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L’astronomo e la nave madre nel 1879

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Nella casistica ufologica trovano posto i cosi detti “avvistamenti di aeronavi” che secondo molti ufologi rappresentano i primi incontri con esseri provenienti da altri mondi, avvenuti  già decenni prima dei classici avvistamenti di “dischi volanti” che in seguito divennero UFO.

Nella casistica viene citato in particolare un caso, definito significativo perché fu raccontato da una persona molto conosciuta nella comunità dello Stato di New York, mettendo a rischio la sua reputazione.

Gli ufologi, quasi all’unanimità, ritengono che la presenza di queste entità a bordo delle aeronavi suggerirebbero un grande interesse da parte loro per l’umanità, interesse che per alcuni si perde nella notte dei tempi.

L’avvistamento in questione ebbe luogo sopra i cieli di New York, tra il 12 e il 13 aprile 1879. A osservare il fenomeno niente meno che un astronomo, Henry Harrison, di Jersey City che avrebbe segnalato un “oggetto luminoso di forma circolare” che sembrava librarsi in alto nel cielo notturno.

Tuttavia, poiché l’oggetto apparentemente sembrava mantenere una posizione di stazionamento, Harrison teorizzò che, di fatto, doveva “muoversi a grande velocità” per mantenere la posizione rispetto alla rotazione della Terra. L’astronomo osservò lo strano fenomeno per circa tre ore, dopo di che l’oggetto improvvisamente con un brusco scatto si spostò ad est.

Harrison poteva tranquillamente escludere diversi fenomeni astronomici noti, come ad esempio una cometa e decise cosi di riferire dell’avvistamento ad una “autorità scientifica affermata“. Essendo egli stesso membro della Toronto Astronomical Society, non solo credeva che fosse suo dovere, ma credeva che il suo rapporto sarebbe stato preso sul serio.

Il 13 Aprile mandò un telegramma con la sua relazione alla United States Naval Observatory nella capitale della nazione, Washington DC. Tuttavia, piuttosto che l’indagine seria che si aspettava, il direttore dell’osservatorio, Asaph Hall III ignorò semplicemente il telegramma.

Ciò indusse a prendere in mano la situazione.

Nell’edizione del 17 aprile 1879 del New York Tribune, venne pubblicata una “lettera” che raccontava dell’avvistamento fatto da Harrison. Inoltre, poco meno di un mese più tardi, il 10 Maggio 1879, l’edizione di Scientific American pubblicò la lettera di Harrison ancora una volta, e forse, cosa più importante, stavolta rivolta ad un pubblico molto più preparato.

Sebbene non sempre favorevole, molta corrispondenza sarebbe arrivata a seguito della lettera di Harrison. Non mancarono le accuse di errore rivolte ad Harrison per aver scambiato la cometa di Brorsen per qualcos’altro (cosa che Harrison respinse) ma non mancarono astronomi ansiosi di scoprire qualcosa di più sulla storia.

Harrison rese noti alcuni particolari dell’oggetto osservato, che oltre che circolare aveva una forma a campana. Inoltre respingendo la spiegazione della cometa, Harrison era fermamente convinto che l’oggetto stesse “muovendosi sotto controllo intelligente”.

Harrison non era una voce solitaria, altri due astronomi nella regione di New York, Spencer Devoe e Henry Pankhurst, avrebbero riportato e reso pubblici i loro avvistamenti di un oggetto molto simile nella stessa notte.

Se una rondine non fa primavera tre dovrebbero essere più convincenti e infatti lo furono, almeno agli occhi di Morris K. Jessup, un ricercatore che riesaminò il caso. L’oggetto, secondo le sue stime, si trovava a circa 80-100 miglia dalla superficie terrestre e aveva un diametro di mezzo miglio, per questo i ricercatori definiscono l’oggetto “nave madre”.

Ovviamente non prendiamo per oro colato queste considerazioni soprattutto le avventate analisi fatte a posteriori da Morris K. Jessup, tra il 1958 e il 1959 questi visse diverse traversie: fu lasciato dalla moglie, fu coinvolto in un grave incidente d’auto e l’editore rifiutò di pubblicare alcuni suoi manoscritti.

Il 20 aprile del 1959 Jessup fu trovato morto nella sua autovettura nella Contea di Miami-Dade, intossicato dai gas di scarico della sua vettura; le motivazioni ufficiali della morte furono quelle di suicidio anche se i complottisti si dissero certi che il ricercatore fosse stato “messo a tacere” perché coinvolto in “scottanti” rivelazioni sull’esperimento Filadelfia.

A quanto pare, il dramma umano vissuto da Jessup ai loro occhi era irrilevante. Ma questa è un’altra storia.

Fonte: https://www.ufoinsight.com/the-1879-mothership-ufo-and-early-new-york-close-encounters/

I terremoti in Italia e dintorni, cause e storia

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La litosfera mediterranea è sottoposta agli sforzi provocati dal movimento relativo della placca euroasiatica e della placca africana

È questa la ragione per cui l’Adriatico e l’Italia presentano un’attività sismica importante. Una situazione complessa, perché le caratteristiche di tale attività mostrano notevoli variazioni da una zona all’altra.

L’attività sismica si concentra soprattutto sulle Alpi orientali e lungo la catena appenninica, fino alla Sicilia. Solo la Sardegna e il Salento possono dirsi completamente asismiche. La magnitudo massima dei terremoti che storicamente hanno avuto origine nella regione italiana è circa 7.

Nel nostro Paese abbiamo un’attività sismica prevalentemente superficiale, cioè le sorgenti dei terremoti si trovano in genere nella crosta terrestre e a profondità dell’ordine dei 10 km: per questo anche eventi sismici con magnitudo non molto alta possono essere piuttosto pericolosi. Peraltro, sebbene la pericolosità sismica non raggiunge i livelli di altre regioni della Terra, la vulnerabilità e l’esposizione elevate contribuiscono a determinare un alto rischio sismico. Quindi se viviamo in una delle regioni classificate come sismiche, dobbiamo sapere che è un fatto abbastanza probabile quello di subire un terremoto di dimensioni medie (con magnitudo da 5 a 7), in grado di danneggiare gravemente le costruzioni che non siano state realizzate secondo criteri antisismici.

mappa sismica dell'Italia

Ecco le 7 regioni sismiche principali:

1) Le Alpi nord-orientali (Friuli): la regione settentrionale con i più grandi terremoti, con meccanismi di compressione, con direzione circa nord-sud
2) Le Alpi occidentali: meccanismi compressivi e trascorrenti; basse magnitudo
3) L’Appennino settentrionale: è molto complesso, con meccanismi di tutti i tipi (compressivi, distensivi, trascorrenti); le magnitudo sono basse, l’attività alquanto diffusa
4) L’Appennino centrale: attività diffusa, spesso a carattere di sciame; magnitudo fino a 6-6,5
5) L’Appennino meridionale: attività limitata a una fascia abbastanza ristretta (< 40 km); meccanismi distensivi e magnitudo fino a 6,5-7
6) L’Arco calabro: terremoti superficiali con magnitudo fino a 7. È l’unica regione italiana con terremoti intermedi e profondi, fino a 500 km, anche questi con magnitudo fino a 7
7) La Sicilia: rientra nell’attività della catena appenninica. La parte caratterizzata da maggiore pericolosità sismica è quella orientale, con magnitudo massima attorno a 7.

In particolare esiste una notevole attività nel tratto delle Alpi Marittime-Alpi Cozie, anche se con eventi in genere piccoli; più a nord, l’attività è molto debole e riprende nelle Alpi lombarde e nel Trentino, sparsa, ma mai intensa. Si ha una notevole frequenza di eventi sismici moderati nell’area del Garda e in buona parte del Veneto. Nel Friuli, le magnitudo possono essere invece elevate. La sismicità delle Alpi orientali è concentrata principalmente nelle aree pedemontane della Carnia e delle Alpi Giulie, anche di parte slovena, e si è manifestata spesso con forti eventi, come il terremoto del Friuli del 1976.

La catena appenninica, dalla Liguria all’Arco calabro-peloritano, è interessata da un’intensa e diffusa sismicità. Gran parte dei terremoti più forti dell’Italia settentrionale e centrale coincide con una fascia di depressioni tettoniche recenti allineate lungo la catena appenninica, che vanno dalla val di Magra al Mugello alla val Tiberina alla Val Nerina all’Aquilano al Fucino alla valle del Liri. Nella catena appenninica centro-meridionale si annoverano gli eventi sismici più forti mai registrati in Italia: nel corso degli ultimi cento anni, ricordiamo il terremoto di Avezzano del 1915, e quelli dell’Irpinia del 1930 e del 1980. La Calabria detiene il primato di una sismicità diffusa e al tempo stesso intensa. I forti terremoti sono stati numerosi negli ultimi secoli, i maggiori del Novecento nel 1905 e nel 1908 quest’ultimo distrusse Messina, Reggio Calabria e le regioni circostanti. In Sicilia inoltre i terremoti etnei hanno il carattere di sciame e raggiungono talvolta intensità distruttive, ma fortemente localizzate. La regione catanese-siracusana ha subito l’ultimo grande terremoto nel 1693 ed è una delle aree italiane a più elevata pericolosità. Anche la Sicilia occidentale non è esente da sismicità, come dimostra il terremoto del Belice del 1968.

Le fasce costiere lungo la catena appenninica presentano sismicità bassa o nulla. Una delle fasce tirreniche va dalla Versilia alla piana del Volturno ed è caratterizzata da scarsa sismicità, a esclusione delle aree vulcaniche, dove si ha un’attività frequente, a prevalente carattere di sciame. La sismicità legata alle regioni vulcaniche amiatina, vulsina, albana e flegrea è caratterizzata da ipocentri superficiali, magnitudo in genere inferiore a 4 e intensità storicamente non superiori all’VIII grado Mercalli. Un’altra fascia a bassissima sismicità corrisponde alla linea costiera e pedeappenninica adriatica, a sud di Ancona sino al Gargano. Vi sono poi alcune aree sismogenetiche isolate, decentrate rispetto all’Appennino, quali l’Anconetano e il Gargano.

I mari circostanti la penisola sono interessati da attività sismica nell’area ligure tra Imperia e la Corsica, nel canale di Sicilia e nel basso Adriatico, tra le Tremiti e il canale d’Otranto: l’attività, messa in luce dalla Sismologia strumentale, è di lieve entità. Nel basso Tirreno si registrano i terremoti più profondi (fino a 500 km) dell’area italiana, dovuti alla subduzione di litosfera oceanica sotto l’arco calabro.

La Sardegna geologicamente non fa parte dell’Italia, non ha partecipato ne all’orogenesi alpina e nemmeno a quella appenninica. L’isola è un pezzo antichissimo di storia della Terra risalente al paleozoico. Pertanto le forze di orogenesi attuali non la interessano più da milioni di anni.

Gli attuali movimenti tellurici sono causati da un processo geologico che dura da diverse centinaia di migliaia di anni: lo stiramento della crosta terrestre.

L’Appennino si sta allargando, dall’Adriatico al Tirreno. Lo vediamo dal gps. Le due parti si allontanano a una velocità media di circa 5 millimetri ogni anno. Questo è il motore, gli effetti sono i terremoti che colpiscono la nostra area, probabilmente legati alla rotazione della microplacca adriatica che spinge contro le Alpi e la parte meridionale di questa che ruota in senso antiorario. Siamo ancora nel campo delle ipotesi, questa è la più accreditata.

Il processo di deformazione è continuo. Facciamo un esempio: cinque millimetri all’anno comportano nell’arco di due secoli una deformazione di un metro. Le faglie, che sono un sistema ramificato e complesso tra la Calabria e la Pianura Padana, resistono a questo ‘stiramento’ perché hanno un loro attrito. Quando però l’allargamento ‘batte’ la resistenza, queste si spostano in pochi secondi dello spazio che non avevano coperto nei due secoli precedenti. Dalla lunghezza del pezzo di faglia che si sposta dipende la magnitudo del terremoto.

I terremoti avvengono nella parte più superficiale del nostro pianeta. Le rocce che formano la crosta e il mantello superiore subiscono continuamente giganteschi sforzi, che sono il risultato di lenti movimenti tra le grandi placche in cui è suddiviso lo strato più superficiale della Terra, come se fosse il guscio incrinato di un uovo.

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Le placche tettoniche e i loro movimenti.

Tali movimenti sono prodotti dai moti convettivi del mantello che spingono e trascinano le placche generando sforzi che sono massimi vicino ai confini tra le placche stesse, come per esempio in Italia e in generale in tutto il Mediterraneo, e minimi al loro interno, come succede nel Canada o nell’Africa centro-occidentale.

placche

Le placche tettoniche nel Bacino del Mediterraneo

L’Italia è situata al margine di convergenza tra due grandi placche, quella africana e quella euroasiatica. Il movimento relativo tra queste due placche causa

I terremoti del passato

Guardando la mappa dei terremoti italiani dall’anno 1000 al 2006 (http://emidius.mi.ingv.it/CPTI11/), è facile notare che i terremoti spesso avvengono in zone già colpite in passato. Gli eventi storici più forti si sono verificati in Sicilia, nelle Alpi orientali e lungo gli Appennini centro-meridionali, dall’Abruzzo alla Calabria. Ma ci sono stati terremoti importanti anche nell’Appennino centro-settentrionale e nel Gargano.

La sismicità dall’anno 1000 al 2006 (Dati: CPTI11, http://emidius.mi.ingv.it/CPTI11/).

La sismicità dall’anno 1000 al 2006 (Dati: CPTI11, http://emidius.mi.ingv.it/CPTI11/).

In particolare, dal 1900 ad oggi si sono verificati 30 terremoti molto forti (Mw≥5.8), alcuni dei quali sono stati catastrofici. Qui di seguito li riportiamo in ordine cronologico. Il più forte tra questi è il terremoto che nel 1908 distrusse Messina e Reggio Calabria.

I terremoti avvenuti in Italia dal 1900 ad oggi di magnitudo Mw≥5.8 (Dati: CPTI11, http://emidius.mi.ingv.it/CPTI11/).

I terremoti avvenuti in Italia dal 1900 ad oggi di magnitudo Mw≥5.8 (Dati: CPTI11, http://emidius.mi.ingv.it/CPTI11/).

Per conoscere l’impatto che i terremoti hanno avuto sul territorio è possibile consultare il Database Macrosismico Italiano 2011 che riporta i valori di intensità di quasi 1700 terremoti avvenuti in Italia dall’anno 1000 al 2006.

I terremoti recenti

Guardando la mappa degli ultimi 30 anni (1985-2014) di sismicità si nota che i terremoti recenti sono localizzati in aree distribuite principalmente lungo la fascia al di sotto degli Appennini, dell’arco Calabro e delle Alpi.

La sismicità dal 1985 al 2014. Sono mostrati i terremoti di magnitudo ML≥2.0 registrati dalla Rete Sismica Nazionale (Dati: Iside, http://iside.rm.ingv.it).

La sismicità dal 1985 al 2014. Sono mostrati i terremoti di magnitudo ML≥2.0 registrati dalla Rete Sismica Nazionale (Dati: Iside, http://iside.rm.ingv.it).

Negli ultimi 30 anni la Rete Sismica Nazionale ha registrato più di 190.000 eventi sismici in Italia e nei Paesi confinanti, la maggior parte dei quali non è stata avvertita dalla popolazione e sono 45 i terremoti che hanno avuto una magnitudo Richter ML pari o superiore a 5.0. I più forti terremoti di questo periodo sono avvenuti in Abruzzo il 6 aprile 2009, Mw =6.1, e in Emilia Romagna il 20 maggio 2012, Mw =5.8, (http://csi.rm.ingv.it/ e http://iside.rm.ingv.it).

I terremoti in Italia dal medioevo ad oggi

Un terremoto ogni undici anni. Di cui ben 46 “molto distruttivi”. Il Cnr ha calcolato che soltanto in Italia, dall’inizio del secolo XI fino alla fine del XV, ci furono 335 eventi sismici di una intensità compresa tra il quinto e l’undicesimo grado della scala Mercalli.

Nel 476, l’anno con il quale, in modo convenzionale, stabiliamo l’inizio del Medioevo, a Roma la caduta del grande impero d’occidente fu accompagnata da 40 giorni di scosse che stremarono la popolazione e distrussero una grande quantità di edifici e monumenti.

Eventi terribili che apparivano misteriosi, allora come oggi. Un manoscritto del XV secolo, il Corpus Codicum Astrologicorum Graecorum ammoniva: “Sognare il terremoto significa turbolenza universale”.
Il “terrae motu” era un incubo ricorrente nella vita quotidiana delle persone.

Ecco un elenco dei principali terremoti dal IV secolo agli inizi del XVI.

346 Due terremoti distinti: uno nell’area balcanica, l’altro nell’Italia centromeridionale. Tutti e due lo stesso anno. I cronisti dell’epoca, nei loro racconti, li unificarono. Ma nel Novecento i geofisici sono riusciti a ricostruire gli avvenimenti con sufficiente chiarezza.
La terra tremò in modo violentissimo nel nono anno del regno di Costanzo durante lo svolgimento di una olimpiade. Alla morte e alle distruzioni si aggiunse, subito dopo, una eclissi totale di sole (6 giugno 346). Alcune iscrizioni su lapidi risalenti alla metà del IV secolo, confermano che le maggiori devastazioni avvennero nella regione sannita. Il terremoto, fortissimo, colpì un’area molto vasta della penisola italiana: il basso Lazio, la Campania settentrionale (Telesia e Allifae), la piana di Navelli nell’Aquilano e il Molise (Aesernia, Saepinum), fino alla Puglia settentrionale. Le faglie si attivarono “a grappolo”, come spiega l’uso del plurale (“terrae motibus”) nell’iscrizione isernina di Autonio Iustiniano.
San Girolamo, nel suo “Chronicon” raccontò l’orrore di quei giorni nel quale Roma “fu scossa per tre giorni e tre notti”. Crollarono le mura e le case di molte città campane. Anche Durazzo, in Albania, vide distrutte quasi tutte le sue abitazioni. Le scosse più forti ebbero però il proprio epicentro nel Matese. Lo choc fu enorme. L’impero romano si pose il problema di come rispondere in fretta e in modo concreto alla disperazione della popolazione. L’intervento amministrativo venne concentrato sulle zone disastrate. Nacque così una nuova provincia romana, il Sannio (“Samnium”) che venne separata dalla Campania.

357 La terra tremò a lungo in una vasta area tra l’Asia Minore e la Macedonia e distrusse, fra molti altri centri, anche Nicodemia, (oggi İzmit) l’antica città dell’Anatolia ricca di templi, palazzi e impianti termali che fino alla nascita di Costantinopoli (330) era stata la residenza ufficiale dell’imperatore.
Le vittime del terremoto furono migliaia. Incalcolabili i danni. Qualche anno dopo, nel 362, l’imperatore Flavio Claudio Giuliano visitò una città ancora devastata. Lo storico Ammiano Marcellino, in quei tragici momenti, provò a dare basi scientifiche al fenomeno. Riprese le antiche teorie di Aristotele e Anassimandro per i quali durante il sisma l’aria e i venti scuotevano la terra dall’interno. Ma descrisse anche quattro precise tipologie di terremoto. Chiamò “ribollenti” i terremoti sussultori, capaci di sollevare la terra e far emergere isole dal mare. Definì “inclinanti” quelli ondulatori, “sprofondanti” quelli accompagnati dall’apertura delle voragini, capaci, a volte, di inghiottire interi paesi e “muggenti” quelli annunciati dal fragoroso rumore della terra.

362 Ricerche archeologiche, lapidi e epitaffi raccontano di un disastroso terremoto a cui seguì un maremoto. Messina, epicentro del sisma, e Reggio furono rase al suolo. Fu una ecatombe: la popolazione della Sicilia nord-orientale e della Calabria meridionale fu falcidiata dalle scosse. Interi paesi scomparvero. Tindari, costruita su un promontorio dei monti Nebrodi, subì gravi danni. Le terme pubbliche a Reggio vennero ricostruite dopo il terribile evento.

2 dicembre 362 Nicodemia, 5 anni dopo il sisma del 357, fu di nuovo distrutta dalla potenza delle scosse. Iniziò allora la decadenza della città. Ammiano Marcellino, nelle sue “Storie”, raccontò la visita dell’imperatore Flavio Claudio Giuliano “Quando vide che le sue mura erano sprofondate in un mucchio di cenere pietose, mostrò la sua angoscia con lacrime silenziose e si diresse verso il palazzo imperiale con passo lento: in particolare, pianse sullo stato miserabile della città…”.

21 luglio 365 Il primo terremoto “universale” ha una data precisa. L’epicentro, con ogni probabilità, fu poco a sud dell’isola di Creta. Alle fortissime scosse seguì un maremoto di gigantesche proporzioni. Le acque del Mediterraneo si ritirarono all’improvviso, lasciando le rive a secco. Poi le onde, altissime e mugghianti, tornarono a devastare le città, i paesi e i villaggi costruiti lungo le coste. Lo tsunami portò morte e desolazione ovunque, dalla Sicilia alla Palestina. La splendida Alessandria d’Egitto fu annichilita dalla forza dirompente delle acque. La catastrofe fu letta come una punizione divina. E molti scrittori cristiani la collegarono a Giuliano l’Apostata, che tentava di ripristinare il paganesimo.

 

21 luglio 369 Lo sciame sismico, che secondo altri autori avvenne nell’anno 375, colpì tutto il sud della penisola. Benevento venne rasa al suolo: caddero le sue 15 torri e morì la metà dei suoi abitanti. Simmaco, testimone degli eventi, nei suoi scritti elogiò la forza d’animo degli abitanti che avevano perso tutto ma che vollero subito ricostruire la loro città, per la quale anche molti mecenati investirono le loro sostanze private. Come del resto fece l’amministratore imperiale di Reggio Calabria: Ponzio Attico, “corrector Lucaniae et Brittiorum”: da commissario straordinario nominato d’urgenza dal potere centrale, ci tenne a far sapere ai posteri che aveva restaurato a dovere molti edifici pubblici della città.

371 All’epoca di Valentiniano I, un terremoto fortissimo seguito da un imponente sciame sismico devastò le coste dello stretto tra Reggio e Messina. Gran parte della popolazione abbandonò le città.

443 I “Fasti Vindobonenses Posteriores”, celebri annali medievali, ci informano dei gravi danni che subì Roma, colpita da un sisma di grande potenza che si abbatté, con ogni probabilità, in tutto il centro Italia: molte statue crollarono insieme ai portici del Teatro di Pompeo, a una navata della basilica di S. Paolo fuori le Mura e a alcuni pezzi del Colosseo.

6 novembre 472 Una eruzione del Vesuvio distrusse interi paesi. La pioggia delle ceneri, secondo i resoconti di Marcellino Comes e altri antichi scrittori, raggiunse anche Costantinopoli. Procopio scrisse che la polvere sputata dalle viscere del vulcano “oscurò tutta l’Europa”. Di certo non esagerava, visto che il terribile avvenimento è ricordato anche in un antico ufficio ed in un’omelia su S. Gennaro. Lo storico Alfano, nel 1924, elencò le principali eruzioni convalidate da fonti attendibili, registrate nell’arco dei secoli: 203, 472, 512, 685, 787, 968, 991, 999, 1007, 1037, 1139 e 1631.

476 Roma subì una serie di scosse che si protrassero per 6 settimane e che portarono gravi danni a molti edifici pubblici e abitazioni private.

484-508 Nei primi mesi del 484 un fortissimo terremoto colpì il territorio intorno ad Avezzano. Epicentro delle scosse fu un punto della faglia del Fucino, la stessa che secoli dopo, nel 1915, generò il terremoto che causò la morte di circa 30.000 persone. Alba Fucens, l’antica città sorta nelle terre degli Equi, fu distrutta.

21 maggio 526 Il terremoto di Antiochia, nel sud est della Turchia, uccise almeno 250.000 persone. Fu considerato uno dei più grandi disastri naturali della storia. Giovanni Malalas, Procopio di Cesarea e Giovanni da Efeso raccontarono nei particolari la tragedia che colpì una delle più grandi metropoli del mondo antico. Lo sciame sismico durò 18 mesi. Al terremoto seguì un terribile incendio che finì di distruggere tutti gli edifici che, in qualche modo, erano stati risparmiati dalle scosse. Il porto di Seleucia Pieria, sollevato quasi un metro da terra, diventò inagibile. La Domus Aurea, una grande chiesa a pianta ottagonale fatta costruire da Costantino I, fu distrutta. Solo poche case, costruite a ridosso delle montagne, si salvarono. Eufrasio, il patriarca della città, morì cadendo in un calderone viscoso usato dai fabbricanti di otri. Gli storici pensano che l’enorme numero di vittime dipese anche dal fatto che quel giorno, per festeggiare l’Ascensione, giunsero in città moltissimi abitanti delle campagne circostanti. Quando la notizia giunse a Costantinopoli, l’imperatore Giustino I, in segno di lutto, entrò in chiesa senza il suo diadema e il clamide. Subito dopo, ordinò che ingenti somme fossero destinate alla ricostruzione della città che sorgeva in una posizione strategica, all’incrocio delle strade che conducevano dall’Eufrate al Mediterraneo e dalla Siria all’Asia Minore. Ma molti grandi edifici, appena riedificati, grazie a un eccezionale sforzo collettivo, furono riabbattuti due anni dopo (novembre 528) da un altro terremoto che causò un numero molto minore di vittime.

29 aprile 801 Carlo Magno, insieme agli abitanti di Spoleto, visse ore drammatiche “all’ora seconda della notte”. Eginardo, segretario dell’imperatore, nella cronaca redatta per gli Annales, ci informa che il sovrano, quattro giorni prima, era partito alla volta della città ducale. I danni furono pesanti. Il sisma interessò anche Roma dove collassò la chiesa di Santa Petronilla e crollarono i tetti della chiesa di San Paolo apostolo. L’avvenimento è riportato anche nel “Liber pontificalis”, nella parte dedicata alla vita di papa Leone III.

847 Nel mese di giugno il ducato longobardo di Benevento (che comprendeva le attuali Campania e Molise) fu scosso da un terremoto di grande violenza. L’epicentro, con ogni probabilità, fu l’Alta valle del Volturno o la faglia delle Aquae Iuliae nel Venafrano. Leone Ostiense, riferisce che, per effetto del sisma, Isernia “fere tota a fundamentis corrueret”. L’impianto romano della città venne completamente distrutto. Le macerie erano così numerose che gli isernini le spianarono per poi ricostruire sopra di esse la città nuova. Anche oggi i resti dei templi sotto la cattedrale si trovano a circa tre metri di profondità rispetto all’attuale piano stradale. Il sisma fu avvertito anche a Montecassino e a Roma, dove furono registrati lievi danni anche al Colosseo. Il terremoto venne visto come una punizione divina. A questo proposito, la studiosa Emanuela Guidoboni ha scovato una storia curiosa tra le pagine di un manoscritto conservato nell’abbazia di Montecassino: “Nel mese di giugno ci fu un forte terremoto nella regione di Benevento, col risultato che Isernia fu ridotta in macerie e molta gente morì, incluso il vescovo. Quando la notizia giunse al generale Massar, poi identificato nel generale arabo Abu Ma’shar, che stava progettando un’incursione proprio su Isernia, egli disse: “Il Signore di tutte le cose è adirato con loro; dovrei forse io aggiungere la mia ira alla sua? Non andrò dunque in quel luogo”.

22 dicembre 856 Il fortissimo terremoto di Damghan, in Iran, ebbe effetti devastanti e produsse danni entro un raggio di 350 chilometri dall’epicentro. I morti furono forse 200.000: secondo lo United States Geological Survey, l’agenzia americana che studia la posizione e la magnitudo dei terremoti di tutto il mondo, fu il sesto della storia per numero di vittime. In quell’area geografica, nella zona montuosa a sud del Mar Caspio, si registra il 17% dei terremoti più potenti al mondo e il 6% delle scosse totali dovute a sismi registrate nel pianeta.

893 Due terremoti dagli effetti devastanti che fecero centinaia di migliaia di morti ma dei quali si conosce ancora poco. Per la scarsità delle fonti ma forse anche per l’errata interpretazione della parola araba Dvin, che indica una località dell’Armenia: nella traduzione persiana diventò Dabil e indicò Ardabil, una città dell’Iran a maggioranza azera, soggetta a frequenti terremoti.
Così Ibn al-Jawzi e altri cronisti arabi e armeni raccontano di un terremoto nel dicembre 893 a Dvin che fece 150.000 morti. Nel XIV secolo, lo storico Ibn Kathir collocò però le forti scosse ad Arbadil, come confermano anche i resoconti, nel secolo successivo, dello storico al-Suyuti. La data di questo fortissimo evento sismico dovrebbe essere il mese di marzo dell’anno 893.

25 ottobre 990 Un sisma interessò il Sannio e l’Irpinia, con l’epicentro nei dintorni di Carife. La desolazione e la morte arrivarono in un’area compresa fra Capua, Ariano Irpino e Conza. In quest’ultima località l’intero abitato fu raso al suolo. A Benevento crollarono 15 torri. A Vipera, un centro ora scomparso nei pressi del capoluogo, tutte le case furono distrutte e ci furono numerosi morti. Il paese di Ronza, distrutto, non fu mai più ricostruito.

991 Lo storico Baratta ricorda l’evento in modo stringato: “Spaventevole terremoto in Siponto ed in Puglia”.

1005 Terremoto con epicentro nella Valle di Comino (Frusinate) paragonabile a un sisma del VII-VIII grado della scala Mercalli.

9 novembre 1046 Nella media valle dell’Adige le scosse arrivarono insieme al maltempo invernale. Molte le vittime e i danni, da Salorno, a 20 km da Trento, fino alla chiusa Ceraino, vicino al lago di Garda, in territorio veronese.

27 gennaio  1091 Quattro fonti dei secoli XI, XII e XIII sono concordi sulla data di un un “ingens terrae motu” avvertito a Roma che non procurò danni. Un codice conservato nella biblioteca del British Museum, il “Liber Pontificalis”, un “Catalogus Imperatorum et pontificum” e il “Chronicon pontificum et imperatorum basileense” scrivono di scosse che con ogni probabilità ebbero l’epicentro nelle montagne dell’Appennino centrale.

3 gennaio 1117 Il più forte terremoto di tutti i tempi mai registrato nella Pianura Padana, probabilmente superiore, sia per magnitudo (stimata almeno 6.5-6.6 scala Richter) che per vastità degli effetti, a quello friulano del 1976, ebbe il proprio epicentro sulla riva destra dell’Adige nei pressi di Ronco, a 28 chilometri da Verona. Le cronache fanno però pensare a più terremoti con epicentri diversi: a Cremona la terrà tremò prima, intorno alle 16, nella Bassa veronese alle 21 e a Pisa nella mattinata successiva. Quel che è certo è che fu una catastrofe: le scosse di assestamento si prolungarono per oltre quaranta giorni. E niente fu come prima. I morti furono almeno 30.000. Il sisma fu avvertito pure a Venezia, Padova, Vicenza, Nonantola, Modena, Parma, Piacenza, Bergamo, Brescia, Milano, Como e Vercelli. Le scosse si sentirono dalla Slovenia al Piemonte, dalla Francia alla Germania, fino all’abbazia di Montecassino.
Testimoni atterriti parlarono delle acque del Po e dell’Adige che si sarebbero “sollevate a volta” prima di travolgere gli argini e causare una catastrofica alluvione in gran parte della Pianura Padana. La terra si spaccò in più punti. Si intorpidirono le fontane e molti alberi vennero sradicati.
A Verona, di fatto, le testimonianze urbanistiche alto-medievali vennero spazzate via. La città, già stata colpita nell’inverno precedente da una alluvione dell’Adige, rimase in ginocchio. La maggior parte delle case furono distrutte. Così le chiese principali e i monasteri di San Nazzaro e Santo Stefano. Crollò anche Santa Maria Antica che poi venne ricostruita. Così come il Duomo, sventrato dal sisma e in seguito allungato e allargato in stile romanico.
Nella laguna di Venezia si verificò una eruzione di acqua sulfurea. E la città lagunare di Malamocco, devastata dalle scosse, non venne mai più ricostruita. A Gemona, nell’attuale Friuli, crollò la cinta muraria. Ad Aquileia le chiese subirono gravissimi danni. Così come a Padova, dove la prima cattedrale venne rasa al suolo insieme alla basilica di Santa Giustina e all’oratorio di S.Maria e Prosdocimo. Il campanile della chiesa di S.Felice e Fortunato di Vicenza venne distrutto per metà per poi essere ricostruito nel 1160 fino alla cella campanaria.
Gravissimi i danni anche in tutta la regione emiliana. Fu distrutta l’Abbazia di Nonantola, come ricorda, ancora oggi, una incisione sull’architrave del portale maggiore della chiesa. Subirono crolli anche i duomi di Modena e di Parma e la Collegiata di Castell’Arquato. A Piacenza, sul luogo della chiesa dedicata a Santa Giustina, sbriciolata dalle scosse, venne edificato l’attuale Duomo dedicato all’Assunta.

11 ottobre 1125 Il sisma colpì Benevento e le città vicine. Le scosse si susseguirono per due settimane. L’epicentro fu forse a Carlantino, nell’attuale provincia di Foggia. Gravi furono i danni nella Valle Telesina.

10 novembre 1120 Terremoto con epicentro nell’alto Volturno. Il “Chronicon Vulturnense” del monaco Giovanni, scritto intorno all’anno 1130 riferisce di danni a Vandra, un paese poco a nord di Isernia, dove crollò la chiesa e “gente non poca fu uccisa”.

11 ottobre 1138 Aleppo fu al centro di un terremoto che secondo lo United States Geological Survey fu il terzo più catastrofico della storia. La prima stima dei morti fu fatta da Ibn Taghribirdi (XV secolo) per il quale le vittime furono 230.000. La città siriana è costruita al centro di un sistema di faglie geologiche proprio sul confine che separa la placca arabica dalla placca africana. La regione fu colpita da due distinte sequenze di terremoti: la prima tra l’ottobre 1138 e il giugno 1139 e la seconda, meno intensa, dal settembre 1156 al maggio 1159. Aleppo all’epoca era molto popolosa. Migliaia di abitanti, allarmati dalle prime scosse, fuggirono nelle campagne prima della scossa principale che fu avvertita anche a Damasco.

1139 Per almeno un mese il cielo di tutta l’Italia meridionale venne oscurato da ceneri rossastre (Anon. Cavens., Chronicon) provocate da otto giorni di eruzioni del Vesuvio.

4 febbraio 1169 Un terremoto e un maremoto colpirono la Sicilia Orientale. Recenti ricerche hanno stabilito che la magnitudo raggiunse i 6.6 punti della scala Richter. I morti furono almeno 15.000. Non ci sono resoconti precisi sui danni, che, in ogni caso, furono enormi a Catania, Siracusa, Modica, Lentini, Aci Castello, Sortino e Piazza Armerina.

24 maggio 1184 Più di 2.000 furono i morti del terremoto che colpì la Valle del Crati. I paesi di Bisignano, S. Lucido e Luzzi furono devastati. A Cosenza crollò la cattedrale.

1223 Siponto, una delle più antiche città italiane, porto dell’Apulia e importante colonia romana fu colpita da un terremoto che ebbe il suo epicentro nei pressi di Vico. I danni furono ingenti in tutto il Gargano e nella Capitanata. Un altro terremoto, nel 1255, ridusse in rovine la città. Manfredi di Sicilia, figlio illegittimo dell’imperatore Federico II di Svevia e di Bianca Lancia, stabilì allora che Siponto fosse ricostruita in una nuova posizione. Nacque così Manfredonia.

1227 Fonti incerte parlano di un terremoto con epicentro a Subiaco che devastò il monastero di Santa Scolastica e causò, nella sola Roma, almeno 5.000 morti.

1246 Spoleto è terra di terremoti frequenti. Sanzi, nella “Storia del Comune di Spoleto” ricorda: “Nell’anno frequenti e fortissimi terremoti scossero talmente la città che fecero cadere molte case e molte torri”.

1231 Le scosse colpirono Roma e causarono danni alla parete sud ovest del Colosseo. Crollò allora la Tor de’ Conti, l’edificio medievale situato nell’attuale largo Corrado Ricci, nel rione Monti, vicino i Fori Imperiali, sull’area di un antico tempio alla dea Tellas, all’angolo di via Cavour e via dei Fori Imperiali. Diversi terremoti sfregiarono la costruzione nei secoli: in particolare a seguito del sisma del 1348, la torre diventò inabitabile e fu abbandonata fino al 1620, quando fu ricostruita.

1248 Un eccezionale evento sismico colpì nel mese di novembre la valle della Maurienne, in alta Savoia. Una parte del Mont Granier crollò facendo migliaia di morti.

30 aprile 1279 Terremoto sull’Appennino umbro-marchigiano, tra Cagli, Fabriano, Nocera Umbra e Foligno. Numerosi documenti monastici, gli annali benedettini e le cronache del tempo sottolineano l’intensità e anche la durata delle scosse che secondo alcune fonti si protrassero per 17 giorni. La città di Nocera Umbra fu distrutta per oltre la metà. Crollarono edifici adiacenti alla chiesa maggiore, il monastero e le curie dei canonici. Una “Chronica S.Petri” scritta a Erfurt nella metà del Trecento, ci informa che il vescovo ebbe salva la vita ma che morirono moltissime persone. Gravi danni furono registrati anche a Spello e Foligno, come ricorda una memoria del notaio Bonaventura di Benvenuto. La forza delle scosse sbriciolò il castello di Serravalle e una enorme frana deviò il corso del fiume Chienti. Il terremoto fu avvertito anche a Roma e Montecassino e segnalato pure a Venezia. Nelle stesse ore delle prime scosse, un altro terremoto colpì alcune località dell’Appennino a cavallo tra la Toscana e l’Emilia Romagna. Le notizie dei terremoti del 1279 ebbero un’eco vasta anche in Europa: se ne trovano menzioni in cronache austriache, tedesche e polacche (studio di riferimento Monachesi, ed 1987 – www.emidius.mi.ingv.it).

4 settembre 1293 L’area del Sannio fu ancora al centro di un forte terremoto (magnitudo 5.8 della scala Richter) con probabile epicentro nella Vallata di Cusano Mutri. I danni maggiori si ebbero a Bojano e a Isernia. Le vittime furono numerose (“Cronicon Suessanum”, 1103-1348). I “Registri Angioini” per l’anno 1294 ci informano che per i molti danni subiti dalla città, re Carlo concesse agli isernini il condono della terza parte delle tasse. Le scosse vennero avvertite anche a Napoli dove venne gravemente danneggiata la chiesa di Santa Maria Donnaregina.

30 novembre 1298 Morti e distruzioni nel Reatino e a Spoleto per un terremoto (5.9 scala Richter) che ebbe il suo epicentro nei pressi di Leonessa, dove crollarono case, chiese e palazzi tra cui l’attuale sede del Museo Civico. Il Castello di Vetranola, nei pressi di Monteleone di Spoleto, venne completamente distrutto. E “per circa sei mesi si avvertirono scosse molto forti in tutta l’Umbria” (M. Baratta: I Terremoti d’Italia. Torino, F.lli Bocca Editori).

3 dicembre 1315 Il forte terremoto a L’Aquila e Sulmona (5.5 scala Richter) fu preceduto da un estenuante sciame sismico nei dieci mesi precedenti alla scossa principale. Non vi furono vittime, ma molti edifici de L’Aquila risultarono danneggiati o inagibili, come la chiesa di San Francesco. Le scosse durarono altre 4 settimane. La popolazione visse all’aperto, in tettoie di fortuna fino al 1316.

1308 Una città sotto choc. Rimini fu colpita da un terremoto che lasciò un segno indelebile nella memoria dei suoi abitanti. Era il 25 gennaio.

4 dicembre 1328 Preci fu distrutta da un violento terremoto (6.3 scala Richter) che colpì la Valnerina, il territorio di Foligno e anche una vasta area marchigiana. A Norcia rimasero in piedi solo le mura. Molti crolli si registrarono a Visso, Cerreto di Spoleto, Monte San Martino, Castel San Giovanni, Montesanto, Spoleto e Ripatransone. Il sisma fu avvertito anche a Pesaro e a Roma. Un testimone diretto ci ha lasciato una preziosa testimonianza su quei tragici momenti: Moisé ben Daniel, appartenente alla comunità ebraica del paese marchigiano di Ripatransone, scrisse di aver percepito la forte scossa poco prima che sorgesse il sole. Ma poi si dilungò sui racconti degli sfollati di Norcia che si erano rifugiati nella Marca Anconetana. Non solo. Moisé volle verificare gli effetti del sisma e andò di persona a Norcia. Ogni famiglia ebbe delle vittime e quasi tutte le abitazioni furono sbriciolate dalle scosse.

20-25 novembre 1343 Il maremoto che colpì le coste della Campania fu descritto da un cronista d’eccezione: Francesco Petrarca. L’autore de “Il Canzoniere” ne parla nelle sue lettere. L’evento, con ogni probabilità, riguardò tutto il Mediterraneo. Una “enorme marea”, e quindi uno tsunami, si abbatté sulle case, i porti e gli arsenali lungo le coste del Tirreno e dell’Adriatico. Ad Amalfi fu distrutta parte della città. Danni ingenti furono segnalati anche nei pressi di Costantinopoli.

25 gennaio 1348 Un terremoto con epicentro a Villach, in Austria, portò morte e distruzioni anche in alta Italia. In Friuli Venezia Giulia si contarono più di 1.000 morti e a Verona crollarono alcune abitazioni. Molti cronisti videro in questo terremoto dirette connessioni con la peste che alcuni mesi più tardi investì gli stessi territori.

9 settembre 1349 Uno dei terremoti più devastanti di sempre ebbe il suo epicentro sull’Appennino abruzzese, nei pressi de L’Aquila. È stato calcolato che raggiunse i 6.3 gradi della scala Richter. Non è possibile risalire al numero dei morti. Ma di sicuro furono migliaia. Le scosse, che si susseguirono a breve distanza di tempo, colpirono un’area vastissima, da Perugia a Benevento. A L’Aquila, insieme alle mura, crollarono anche varie porte della città. Pescasseroli fu completamente distrutta. Il sisma devastò il castello di Alvito e l’Abbazia di San Clemente a Casauria. Danni a persone e cose furono segnalati anche a Teramo e Atri. Il Lazio, le Marche e il Molise subirono gravissimi danni. A Napoli crollarono chiese e palazzi. Matteo Villani scrisse dello stato della Città Eterna: “Feciono cadere il campanile della chiesa grande di San Paolo, con parte della nobile torre delle Milizie, e la torre del Conte, lasciando in molte parti di Roma memoria delle sue rovine”.

Collassarono anche le arcate esterne nel settore meridionale del Colosseo. Due anni dopo, la città dei papi era ancora in ginocchio. Petrarca che partecipò al Giubileo del 1350, scrisse nel 1351:”Roma è stata scossa da un insolito tremore, tanto gravemente che dalla sua fondazione, che risale a oltre duemila anni fa, non è mai accaduto nulla di simile. Caddero gli antichi edifici trascurati dai cittadini e ammirati dai pellegrini, quella torre, unica al mondo, che era detta del conte, aperta da grandi fenditure si è spezzata ed ora guarda come mutilata il proprio capo, onore della superba cima sparsa al suolo; inoltre, benché non manchino le prove dell’ira celeste, buona parte di molte chiese e anzitutto di quella dedicata all’apostolo Paolo è caduta a terra la sommità di quella Lateranense è stata abbattuta, tutto ciò rattrista con gelido orrore l’ardore del giubileo”.
Dell’opera di un Anonimo Romano è rimasto solo l’indice, dal quale si ricava il titolo del libro che descrisse il fenomeno: “Dello terratriemulo lo quale fu in Italia”. Giovanni da Ballano nel suo “Chronicon mutinense” ricorda che cadde la grande colonna di marmo “che sosteneva la chiesa di S. Paolo con circa la terza parte del tetto”. I documenti pontifici riportano l’allarme e la preoccupazione per i danni subiti dalle basiliche di San Paolo, di San Pietro e di San Giovanni in Laterano. Pensando soprattutto alla massa di pellegrini che accorreva a Roma per il Giubileo, papa Clemente VI ordinò l’immediato restauro degli edifici sacri.
A Isernia la forza del terremoto fece crollare quasi tutti gli edifici, cattedrale compresa. Cadde distrutta la Cattedrale e quasi tutti gli edifici. Lo storico Ciarlanti nelle sue “Memorie Historiche del Sannio”, vergate nel 1644, scrisse di un evento “terribilissimo che sentir si fece non nell’Italia solo, ma anche in Germania e nell’Ungaria”.
Del terribile terremoto del 1349, si trova traccia anche in un documento, manoscritto, di Mariano del Moro, “Memorie diverse della città di Perugia dal 1251 al 1438 con altre dal 1599 al 1612”, conservato nel capoluogo dell’Umbria, presso l’Archivio Storico di San Pietro. Una pagina riporta la sintesi degli avvenimenti: “Incominciarono molti gran terremoti in Perugia e andarono a terra molti torri e case e fecero assai gran danno, e spavento non solo in Perugia ma per tutta la Marca, il Borgo (Borgo San Sepolcro, ndr) Assisi, Spello e all’Aquila”.

25-31 dicembre 1352 Un terremoto di intensità pari al nono grado della scala Mercalli devastò l’alta valle del Tevere. M. Arcaleni nel libro “La vera età di Città di Castello” (Petruzzi editore) scrive: ”Questo terremoto (…) interessò le colline a sud di Monterchi e l’alta Val Tiberina; crollò la rocca d’Elci, dove rimase uccisa un’ intera guarnigione. I morti furono circa cinquecento e si contarono un gran numero di feriti. Tra il 31 dicembre e il 1 gennaio, la terra tremò di nuovo con effetti ancora più devastanti; il terremoto causò, tra San Sepolcro e Città di Castello più di duemila vittime. Ebbe un raggio molto ampio, fu avvertito in un’ area particolarmente vasta, compresa tra Bologna ed Orvieto”. L’alto numero dei morti a Sansepolcro si spiega con il fatto che in città erano acquartierate per l’inverno le truppe mercenarie dei Visconti (studio di riferimento: Castelli e altri, 1996 – www.emidius.mi.ingv.it).

I crolli di un terremoto medievale

I crolli di un terremoto medievale

18 ottobre 1356 Basilea fu al centro del peggior terremoto della storia dell’Europa centrale. La prima, fortissima scossa, arrivò alle ore 19. La replica giunse intorno alle 22. Crollarono più di 40 castelli costruiti intorno alla città svizzera. Case, edifici pubblici, torri e campanili furono distrutti nel raggio di 200 chilometri. La frattura della costa terrestre è tuttora attiva. La faglia, ora coperta dalla foresta, si estende per circa 8 chilometri, dal Giura franco-svizzero fino alla città.

18 ottobre 1389 L’alta Umbria e le Marche furono al centro di un altro fenomeno sismico (6.0 scala Richter) 37 anni dopo il terremoto del 1352. A Città di Castello e Sansepolcro crollarono le mura insieme a molti edifici. Il sisma sbriciolò gli insediamenti fortificati di Castelguelfo, Baciuccheto e Pietragialla. Subirono seri danni anche Urbania e Mercatello sul Metauro. L’evento principale fu preceduto da una scossa minore il 16 ottobre e lo sciame sismico si protrasse per almeno un mese (studio di riferimento Castelli e altri autori – www.emidius.mi.ingv.it).

1414 Un terremoto pressoché dimenticato dalle cronache ma di forte magnitudo (5.8 scala Richter) interessò la costa garganica e procurò molti danni alla città di Vieste.

2 febbraio 1438 Il secondo terremoto più forte prodotto dal vulcano dei Colli Albani (5.4/5.6 Richter) lasciò gravi danni in tutto il Lazio meridionale e in Abruzzo. Paolo, monaco dell’abbazia di san Nilo a Grottaferrata, che in seguito divenne abate, racconta che quando era ancora un copista, alle 13.15 avvertì uno “spaventoso terremoto”. Lo spavento non gli impedì di registrare la notizia del sisma a mo’ di nota del manoscritto su cui stava lavorando. Il codice del V secolo sulle opere di Teodoreto ora è custodito nella Biblioteca Evangelica di Roma.

26 aprile 1458 La terrà tremò a lungo, tra l’Umbria e le Marche. Il forte terremoto (5.8 scala Richter), fu avvertito soprattutto a Città di Castello dove fu distrutto un terzo degli edifici cittadini ma anche Sansepolcro, Montone, Perugia e Gubbio. Alcune fonti parlano addirittura di 4.000 morti nell’alta valle del Tevere. In tutta l’Umbria la popolazione, in preda al panico, dormì all’aperto fino alla fine del mese di maggio.

4-5 dicembre 1456 Uno dei più forti e estesi terremoti del Medioevo colpì l’Appennino centrale e il sud della penisola italiana. Le scosse arrivarono in “in nocte S. Barbarae” e furono devastanti. Morirono 70.000 persone. La popolazione si dimezzò in oltre 90 centri abitati: a Isernia ci furono 1500 vittime su poco più di 2000 abitanti; 1600 furono i morti a Paduli e almeno 400 a Benevento. A Teramo morirono più di 200 persone. A L’Aquila, ai danni alle abitazioni si aggiunse il crollo della Torre di Piazza Palazzo. Rivisondoli fu completamente rasa al suolo. Castel di Sangro, Rocca Cinque Miglia e Roccaraso subirono danni pesantissimi. Il paese di Roccapizzi, nei pressi di Pescocostanzo, fu completamente raso al suolo, venne abbandonato dagli abitanti e non fu mai più mai più ricostruito. Il terremoto, avvertito dall’Abruzzo alla Calabria fu preceduto dall’apparizione della cometa di Halley, un segno dei cieli considerato infausto. Probabilmente, si attivarono in sequenza più faglie appenniniche. Almeno tre epicentri in contemporanea: il primo tra il Sannio e l’Irpinia, nella zona di Paduli, Apice e Ariano, il secondo nel Matese e il terzo in Abruzzo. Le potenti scosse furono seguite da uno tsunami che investì le coste ioniche tra Taranto e Gallipoli. Lo sciame sismico durò per diversi anni. La morte e la disperazione toccarono in modo severo anche Napoli, dove crollarono il campanile della chiesa di Santa Chiara e la chiesa di San Domenico Maggiore. Giannozzo Manetti, umanista fiorentino e segretario della corte napoletana fu testimone diretto del sisma.

26 novembre 1461 Un terremoto poco profondo e proprio per questo devastante, di magnitudo 6.4 della scala Richter, si abbatté su L’Aquila e su tutto il territorio circostante. Altre scosse, meno forti, arrivarono a dicembre e gennaio dell’anno successivo. Incerto ma elevato il numero delle vittime. La città subì molti danni. Furono rasi al suolo i vicini centri di Onna, Poggio Picenze, San Pio delle Camere e Sant’Eusanio Forconese.

1477 Appena un anno prima, Foligno era stata colpita da una epidemia di peste. Il terremoto durò dai primi giorni dell’anno fino a maggio: molte scosse leggere e una fortissima (il 30 gennaio, intorno alle ore 23). Una memoria redatta da Michelangelo Grillo, notaio del Comune, conservata all’archivio di Stato di Perugia, racconta in modo vivido quei terribili giorni. Le scosse vennero avvertite anche a Perugia e Todi. Il freddo era intensissimo. Anche le acque del lago Trasimeno si erano ghiacciate. Il 2 e il 3 febbraio, dopo l’ennesima, fortissima scossa, sfiniti dallo sciame sismico, i folignati si riversarono in strada nonostante fuori nevicasse e rimasero esposti alle intemperie. Molte, vecchie abitazioni cittadine crollarono, insieme a quasi tutti i camini della città e ai merli del palazzo dove risiedevano i priori.

1481 Prima il sisma, poi uno tsunami. Il terremoto di Rodi fece 30.000 morti. Le scosse iniziarono il 15 marzo e durarono fino al mese di gennaio del 1482. Le case e le chiese furono rase al suolo. Il Palazzo del Gran Maestro crollò il 18 dicembre a causa dello sciame sismico insieme a tre torri del porto. La città fu ricostruita secondo criteri antisismici: l’altezza delle case fu limitata a soli due piani e gli edifici sui due lati di una strada furono collegati con archetti ribassati all’altezza del primo solaio, proprio per assorbire le spinte orizzontali. Così la città vecchia cambiò volto e assunse l’omogeneità urbanistica che ancora la caratterizza.

11 agosto 1483 Un sisma con epicentro tra Cesena e Forlimpopoli. Gravi danni a Forlì, con diverse vittime. Crolli anche a Bertinoro.

5 giugno 1501 La “torre mozza” del palazzo comunale di Modena, si chiama così perché venne parzialmente abbattuta in seguito al sisma (5.9 scala Richter) che ebbe come epicentro la zona a sud ovest di Maranello. Molta paura tra la popolazione ma le vittime furono meno di 50. Tra le località più colpite, oltre a Modena e Maranello, anche Sassuolo, Castelvetro e Montegibbio.

1506 Tutta la zona dei Monti Frentani e in particolare la città di Ortona furono al centro di un forte terremoto che distrusse molti piccoli paesi e fece centinaia di morti.

26 marzo 1511 Uno dei più devastanti terremoti di sempre, di magnitudo 6.5 della scala Richter, si abbatté tra la Slovenia e il Friuli, interessò la pianura padana, l’Austria e le due sponde dell’Adriatico. Alla fine delle scosse si contarono almeno 12.000 morti. Gravi danni furono registrati in tutto il Veneto e, in particolare, a Verona. La laguna veneta si trovò a secco e uno tsunami distrusse il porto di Trieste. La popolazione del grande porto adriatico fu costretta a lasciare la città e a rifugiarsi sulla collina di San Giusto. Furono colpite anche Pirano, in Istria e Lubiana in Slovenia. La città austriaca di Klagenfurt venne rasa al suolo. Anche Venezia che sembrava al riparo dai terremoti, perché fondata sull’acqua, subì gravi danni. Fu danneggiato anche il campanile, simbolo della città. E come ricordano le fonti dell’epoca, crollarono “molti camini et case”.

Fonti: INGV, Wikipedia, varie

La durata della vita umana è scritta nel nostro DNA

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Di Benjamin Mayne

Gli esseri umani hanno una durata “naturale” di circa 38 anni, secondo un nuovo metodo che abbiamo sviluppato per stimare la durata della vita di diverse specie analizzando il loro DNA.

Estrapolando da studi genetici di specie con durata della vita nota, abbiamo scoperto che il mammut lanoso estinto probabilmente viveva intorno ai 60 anni e le balenidaepossono aspettarsi di godere di più di due secoli e mezzo di vita.

La nostra ricerca, pubblicata su Scientific Reports, ha esaminato il modo in cui il DNA cambia man mano che un animale invecchia e ha scoperto che varia da una specie all’altra ed è correlato alla durata della sua sopravvivenza.

Il mistero dell’invecchiamento

Il processo di invecchiamento è molto importante nella ricerca biomedica ed ecologica. Man mano che gli animali invecchiano, sperimentano un declino delle funzioni biologiche, che ne limita la durata. Fino ad ora è stato difficile determinare quanti anni un animale può vivere.

Il DNA è il progetto degli organismi viventi ed è proprio là che si cercano le informazioni sull’invecchiamento e sulla durata della vita. Tuttavia, nessuno è stato in grado di trovare differenze nelle sequenze di DNA che spiegano le differenze nella durata della vita.

La durata della vita tra i vertebrati varia notevolmente. Il ghiozzo pigmeo ( Eviota sigillata ) è un piccolo pesce che vive solo otto settimane, ma sono stati trovati singoli squali della Groenlandia (Somniosus microcephalus) che hanno vissuto per oltre 400 anni.

Conoscere la durata della vita degli animali selvatici è fondamentale per la gestione e la conservazione della fauna selvatica. Per le specie in pericolo, la durata della vita può essere utilizzata per capire quali popolazioni sono vitali. In settori come la pesca, la durata della vita viene utilizzata nei modelli di popolazione per determinare i limiti di cattura.

Tuttavia, la durata attesa della vita della maggior parte degli animali è sconosciuta. La maggior parte delle stime proviene da un piccolo numero di individui che vivono in cattività di cui erano note le età alla morte. Per le specie di lunga durata è difficile ottenere una durata in quanto potrebbero sopravvivere a una generazione di ricercatori.

Utilizzo dei cambiamenti nel DNA per misurare l’età

Negli ultimi anni i ricercatori hanno sviluppato “orologi” basati sul DNA che possono determinare quanti anni un animale sta usando un tipo speciale di cambiamento nel DNA chiamato metilazione del DNA.

Un nuovo studio mostra che la durata della vita di un animale è scritta nel DNA. Per gli umani, sono 38 anni
Usando l’analisi del DNA, gli scienziati possono ora stimare la durata della vita di specie estinte e di lunga vita. Credito: CSIRO, autore fornito

La metilazione del DNA non cambia la sequenza sottostante di un gene ma controlla se è attiva. Altri ricercatori hanno dimostrato che la metilazione del DNA in geni specifici è associata alla massima durata di vita di alcuni mammiferi come i primati.

Nonostante la metilazione del DNA sia legata all’invecchiamento e alla durata della vita, fino ad ora nessuna ricerca lo ha usato come metodo per stimare la durata della vita degli animali.

Nella nostra ricerca, abbiamo utilizzato 252 genomi (sequenze di DNA complete) di specie di vertebrati che altri ricercatori hanno assemblato e reso disponibili al pubblico in un database online. Abbiamo quindi confrontato questi genomi con un altro database di durata della vita animale nota.

Usando questi dati, abbiamo scoperto che potevamo stimare la durata della vita delle specie di vertebrati osservando dove si verifica la metilazione del DNA in 42 geni particolari. Questo metodo ci consente anche di stimare la durata della vita di specie estinte e di lunga vita.

Specie estinte

Abbiamo scoperto che la durata della vita della balena, ritenuta il mammifero più longevo del mondo, è di 268 anni. Questa stima è di 57 anni superiore a quella dell’individuo più anziano che è stato trovato tra questa specie, quindi potrebbe avere una durata di vita molto più lunga di quanto si pensasse in precedenza.

Abbiamo anche scoperto che il mammut lanoso estinto aveva una durata della vita di 60 anni, simile alla durata di 65 anni dell’elefante africano di oggi.

Secondo le nostre stime, la tartaruga gigante estinta dell’isola di Pinta viveva intorno ai 120 anni. L’ultimo membro di questa specie, Lonesome George, è morto nel 2012 all’età di 112 anni.

È interessante notare che abbiamo scoperto che i Neanderthal ed i Denisovans, che sono specie estinte strettamente legate agli umani moderni, avevano una durata massima della vita di 37,8 anni.

Sulla base del DNA, abbiamo anche stimato una durata della vita “naturale” nell’uomo moderno di 38 anni. Ciò corrisponde ad alcune stime antropologiche per gli esseri umani moderni. Tuttavia, oggi gli esseri umani possono essere un’eccezione a questo studio poiché i progressi nella medicina e nello stile di vita hanno prolungato la durata media della vita.

Fonte: The Conversation

Sembra che il buco nero “impossibile” appena trovato sia stato in realtà un errore

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La scoperta di un enorme buco nero “impossibile” nella Via Lattea, annunciata solo un paio di settimane fa, sembra pronta per essere smentita. Tre studi separati disponibili sul server di prestampa arXiv hanno tutti identificato lo stesso problema.

Il nocciolo della questione sta nel fatto che pare che la luce interpretata come emanata dal disco di accrescimento del buco nero potrebbe avere un’altra fonte. Questo, a sua volta, significa che la misurazione della massa derivata da quella luce è probabilmente errata.

Per ricapitolare, alla fine del mese scorso, un gruppo di astronomi guidati da Jifeng Liu dell’Osservatorio astronomico nazionale cinese ha pubblicato un documento che rivelava la scoperta di LB-1, un buco nero di massa stellare a 15.000 anni luce di distanza.

La cosa sorprendente di LB-1 era la sua massa peculiare: 70 volte la massa del Sole.

Questo tipo di massa è ritenuto impossibile nella Via Lattea, perché si prevede che le stelle pesanti nella gamma di massa che potrebbero produrre un buco nero come questo finiscano la loro vita in quella che viene chiamata una supernova di instabilità di coppia che annulla completamente il nucleo stellare. Nessun nucleo stellare, nessun buco nero.

Liu e il suo team hanno scoperto LB-1 usando la velocità radiale. Da quello che possiamo dire, questo buco nero sarebbe in un sistema binario con una stella, bloccato in orbita attorno a un centro di gravità reciproco.

Poiché il buco nero è molto più massiccio della stella, si muove di meno; ma, in effetti, oscilla un po’ per effetto della gravità della stella che lo accompagna. Il video qui sotto chiarisce questo concetto con un pianeta e una stella.

Se riesci a vedere di quanto si muove ogni oggetto, puoi calcolare le masse degli oggetti. Ma, secondo due astronomi dell’Università della California, Berkeley, la luce traballante interpretata come emanata dal disco di accrescimento del buco nero – la linea di emissione dell’idrogeno-alfa – in realtà non vacilla affatto.

Mostriamo che in realtà non ci sono prove per la variabilità della velocità radiale della linea di emissione idrogeno-alfa e che i suoi spostamenti apparenti invece provengono da cambiamenti nella linea di assorbimento idrogeno-alfa della stella luminosa” , scrivono nel loro articolo , attualmente presentato alle MNRAS Letters. “Se non presi in considerazione, tali spostamenti causeranno sempre lo spostamento di una linea di emissione stazionaria in anti-fase con la stella luminosa

In altre parole, si tratta di un effetto illusorio causato dalla luce mobile della stella binaria. Se vista attraverso uno spettroscopio, la luce delle stelle viene suddivisa in uno spettro, le cui lunghezze d’onda rivelano la composizione chimica della stella, poiché elementi diversi emettono e assorbono lunghezze d’onda diverse.

Una linea di emissione è una caratteristica luminosa dello spettro luminoso, creata da un atomo che passa da uno stato di energia superiore a uno inferiore. Poiché ogni elemento ha uno spettro di emissione unico, la sua linea di emissione può essere usata per identificare l’elemento. Una linea di assorbimento, d’altra parte, è una linea più scura, creata dall’assorbimento della luce da parte del gas. La lunghezza d’onda della linea può essere utilizzata per identificare detto gas.

I ricercatori hanno scoperto che, una volta rimossa dall’analisi la linea di assorbimento della stella compagna, la linea di emissione idrogeno-alfa smette di oscillare. Questo, sostengono i ricercatori, suggerisce che il buco nero è molto, molto più grande di 70 masse solari – altamente improbabile – o molto, molto più piccolo, non più di 20 masse solari.

In maniera indipendente, il giorno prima, un team internazionale di ricercatori guidato dall’astronomo teorico JJ Eldridge, dell’Università di Auckland in Nuova Zelanda, ha pubblicato un documento con una conclusione simileInvece di riesaminare LB-1, tuttavia, questa squadra ha simulato sistemi binari a stella buco nero a 15.000 anni luce di distanza per vedere se potevano ottenere una corrispondenza per LB-1.

Hanno trovato una corrispondenza, ma con buchi neri molto più piccoli, tra 4 e 7 masse solari. Affinché LB-1 sia 70 masse solari, hanno scoperto che dovrebbe essere molto più lontano; ma i dati di Gaia utilizzati dal team di Liu sono risultati corretti.

Concludiamo che è probabile che il sistema LB-1 sia spiegato da un binario naturale contenente un buco nero di massa moderata (≈ 8 masse solari), anziché uno che raggiunge 70 masse solari“, hanno scritto  nel loro documento in prestampa, inviato al MNRAS.

Infine, è stato inserito un terzo studio indipendente sul server di prestampa, guidato dall’astronomo Michael Abdul-Masih di KU Leuven, in Belgio. Anche questo studio si basa sulla linea dell’idrogeno alfa. Piuttosto che basarsi su osservazioni precedenti, questa squadra ha effettuato le proprie, usando lo spettrografo HERMES sul telescopio Mercator nelle Isole Canarie.

Usando questi nuovi dati, i ricercatori hanno isolato il profilo di emissione idrogeno-alfa sottraendo una linea di assorbimento idrogeno-alfa teorica corrispondente all’atmosfera della stella del sistema binario. E il loro risultato è stato lo stesso dei ricercatori UC Berkeley.

Di conseguenza, non ci sono prove per un grande rapporto di massa e quindi una grande massa assoluta del buco nero“,  hanno scritto  nella loro prestampa.

Nessuno dei tre articoli è stato ancora sottoposto a revisione tra pari, ma il fatto che siano tutti arrivati ​​alle stesse conclusioni utilizzando metodi diversi è piuttosto convincente.

Potrebbe benissimo esserci ancora un buco nero lì, ma se c’è, questi documenti suggeriscono che è coerente con ciò che ci aspettiamo di trovare nella Via Lattea.

Quindi nessuno dovrà riscrivere l’evoluzione stellare dopo tutto.

I tre articoli sono disponibili su arXiv qui , qui e qui.

Hubble fotografa la cometa 2I / Borisov mentre accelera oltre il nostro sole

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La cometa interstellare 2I / Borisov è diventata una specie di celebrità cosmica negli ultimi mesi e i ricercatori hanno collezionato istantanee con la passione dei paparazzi. Si tratta di fito interessanti che hanno aiutato gli astronomi a decifrare la natura del secondo ospite interstellare mai individuato nel nostro sistema solare.

Negli ultimi giorni la NASA ha sfruttato il telescopio spaziale Hubble per riprendere la cometa mentre approcciava al suo punto di massima vicinanza al Sole, immagini prese da una distanza di poco meno di 300 milioni di chilometri, fornendo agli astronomi dettagli senza precedenti sulla strana piccola cometa.

Bene, 2I / Borisov sembra essere 15 volte più piccola del previsto.

Hubble ci fornisce la migliore misura delle dimensioni del nucleo della cometa Borisov, che è la parte veramente importante della cometa“, afferma l’astronomo David Jewitt dell’Università della California, Los Angeles.

Il raggio è inferiore a mezzo chilometro. Questo è importante perché conoscere le dimensioni ci aiuta a determinare il numero totale e la massa di tali oggetti nel Sistema Solare e nella Via Lattea

Tale elenco è attualmente breve. Solo un altro oggetto – un asteroide con il nome strabiliante di Oumuamua – è stato confermato come viaggiatore interstellare.

Ad agosto, l’astronomo dilettante della Crimea Gennadiy Borisov  osservò una cometa precedentemente non elencata che si stava dirigendo verso di noi, a una distanza di circa il doppio rispetto all’orbita di Marte.

Dopo aver calcolato la sua traiettoria, divenne chiaro che l’oggetto di roccia e ghiaccio non poteva provenire dai margini del nostro Sistema Solare, dove hanno origine le altre comete. Doveva venire da più lontano, dallo spazio interstellare e stava volando verso il Sole a una velocità di circa 175.000 chilometri all’ora.

Trovare due oggetti extrasolari in due anni o è un enorme colpo di fortuna, o un’indicazione che se guardiamo abbastanza bene, quasi sicuramente ne troveremo altri simili. La domanda è: quanti dovremmo aspettarci di trovarne?

Borisov è la prima cometa interstellare conosciuta e vorremmo sapere quante altre ce ne sono in giro per il sistema solare”afferma Jewitt.

Il nucleo della cometa è troppo piccolo per essere risolto da 298 milioni di chilometri di distanza, una distanza relativamente vicina che attualmente colloca l’oggetto extrasolare da qualche parte all’interno della fascia degli asteroidi.

Come si può vedere nella foto qui sotto, è ancora parecchio fotogenica. Queste immagini più recenti sono a dir poco sbalorditive, rivelando una nebbia di gas e polvere mentre il nucleo, a lungo congelato nel deserto tra le stelle, si sbrina lentamente al calore del Sole.

heic1922b(NASA, ESA e D. Jewitt (UCLA))

Ormai 2I / Borisov ha iniziato il suo lungo percorso sulla traiettoria che la porterà fuori del sistema solare e difficilmente riusciremo ad avere ancora foto così belle del suo aspetto.

Ora non ci resta che sperare di non dover aspettare troppo a lungo prima di vederne un nuovo oggetto proveniente dagli spazi siderali. e speriamo che, quando avverrà, saremo pronti a dargli un’occhiata da vicino.

La NASA ha mappato le regioni di Marte con facile accesso al ghiaccio d’acqua

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Quando gli astronauti della NASA visiteranno Marte, probabilmente dovranno raccogliere il ghiaccio d’acqua del pianeta per poter bere e ricavare carburante.

Ha senso, quindi, che l’agenzia spaziale stia cercando di individuare l’area per l’atterraggio in una zona dove il ghiaccio d’acqua sia ghiaccio facilmente accessibile. Ora la NASA ha ricavato una specie di “mappa del tesoro” che specifica dove esiste quel ghiaccio.

“Serve un posto dove non si debba andare in profondità per trovare il ghiaccio”, ha spiegato la ricercatrice della NASA Sylvain Piqueux in un comunicato stampa. “Ora sappiamo dove potrebbe bastare una pala per arrivare al ghiaccio“.

È dal 2008 che siamo certi della presenza di ghiaccio d’acqua vicino alla superficie su Marte e, secondo questa nuova ricerca, pubblicata sulla rivista Geophysical Research Letters, la NASA, utilizzando i vari orbiter presenti nei cieli di Marte, ne scopre continuamente di più.

Più cerchiamo ghiaccio vicino alla superficie, più ne troviamo“, sostiene la ricercatrice della NASA Leslie Tamppari nel comunicato stampa. “L’osservare Marte con diversi veicoli spaziali nel corso degli anni continua a fornirci nuovi modi di scoprire questo ghiaccio“.

Parte del ghiaccio dettagliato nella mappa realizzata dalla NASA si trova a soli 2,5 centimetri sotto la superficie polverosa del Pianeta Rosso, e l’agenzia spaziale americana ha già individuato diverse aree idonee per l’atterraggio ci una missione con esseri umani che, presumibilmente, avverrà nel prossimo ventennio.

Il caso mediatico delle orecchiette fatta a mano di Bari vecchia

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Le famose donne produttrici di pasta di Bari sono preoccupate per la loro attività, visto che per i loro prodotti è impossibile risalire alla provenienza, e quindi avere un etichettatura, come previsto dalla legge.

Angela Lastella posiziona le sue orecchiette fatte in casa fuori dalla sua casa a Bari, in Italia.
Ringraziamo Gianni Cipriano per l’immagine.

Le nonne del posto, aprono presto i negozi per la vendita della pasta fatta in casa, prodotta nelle cucine che affacciano direttamente sulla strada. La pasta prodotta giornalmente, tra cui troviamo le famose orecchiette, viene posizionata su dei vassoi di legno per la vendita.

Nunzia Caputo, una signora di 61 anni insieme alla sua mamma, mentre serve un uomo del posto venuto a comprare un chilo di pasta, dichiara che “Qui puoi trovare il prodotto sempre fresco fatto giornalmente, se nessuno la acquista li mangiamo noi”.

Il centro storico di Bari.
Ringraziamo Gianni Cipriano per l’immagine.

L’immagine delle nonne, della pasta fatta in casa, della tipica vita del sud Italia, rievoca l’immaginazione popolare. Le produttrici di orecchiette di via dell’Arco Basso a Bari, hanno da sempre attratto i turisti provenienti dalle navi da crociera, contribuendo a rendere Bari, una delle 10 migliori destinazioni d’Europa sulla guida Lonely Planet.

La produzione di pasta ha anche ispirato Dolce & Gabbana nel produrre uno spot cosmetico “Pasta, Amore e Emotioneyes“, in cui le figlie di Sylvester Stallone, percorrono la strada con indosso vestaglie nere, ballando con le nonne e setacciando le orecchiette con le dita.

Ma le autorità locali, sospettano che la via della pasta, nella parte storica della città conosciuta come la Bari Vecchia, sia la “scena di un crimine”, che ha provocato il drastico calo della vendita delle orecchiette nel 2019.

Secondo l’ufficio del sindaco, a metà del mese di ottobre, la polizia ha effettuato controlli su un ristorante locale, che serviva orecchiette di provenienza non rintracciabile, violando cosi le normative italiane e europee. La polizia ha multato il ristoratore e lo ha costretto a buttare la pasta di dubbia provenienza.

Nunzia Caputo, a sinistra, e sua madre, Franca Fiore.
Ringraziamo Gianni Cipriano per l’immagine.

La notizia è comparsa sul giornale la Repubblica, l’articolo in questione è “Mano pesante contro le orecchiette fatte a mano a Bari vecchia: sequestrate perché senza etichetta”, ha subito preoccupato le donne di Bari, produttrici di pasta, che sono sì autorizzate a vendere piccoli sacchetti di pasta per uso personale, ma non autorizzate a fare grandi consegne senza etichette ai ristoranti.

Le donne non hanno un gran guadagno dalle loro vendite e temono di dover in futuro indossare retine per i capelli, emettere ricevute e pagare le tasse. Si spera che lo zelo italiano per i regolamenti, non faccia morire questa usanza tipica di Bari, conosciuta dai turisti.

Il sindaco Antonio Decaro, ha promesso di intervenire sulla questione, consigliando alle donne di interrompere momentaneamente la vendita.

La signora Caputo dichiara che “Il nostro primo cittadino, il sindaco Decaro, ci ha detto di non dire nulla sull’argomento, ma questo secondo noi è sbagliato”.

La signora Vittoria, di 82 anni ha dichiarato “Qui tutti hanno paura di un irruzione della finanza”. Il giornalista che stava facendo l’intervista, ha chiesto alle signore se fosse possibile unirsi per vendere legalmente i loro prodotti. La risposta esasperata fu “chi creerà una cooperativa?”

Bari Vecchia, fino a 20 anni fa, era conosciuta come la “Città dei rapaci”, era una zona gestita dai clan criminali. Il furto ha una lunga tradizione a Bari e lo testimonia l’avvenimento storico del 1087, quando i marinai baresi, in cerca di attrazioni per il pellegrinaggio, rubarono dalla Turchia odierna le ossa di San Nicola, santo patrono di Bari. Le reliquie sono ancora conservate nella basilica di San Nicola a Bari.La basilica di San Nicola, a sinistra.

Ringraziamo Gianni Cipriano per l’immagine.

Vito Leccese, capo di Gabinetto del Comune di Bari e braccio destro di Decaro, ha infiltrato dei venditori per effettuare dei controlli alimentari, proibendo cosi ai locali di vendere cozze sciacquate con l’acqua del porto. Prima della pasta le donne anziane della città vendevano sigarette di contrabbando dal Montenegro. Vito Leccese, dichiara che “Stiamo cercando di aiutarli, esaminando la possibilità di rendere l’area una zona di libero scambio”, ammettendo che “non c’è nulla di male nel vendere un paio di chili di orecchiette occasionalmente”.

La legge in molti luoghi della città non veniva rispettata. All’osteria delle Travi, il manager Nicola Fiore, ha dichiarato di prendere le orecchiette fatte a mano non dalle donne di Arco Basso, ma da delle signore dall’altra parte della città.

Inoltre, molti locali hanno sostenuto che i regolamenti rappresentano una vera minaccia.L'Osteria delle Travi serve orecchiette di provenienza locale.

Ringraziamo Gianni Cipriano per l’immagine.

Francesco Amoruso, 76 anni, di cui la madre gestiva una delle antiche pasticcerie della strada, ha dichiarato che “Queste donne lavorano 10, 15 ore al giorno, sette giorni su sette, per riuscire a contribuire alle spese di casa”.

Michele Fanelli, un sostenitore delle tradizioni locali che offre lezioni su come preparare le orecchiette, si è fatto avanti per difendere le donne, sostenendo che sono le ultime vestigia di una Bari scomparsa, dichiarando che “La globalizzazione sta minacciando le tradizioni”.

La signora Caputo, e la madre Franca Fiore, 88 anni, alla domanda sulle ispezioni, mentre erano intente ad impastare, hanno risposto “Hanno ragione, sulle tasse o cose del genere, qui è tutto non dichiarato”.

La signora Fiore, ha raccontato che è stata sua madre ha insegnarle come fare la pasta fin da quando era bambina, per nutrire la sua famiglia composta dal padre e da sette fratelli.

La signora Lastella, pasticciera di strada, racconta sorridendo che, saper fare la pasta, un tempo era un requisito per il matrimonio, ovviamente inteso in maniera positiva.Vittoria, 82 anni, vendendo la sua pasta. È legale vendere piccoli sacchetti per uso personale, ma le spedizioni ai ristoranti richiedono una licenza.

Ringraziamo Gianni Cipriano per l’immagine.

La signora Caputo, spiega che “Dobbiamo trasmettere questi valori alla prossima generazione, oramai tutto è basato sulla tecnologia, ed i bambini la utilizzano. Dovrebbero aiutarci a tramandare questa tradizione, non a farla sparire. Si dovrebbe insegnare a scuola, attraendo cosi i più piccoli alle tradizioni, oltre ad insegnare loro le lingue”.

La signora Caputo al lavoro.
Ringraziamo Gianni Cipriano
Orecchiette, cavatelli e orecchioni realizzati dalla signora Lastella.
Ringraziamo Gianni Cipriano per l’immagine.

Diego De Meo, 44 ​​anni, proprietario del ristorante “Moderat”, situato di fronte al municipio, ha dichiarato di non sapere quale fosse il ristorante sorpreso a vendere le orecchiette senza l’etichettatura, ammettendo anche che le orecchiette fatto a mano racchiudono in esse un po’ di magia. Inoltre, secondo lui, cercare di regolarizzare Bari, sarebbe un po’ come cercare di raddrizzare la Torre Pendente di Pisa, dichiarando che “A volte l’irregolarità è ciò che rende le cose belle”.

De Meo, riconosce, riferendosi alle sanzioni, che “La legge è giusta”. I suoi affari non sono stati influenzati dall’accaduto, ma la sua preoccupazione è rivolta alle donne di Bari che producono pasta.

Destinazione Venere: era un gemello della Terra, dobbiamo tornarci per capire cosa l’ha ridotta com’è ora

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Venere potrebbe essere il campione di controllo della Terra“. Così si è espressa la planotologa Sue Smrekar del Jet Propulsion Laboratory della NASA facendo eco a ricerche recenti che suggeriscono che Venere avrebbe potuto assomigliare alla Terra per tre miliardi di anni, con vasti oceani che avrebbero potuto essere sostenere la vita. “Riteniamo che entrambi i pianeti all’inizio avessero la stessa composizione, la stessa acqua e anidride carbonica. Ma hanno finito per seguire due percorsi completamente diversi. Allora perché? Quali sono le forze chiave responsabili delle differenze?

Smrekar riferisce che il JPL vuole tornare su Venere, dove gli scienziati della NASA pensano che ci siano continenti, come sulla Terra, che potrebbero essersi formati in passato attraverso la subduzione.

Nel suo ufficio al Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena, in California, mostra un’immagine della superficie di Venere ripresa 30 anni fa dalla navicella spaziale Magellano, un promemoria di quanto tempo è passato dall’ultima volta che una missione americana ha orbitato attorno al pianeta. L’immagine rivela un paesaggio infernale: una superficie giovane con più vulcani di qualsiasi altro corpo nel sistema solare, gigantesche fratture, imponenti catene montuose, un’atmosfera che potrebbe schiacciare un sottomarino e temperature abbastanza calde da sciogliere il piombo.

Ora surriscaldato dai gas a effetto serra, il clima di Venere una volta era simile a quello della Terra. Potrebbe anche avere zone di subduzione come la Terra, aree in cui la crosta del pianeta affonda di nuovo nella roccia.

Smrekar lavora con il Venus Exploration Analysis Group (VEXAG), una coalizione di scienziati e ingegneri che studia i modi per rivisitare il pianeta che Magellano ha mappato così tanti decenni fa. Sebbene vi siano approcci diversi, il gruppo concorda sul fatto che Venere potrebbe dirci qualcosa di vitale per il nostro pianeta: cosa è successo che ha surriscaldato il clima del nostro gemello planetario e cosa significa per la vita sulla Terra?

Venere non è il pianeta più vicino al Sole, ma è il più caldo nel nostro sistema solare. Tra il caldo intenso (480 gradi Celsius), le nuvole corrosive sulfuriche e un’atmosfera schiacciante 90 volte più densa di quella terrestre, farci atterrare un veicolo spaziale è incredibilmente impegnativo. Delle nove sonde sovietiche che hanno realizzato l’impresa, nessuna è durata più di 127 minuti.

Dalla relativa sicurezza dello spazio, un orbiter potrebbe usare il radar e la spettroscopia nel vicino infrarosso per scrutare sotto gli strati delle nuvole, misurare i cambiamenti del paesaggio nel tempo e determinare se il terreno si muove o meno. Potrebbe cercare segni della presenza d’acqua nel passato, attività vulcanica e altre forze che potrebbero aver plasmato il pianeta.

Smrekar, che sta lavorando a una proposta di orbita chiamata VERITAS, non pensa che Venere abbia la tettonica a zolle come la Terra. Ma vede possibili accenni di subduzione. Maggiori dati sarebbero d’aiuto.

Le risposte non solo approfondirebbero la nostra comprensione del perché Venere e la Terra siano così diverse; potrebbero restringere le condizioni di cui gli scienziati avrebbero bisogno per trovare altrove un pianeta simile alla Terra.

Gli orbiter non sono l’unico mezzo per studiare Venere dall’alto. Gli ingegneri del JPL Attila Komjathy e Siddharth Krishnamoorthy immaginano un’armata di mongolfiere che cavalcano i burrascosi venti dei livelli superiori dell’atmosfera venusiana, dove le temperature sono vicine a quelle terrestri.

Non esiste ancora una missione destinata a mandare una mongolfiera su Venere, ma i palloni sonda sarebbero un ottimo modo per esplorare Venere perché l’atmosfera è così spessa e la superficie è così dura“, ha detto Krishnamoorthy.

Il team equipaggerebbe i palloni con sismometri abbastanza sensibili da rilevare i terremoti sul pianeta sottostante. Sulla Terra, quando il terreno trema, quel movimento increspa l’atmosfera con onde di infrasuoni (l’opposto dell’ultrasuono).

Per ottenere quei dati sismici, tuttavia, una missione in mongolfiera dovrebbe far fronte ai venti della forza di un uragano che ci sono su Venere. Il pallone ideale, come determinato dal Venus Exploration Analysis Group, dovrebbe poter controllare i suoi movimenti in almeno una direzione.

Lander estremi

Tra le molte sfide che un lander per Venere dovrebbe affrontare ci sono quelle nuvole che bloccano il sole: senza luce solare, l’energia solare sarebbe fortemente limitata. Ma il pianeta è troppo caldo perché altre fonti di energia resistano. “Dal punto di vista della temperatura, è come essere in un forno della impostato sulla modalità autopulente“, ha spiegato l’ingegnere del JPL Jeff Hall, che ha lavorato su prototipi di palloncini e lander per Venere. “Non c’è davvero nessun altro posto come quell’ambiente di superficie nel sistema solare“.

Una missione che atterrasse su Venere si interromperebbe entro poche ore, quando le temperature e le condizioni estreme presenti sulla superficie di Venere cominciano a guastare le apparecchiature elettroniche della sonda. Secondo Hall, la quantità di energia richiesta per far funzionare un sistema di raffreddamento in grado di proteggere un veicolo spaziale richiederebbe più batterie di quelle che un lander potrebbe trasportare.

Non c’è speranza di refrigerare un lander per mantenerlo fresco“, ha aggiunto. “Tutto quello che puoi fare è rallentare la velocità alla quele verrà distrutto“.

La NASA è interessata allo sviluppo di una “tecnologia calda” in grado di sopravvivere giorni o addirittura settimane in ambienti estremi. Sebbene il concetto di lander Venus di Hall non sia arrivato alla fase successiva del processo di approvazione, ha portato al suo attuale lavoro relativo a Venere: un sistema di perforazione e campionamento resistente al calore che potrebbe prelevare campioni di suolo venusiano per l’analisi.

Hall lavora con la Honeybee Robotics per sviluppare i motori elettrici di nuova generazione in grado di alimentare trapani in condizioni estreme, mentre l’ingegnere del JPL Joe Melko progetta il sistema di campionamento pneumatico.

Insieme, lavorano con i prototipi nella camera di prova Large Venus, dotata di pareti in acciaio, del JPL, che imita le condizioni del pianeta fino a creare un’atmosfera anidride carbonica al 100%. Ad ogni test di successo, i team avvicinano l’umanità all’esplorazione di questo pianeta inospitale.

Fonte: JPL

Il primo fumetto della storia, risalente a 40.000 anni fa, racconta una storia di caccia – video

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Un gruppo di archeologi che stanno operando in Indonesia hanno affermato di avere trovato una serie di opere figurative che raccontano una storia. È una storia raccontata con un pigmento rosso su una parete in una caverna. La scena, secondo l’interpretazione degli archeologi, mostra esseri soprannaturali a caccia di animali selvatici.

Gli antichi abitanti dell’isola di Sulawesi hanno disegnato maiali e animali con le corna circa 44.000 anni fa, secondo quanto riportato nello studio pubblicato mercoledì sulla rivista Nature. Intorno agli animali ci sono persone o figure simili all’uomo. Questa opera d’arte preistorica quelle analoghe rinvenute in Europa di migliaia di anni.

Gli antichi Sulawesi, come i pittori delle caverne europee, disegnarono molti animali selvatici. Sulle pareti di calcare, gli animali si profilano più grandi degli altri personaggi, che sono esili figure stilizzate. In una sezione, quelle figure si raggruppano davanti a un bufalo. Sembrano intente a lottare con l’animale. Le linee collegano le loro piccole braccia al petto del bufalo.

È sorprendente. È una scena narrativa, ed è la prima volta che lo vediamo nell’arte rupestre“, ha dichiarato l’autore dello studio Maxime Aubert, archeologo della Griffith University in Australia.

file 20191206 38984 12n37d0La scena nella grotta di Sulawesi in Indonesia. (Adam Brumm / Ratno Sardi / Adhi Agus Oktaviana)

I grandi animali cornuti scarabocchiati sulle pareti sono degli anoa, una specie di bufalo d’acqua che si trova solo su Sulawesi. Gli Anoa hanno le dimensioni di cani di grossa taglia, ma ciò che manca loro di statura lo compensano con l’aggressività.

I personaggi della scena sembrano cacciare o forse litigare con uno dei bufali, ha detto Aubert.

L’autore dello studio Adam Brumm ha visto per la prima volta le immagini come foto sfocate in un’app di messaggistica. “Stavo urlando di eccitazione quando queste immagini sono finite nel mio telefono“, ha detto Brumm, archeologo della Griffith University.

La civiltà moderna circonda questo luogo antico. Si trova a 30 minuti di auto dall’aeroporto della città di Makassar. Il muro dipinto fa parte di una rete di grotte calcaree su un terreno appartenente a una società mineraria.

La polvere proveniente dalla strada sterrata che porta alla fabbrica di cemento dell’azienda, entra spesso nella grotta. Gli scienziati temono che l’inquinamento possa danneggiare l’opera.

I ricercatori hanno studiato le grotte, che contengono quasi 250 zone con disegni, dagli anni ’50 (Questa scena è sfuggita all’attenzione per così tanto tempo, ha detto Aubert, perché si trovava in un’alcova rialzata a circa 60 piedi dal livello del suolo).

Nel 2014, Aubert, Brumm e i loro colleghi annunciarono che le impronte delle mani trovate nelle caverne avevano almeno 40.000 anni e i disegni dei maiali ne avevano almeno 35.000.

Gli artisti paleolitici in Francia e in Spagna, a circa 12.900 chilometri da Sulawesi, disegnavano animali a carboncino. Le pareti della grotta di Chauvet, in Francia, pullulano di cavalli, rinoceronti, renne e bisonti.

La maggior parte degli studi sull’arte rupestre europea utilizzano il carbonio-14 per determinare le date. I disegni di Chauvet sono stati datati a circa 30.000 anni, con studi più recenti che suggeriscono che gli umani abitavano quelle caverne già 36.000 anni fa .

Gli scienziati non sono in grado di utilizzare la stessa tecnica in Sulawesi, perché il pigmento rosso a base di ferro utilizzato per i disegni manca di materia organica. La datazione avviene, quindi, misurando il rivestimento formatosi sull’opera lasciato dall’acqua che colata lungo le pareti della caverna. I depositi di minerali, che si condensano in noduli soprannominati “popcorn da grotta” possono essere datati.

La scena, basata sulla datazione dei popcorn delle caverne trovati sopra alcuni degli animali selvatici, è stata creata tra 35.000 e 43.900 anni fa.

mucca più antica storia della pittura rupestre(Adam Brumm / Ratno Sardi)

I metodi e i risultati sono totalmente credibili“, ha dichiarato Susan O’Connor, esperta di archeologia del sud-est asiatico dell’Australian National University, che non era coinvolta in questo studio. La storia sulle pareti della caverna mostra “come le persone all’epoca concepivano il loro rapporto con gli animali“.

Se le date dell’articolo sono corrette“, ha commentato Nicholas Conard, un archeologo dell’Università di Tubinga in Germania che non era coinvolto nello studio, “le immagini sarebbero alcune delle prime immagini figurative conosciute, e di grande importanza“.

Ciò che sta accadendo esattamente nell’opera d’arte è interpretabile. Le sottili linee rosse, per esempio. “Non possiamo dimostrare se sono lance o corde“, ha detto Aubert.

O le caratteristiche bizzarre delle figure. Ad Aubert sembrano umani con tratti animali. “Gli umani lì, non sono completamente umani: uno ha una coda, quindi altri possono avere una specie di testa di uccello o qualcosa del genere“, ha detto.

Penso che sia probabilmente qualcosa che non esisteva davvero. Forse fa parte di una creatura mitica … Non lo sappiamo. Ma è una delle possibilità“.

Le più antiche figure umanoidi nell’arte europea non sono state trovate sui muri. Un decennio fa, Conard scoprì la “Venere di Hohle Fels“, una figurina umana con esagerata anatomia femminile, nel sud-ovest della Germania.

La donna è stata scolpita su una zanna di mammut di 35.000 anni. Ancora più vecchia, risalente a circa 40.000 anni fa, è la gigantesca figurina “Lion Man in avorio, scoperta dagli archeologi tedeschi nel 1939. L’uomo di 2 piedi e mezzo ha un corpo umano sormontato da una testa di leone delle caverne.

Aubert e Brumm paragonano le figure di Sulawesi all’uomo dalla testa di gatto. Questi pittori, come i primi intagliatori d’avorio in Europa, erano narratori con immaginazione, dicono. La loto storia “non ha posto nella realtà“, ha detto Brumm. O gli umani hanno sviluppato questi elementi di narrazione creativa negli angoli più remoti del pianeta nello stesso periodo, o la narrazione è un tratto sviluppato da antenati umani anche più antichi.

Se si tratta di creature miste uomo-animale, le loro piccole dimensioni sono affascinanti“, ha detto Conard. “Come i loro movimenti, quello sembra essere una specie di volo o di salto piuttosto che i movimenti più tipici di umani o mammiferi terrestri.” Ha confessato di non avere “idea di cosa significhino le linee“.

Ma Paul Pettitt, un archeologo della Durham University nel Regno Unito che non era membro di questo gruppo di ricerca, è scettico sull’interpretazione. “È una scena? Gli” umanoidi “sono raffigurati in orizzontale e su una scala diversa rispetto agli animali che si dice siano a caccia“, ha detto Pettitt.

Per quanto riguarda le lance, basta guardarle. Sono lunghe file che passano vicino ad alcuni umani“, ha detto Pettitt. “Difficile che siano armi tenute in mano“. Ha suggerito che è anche possibile che diversi artisti abbiano aggiunto le figure sul muro in seguito, citando alcune grotte europee che sono state decorate in diverse fasi.

Brumm ha affermato che lo stile e gli agenti atmosferici delle opere d’arte sono coerenti con gli animali e le persone. “Non sappiamo davvero” cosa stessero cercando di dire questi artisti, ha detto l’archeologo. Farlo per certo richiederebbe una “rappresentazione fotorealistica” nell’arte preistorica.

Ora è urgente conservare i disegni nella grotta. Gli autori dello studio temono di avere solo un tempo limitato per osservare i dipinti.

La superficie della grotta è esfoliante come se si stesse staccando. E grossi pezzi, ogni anno, stanno scomparendo e non sappiamo esattamente perché“, ha detto Aubert.

Aubert sta cercando di raccogliere fondi per digitalizzare le pitture rupestri usando scanner laser.

“Potrebbe essere un’amara ironia che abbiamo appena scoperto l’estrema antichità di questa arte rupestre e potremmo perderla nel giro di pochi decenni”.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato da The Washington Post.

Lo studio del cromosoma X nei topi spiega perché le donne sono più soggette a malattie autoimmuni

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Una nuova ricerca sui topi ha trovato una possibile spiegazione del perché le malattie autoimmuni sono più comuni nelle femmine e ha a che fare con il loro cromosoma X extra.

Tra gli animali, le femmine tendono generalmente ad avere un sistema immunitario più forte e più robusto. Mentre questo può aiutarle ad affrontare meglio le infezioni, può anche causare una risposta immunitaria iperattiva.

Ciò significa che le femmine sono molto più vulnerabili alle malattie autoimmuni. In effetti, le donne hanno una probabilità due o tre volte maggiore rispetto ai maschi di sviluppare la sclerosi multipla (SM) e nove volte più probabilità di sviluppare il lupus.

Il motivo per cui esiste questa discrepanza rimane un mistero. Le chiare differenze biologiche tra i sessi di solito si riducono a ormoni, cromosomi o una combinazione di entrambi. Ma mentre il ruolo del testosterone, degli estrogeni e del progesterone nell’autoimmunità è stato ragionevolmente ben studiato, la parte che svolgono i cromosomi X e Y rimane molto più oscura.

Eppure, potrebbe essere proprio questa la svista, considerando che i cromosomi X portano diversi geni immuno-correlati, e le femmine ne hanno due, una della madre e una del padre. In confronto, i maschi hanno solo un cromosoma X, proveniente dalla madre.

Sulla base del loro lavoro su topi, i ricercatori dell’Università della California di Los Angeles (UCLA) ora pensano che il cromosoma X extra ottenuto dal padre apporti un contributo significativo ai problemi autoimmuni delle femmine.

Poiché le femmine hanno due cromosomi X, i double-up devono essere bilanciati attraverso un meccanismo chiamato inattivazione X che utilizza la metilazione del DNA  per bloccare l’espressione di alcuni geni.

Sul cromosoma X inattivo, la stragrande maggioranza dei geni è messa a tacere. Nel cromosoma X dell’uomo, tuttavia, circa il 15 percento dei geni può riuscire ad esprimersi, portando a una maggiore espressione dei geni X nelle femmine (XX) rispetto ai maschi (XY).

C’è anche una buona ragione per pensare che il silenziamento di alcuni geni X potrebbe ridurre l’espressione complessiva di alcuni tratti, compresi quelli che garantiscono il buon funzionamento del sistema immunitario. In questo studio, i ricercatori dell’UCLA hanno scoperto un gruppo di cinque geni correlati al sistema immunitario sul cromosoma X che sono più espressi nei topi maschi.

Analizzando il modo in cui i geni correlati al sistema immunitario sono espressi in maschi e femmine, i ricercatori hanno poi scoperto che il cromosoma X che inattivato nei topi femminili era ereditato dal padre, piuttosto che essere spento casualmente.

A sua volta, ciò suggerisce che i cromosomi X passati da un padre a una figlia hanno livelli più alti di inattivazione X, che, nel caso del sistema immunitario, possono smorzare l’espressione di alcuni geni, promuovendo possibilmente una risposta pro-infiammatoria nelle femmine.

Recenti studi  su topi e umani indicano che i geni X extra possono dare alle femmine un vantaggio immunologico, ma si tratta certamente un’arma a doppio taglio.

La nostra ipotesi generale è che le differenze sessuali nel sistema immunitario siano dovute all’equilibrio tra l’imprinting parentale dei geni X che non sfuggono all’inattivazione X e agli effetti di dosaggio X dei geni X che sfuggono all’inattivazione X“, scrivono gli autori.

In altre parole, la discrepanza nell’inattivazione X tra topi maschi e femmine potrebbe svolgere un ruolo nel far funzionare il loro sistema immunitario in modo diverso.

Sarà, però, difficile dimostrare se questo sia il caso anche nell’uomo, soprattutto dato il numero incredibile di geni immuno-correlati che abbiamo e la loro complessa relazione con i nostri ormoni.

Detto questo, altri studi sui cromosomi umani hanno già prodotto risultati che suggeriscono qualcosa di simile. Nel 2016, i ricercatori hanno scoperto che nelle donne l’inattivazione dell’X è incompleta nelle cellule T del sistema immunitario e nelle cellule B, e questo potrebbe avere un ruolo nelle malattie autoimmuni come il lupus.

Se riuscissimo ad individuare i regolatori della metilazione che causano queste differenze, potremmo essere in grado di ridurre le risposte immunitarie delle femmine nel trattamento delle malattie autoimmuni“, afferma la neurologa Rhonda Voskuhl.

Considerare il sesso come una variabile biologica nelle malattie può portare a nuove strategie di trattamento“.

Saranno necessarie ulteriori ricerche prima che le femmine possano iniziare a incolpare i loro padri per i loro problemi autoimmuni, ma sembra certamente che il cromosoma X paterno abbia più di qualche responsabilità in questo genere di problematiche.

Questo studio è stato pubblicato in PNAS.