più sono “massicce”. Il fotone invece non risente dell’effetto del campo e si propaga indisturbato alla velocità massima consentita nell’universo.
I fisici possono dimostrare l’accoppiamento tra il bosone di Higgs e le particelle osservando i prodotti del suo decadimento. Il bosone di Higgs ha nell’universo attuale un’esistenza molto breve, esso “vive” per soli 15,6 miliardesimi di miliardesimi di secondo (1,56×10 ^ -22) decadendo in altre particelle.
Quando i fisici scoprono una nuova particella dal decadimento del bosone dimostrano che esiste un “accoppiamento” tra il bosone di Higgs stesso e le particelle emesse dal suo decadimento. Quell’accoppiamento dimostra che il campo di Higgs fa si che le particelle acquistino massa. Questa è l’importanza rivestita dal bosone nel nostro universo e per questo i fisici studiano i prodotti del decadimento del bosone.
Di solito, il bosone di Higgs decade in particelle più massicce, come coppie di quark bottom. Se invece si creassero abbastanza bosoni di Higgs all’interno di LHC alcuni di essi dovrebbero decadere in particelle più leggere a cui si accoppia, come i muoni. Il decadimento di Higgs in due muoni è uno dei decadimenti più rari che i fisici possono rilevare. Tale decadimento dimostrerebbe per la prima volta l’accoppiamento muone-Higgs, dimostrando una volta di più che una particella elementare ottiene la sua massa interagendo con il campo di Higgs.
I fisici, per ora, hanno ricavato alcuni dati promettenti ma non definitivi sul decadimento di Higgs in coppie di muoni, utilizzando l’acceleratore LHC. I ricercatori che lavorano sui dati del Compact Muon Solenoid (CMS), uno dei rilevatori di particelle installati nell’acceleratore, hanno scoperto un “eccesso” di muoni. L’acceleratore di particelle LHC ha però molti modi di produrre muoni in maniera accidentale. Ora i fisici devono dimostrare che quanto osservato nei dati non sia rumore di fondo ma il prodotto di un accoppiamento tra Higgs e le particelle osservate.
L’eccesso osservato non è grande“, ha spiegato Maria Spiropulu Professoressa di Fisica presso il California Institute of Technology, (che ha conseguito il dottorato in fisica ad Harvard ed è stata Enrico Fermi Fellow presso l’Università di Chicago prima di trasferirsi al CERN come ricercatrice) a WordsSideKick.com. “Guardando i dati grezzi, anche con un occhio esperto, potresti non rendertene conto“, ha aggiunto.
I fisici hanno utilizzato algoritmi ad apprendimento automatico, dimostrando che questo minuscola quantità di muoni inspiegabili ha solo lo 0,27% di essere osservata per caso. I fisici chiamano quel livello di certezza di aver trovato un segnale e non solo rumore di fondo “tre sigma“.
Generalmente, una scoperta non è considerata provata finché non raggiunge almeno i “cinque sigma“, che equivale a una probabilità dello 0,00006% di essere un prodotto accidentale del rumore di fondo. Per questo la Spiropulu è stata attenta a dire che un accoppiamento Higgs-muone non è stato dimostrato ancora. Anche i ricercatori che lavorano su ATLAS, un esperimento correlato al LHC, hanno trovato prove dell’accoppiamento Higgs-muone, ma a solo due sigma. Ciò equivale a una probabilità del 4,5% che il loro segnale fosse solo rumore di fondo.
La scoperta di CMS pubblicata il 29 luglio sul sito web è un motivo per iniziare ad entusiasmarsi. Se più dati convergono verso il livello di confidenza cinque sigma, ha spiegato la Spiropulu, potremmo essere nella direzione giusta per confermare una relazione esponenziale tra la massa di un prodotto di decadimento di Higgs e la frequenza con cui il bosone decade in quella particella. I fisici ritengono che la frequenza del decadimento del bosone di Higgs in ciascuna particella a cui si accoppia possa essere prevista dal quadrato della massa di quella particella, quindi le particelle più pesanti si presentano molto più spesso. Questa scoperta potrebbe aiutare a dimostrare se la frequenza corrisponde alla previsione
La Spiropulu ha affermato che LHC sta probabilmente spingendo i limiti della sua sensibilità in termini di rilevamento di prodotti di decadimento di Higgs più leggeri. Il collisore certamente non è abbastanza potente o sensibile da produrre abbastanza decadimenti dell’elettrone da Higgs da poter essere misurato. E non è neanche lontanamente vicino al livello tecnico delle apparecchiature necessarie per misurare l’accoppiamento tra Higgs e i neutrini ultraleggeri.
I futuri rilevatori avranno un vantaggio rispetto a LHC, ha spiegato la Spiropulu. Il collisore è una macchina grande e complessa di forma circolare e al suo interno vengono accelerati e fatti collidere fasci di protoni ad alta energia. Queste collisioni coprono un ampio intervallo di energia, perché i fisici non conoscevano ancora la massa di Higgs, un dettaglio critico per la produzione della particella. I collisori di nuova generazione potrebbero essere modulati sulla massa del bosone di Higgs e produrre abbastanza eventi da rivelare accoppiamenti ancora più rari. E man mano che i rilevatori diventeranno più sensibili, ha aggiunto la Spiropulu, potrebbero riscontrare discrepanze con il modello standard, aprendo la strada verso nuove idee per la fisica.
Fonte: https://www.livescience.com/lhc-higgs-boson-decay-muon-pairs.html

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Nokia costruirà una rete cellulare 4G sulla Luna

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La NASA sta collaborando con Nokia per costruire una rete cellulare 4G LTE sulla luna. Il produttore di apparecchiature Nokia ha annunciato lunedì la sua espansione in un nuovo mercato, vincendo un accordo per installare la prima rete cellulare sulla Luna.

Nokia, una società finlandese nota non solo per la produzione di telefoni cellulari ma anche per apparecchiature di comunicazione back-end come torri cellulari e satelliti, costruirà la rete che verrà installata da un lander lunare sulla superficie della Luna entro la fine del 2022.

Il progetto fa parte del programma Artemis della NASA, che mira a stabilire una “presenza umana sostenibile” sulla luna entro il 2028, dove gli astronauti inizieranno a condurre esperimenti ed esplorazioni dettagliati che l’agenzia spera l’aiuteranno a sviluppare la prima missione umana su Marte.

In un comunicato stampa della scorsa settimana, la NASA ha annunciato l’intenzione di collaborare con 14 diverse società americane per un premio totale di quasi $ 370 milioni, per sviluppare tecnologie di atterraggio sulla Luna. Nokia of America Corporation, con sede a Sunnyvale, in California, è stata elencata come partner nel rilascio per un importo di $ 14,1 milioni.

Lunedì Nokia, offrendo maggiori dettagli sul suo contratto con l’agenzia spaziale statunitense, ha affermato che la prossima rete fornirà “capacità di comunicazione critiche per molte diverse applicazioni di trasmissione dati, comprese funzioni vitali di comando e controllo, controllo remoto dei rover lunari, navigazione in tempo reale, e streaming di video ad alta definizione“.

“Queste applicazioni di comunicazione sono tutte vitali per la presenza umana a lungo termine sulla superficie lunare”, ha aggiunto la società.

Secondo quanto riferito, Nokia utilizzerà tecnologie di comunicazione standard per lo più commerciali per costruire una “rete LTE ultracompatta, a bassa potenza, resistente allo spazio, end-to-end” progettata per resistere alle dure condizioni del lancio e dell’atterraggio lunare e per operare nelle condizioni estreme dello spazio”.

“Reti di comunicazione affidabili, resilienti e ad alta capacità saranno fondamentali per supportare la presenza umana sostenibile sulla superficie lunare. Costruendo la prima soluzione di rete wireless ad alte prestazioni sulla Luna, Nokia Bell Labs sta ancora una volta piantando la bandiera per l’innovazione pionieristica oltre i limiti convenzionali”, ha detto nel comunicato stampa il chief technology officer di Nokia, Marcus Weldon.

Secondo quanto riferito, anche la rete cellulare verrà aggiornata al 5G alla fine, che il sito tecnologico CNET osserva come “una notizia entusiasmante per i moonwalker, forse un po ‘fastidioso per chiunque non possa ricevere un segnale proprio qui sulla Terra”.

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Ermete Trismegisto: simbolo di conoscenza

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Ermete Trismegisto: simbolo di conoscenza

Poco sappiamo su Ermete Trismegisto, figlio più del mito che della storia in verità. Da quelle rare informazioni che sono giunte a noi, veniamo a conoscenza della figura eterea di un autore, fondatore di quella letteratura che sarà in seguito chiamata “ermetica” appartenente alla tarda età ellenistica.

Come informa l’enciclopedia Treccani, la letteratura ermetica è un insieme di scritti riguardanti tematiche abbraccianti la filosofia e la religione. Tali testi circolarono in ambiente greco e romano nei primi secoli dopo la nascita di Cristo. Tali scritti parlavano della creazione dell’uomo e della liberazione dello spirito tramite una sola strada: la conoscenza

Ermete Trismegisto e Toth

Ermete Trismegisto avrebbe avuto natura divina. Venne infatti identificato con il dio egiziano Toth, che sarebbe stato l’ispiratore delle dottrine dei filosofi classici. Trismegisto, è un titolo onorifico, in verità, che sta per “tre volte grandissimo“.

Gli scritti a lui attribuiti vennero connessi in seguito a un gruppo di testi riguardanti la magia, l’alchimia e l’astrologia. Tali elaborati posero le basi della letteratura definita ermetica. Il personaggio in questione fu molto conosciuto e apprezzato anche in epoca medioevale e rinascimentale. Ermete era un considerato il “padre” degli alchimisti, poiché egli stesso era ritenuto l’inventore di tale scienza. 

Mediatore tra l’uomo e il divino

Secondo alcune versioni, per quanto maestoso e sapiente, Ermete Trismegisto sarebbe stato un uomo e non un dio. Egli sarebbe vissuto qualche tempo prima di Mosè. Fu il primo a proporre la rivelazione divina in forma scritta.

Concentriamoci sul nome, Ermete: esso è correlato al nome di Ermes, messaggero degli dei e intermediario tra l’uomo e il divino. Potrebbero essere stati, volendo, la stessa entità. Dionidream.com informa che il primo a menzionare Ermete Trismegisto fu Erodoto nel 450 a.C., traducendo in lingua greca le conoscenze astrali del popolo egizio. Si ipotizza che potesse essere stato un sovrano egizio (quasi sicuramente apparteneva a tale popolo) mentre, secondo un’altra versione, sarebbe stato lo stesso Mosè

La scoperta di Leonardo da Pistoia

Nel corso di un viaggio in Macedonia avvenuto nel 1453, il monaco italiano Leonardo da Pistoia scoprì 14 opere originali appartenute a Michele Psello. Tali testi sarebbero stati redatti nell’XI secolo in lingua greca e firmati proprio da Ermete Trismegisto. Questo corpus è intitolato Hermetica ed è conosciuto anche come Corpus Hermeticum.

Tale corpus venne in seguito donato da Leonardo a Cosimo dei Medici, il quale diede carico a Marsilio Ficino di tradurlo dal greco al latino e, in seguito all’italiano dell’epoca. Tra le opere attribuite ad Ermete Trismegisto vi sono I Misteri Eleusini, la tavola smeraldina e Il cratere della sapienza

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