venerdì, Maggio 9, 2025
Migliori casinò non AAMS in Italia
Home Blog Pagina 628

La navicella spaziale Orion riprende per la prima volta la Luna – video

0
La navicella spaziale Orion riprende per la prima volta la Luna
La navicella spaziale Orion riprende per la prima volta la Luna
Migliori casinò non AAMS in Italia

La navicella spaziale Orion della NASA ha messo nel mirino la destinazione del suo volo di prova nell’ambito della missione Artemis 1 e ha ripreso un video straordinario per celebrare il momento.

Nel video, pubblicato venerdì (18 novembre), la Luna semiilluminata è visibile in lontananza con la navicella spaziale Orion in primo piano, come si vede da una telecamera sulla punta di una delle quattro ali dei pannelli solari della capsula. Nel momento della ripresa, Orion era circa a metà strada tra la Terra e la Luna, come ha specificato la NASA in una nota rilasciata per l’occasione.

orion cameras3
Il posizionamento delle telecamere sulla capsula Orion. – Credit: NASA

Il terzo giorno della missione Artemis I, Orion ha manovrato i suoi pannelli solari e ha ripreso la Luna con la telecamera montata all’estremità dell’array“, ha scritto la NASA nella descrizione del video.

La capsula Orion è stata portata fuori dall’orbita terrestre dal potente lanciatore SLS nell’ambito della prima missione prevista nel programma Artemis, che ha come obbiettivo di prima istanza il ritorno dell’uomo sulla Luna e l’installazione di una base permanente sul nostro satellite per garantire una presenza sostenibile a lungo termine.

Orion effettuerà un viaggio complessivo di 25 giorni in una crociera shakedown che tornerà sulla Terra l’11 dicembre dopo avere circumnavigato la Luna. La NASA sta usando la missione come volo di test per verificare che il razzo SLS e la capsula Orion siano pronti per ospitare astronauti nei successivi viaggi verso la Luna, con un atterraggio previsto per il 2025.

Il video è l’ultima straordinaria vista rilasciata da Orion. La capsula è dotata di 24 telecamere disposte in vari punti esterni, i pannelli solari e all’interno della zona abitabile che ci racconteranno il suo volo di prova.

All’inizio di sabato (19 novembre), la navicella spaziale Orion si trovava a 348.247 chilometri) dalla Terra, a 49.746 km dalla Luna e viaggiava nello spazio a 1.601 km/h), secondo la NASA. Puoi tracciare Orion attraverso lo spazio durante la sua missione tramite il sito Web Track Artemis della NASA.

Finora, il volo di Orion è andato relativamente liscio, con i responsabili della missione della NASA che hanno affermato di aver superato le loro aspettative, nonostante piccoli intoppi mentre gli ingegneri apprendono come si comporta il veicolo spaziale nello spazio profondo.

Lunedì mattina (21 novembre), Orion passerà nel punto più vicino alla Luna arrivando a 100 km dalla sua suoperficie mentre si accingerà a completare la sua ampia orbita circolare.

La NASA trasmetterà via web il flybyin diretta a partire dalle 12:15 GMT, con l’ora di massimo avvicinamento programmata per poco dopo le 12:57 GMT). Orion entrerà nella sua orbita finale attorno alla Luna il 25 novembre alle 21:52 GMT, con la copertura della NASA che inizierà alle 21:30 GMT.

Discendiamo tutti da Carlo Magno?

0
Discendiamo tutti da Carlo Magno?
Discendiamo tutti da Carlo Magno?
Migliori casinò non AAMS in Italia

I primi anni di vita di Carlo Magno, Re dei Franchi ed Imperatore del Sacro Romano Impero, sono immersi nella nebbia del tempo. Non si sa praticamente niente.

Pare che il futuro imperatore fosse nato nel 742 e.v. probabilmente vicino all’attuale Aquisgrana oppure nei pressi di Liegi in Belgio. Neppure il suo fedele e servile biografo Eginardo nella sua apologetica Vita et gesta Caroli Magni ci fornisce notizie attendibili della giovinezza di questo straordinario sovrano.

Carlo magno era figlio di Pipino il Breve, bellicoso maggiordomo di palazzo e poi re di Francia che, durante il suo regno, ampliò il regno dei franchi, fino alla morte, avvenuta nel 768 sulla via del ritorno da una campagna contro l’ennesima ribellione del regno di Aquitania.

Carlomagno si fece avanti come suo successore, proseguendo con disinvoltura l’opera espansionistica del padre. Si scontrò con i sassoni a nord-est, con i longobardi in Italia e con gli arabi in Spagna.

Come sappiamo dai ricordi scolastici, nell’anno 800 e.v. Papa Leone III incoronò Carlo Magno Imperatore del Sacro Romano Impero ricevendo in dono dal sovrano franco una delle reliquie più ambite del basso medio evo, il Santo Prepuzio di Gesù.

Carlo Magno fu un sovrano prolifico ebbe diciotto figli da diversi mogli e concubine e la sua discendenza, secolo dopo secolo, è giunta fino a noi e, nello specifico, ad una famiglia olandese, i Backer Dircks, il cui albero genealogico che risale fino al re è consultabile pubblicamente sul web.

Ma, se siamo europei da qualche generazione, è statisticamente altissima la possibilità che ognuno di noi discenda da Carlo Magno. vediamo perché:

Ognuno di noi ha due genitori, quattro nonni, otto bisnonni e così via. Per ogni generazione anteriore il numero dei nostri antenati raddoppia. Tuttavia, questa espansione numerica degli avi andando indietro nel tempo non prosegue all’infinito. Se fosse così, al tempo in cui Carlomagno era Imperatore del Sacro Romano Impero il nostro albero genealogico sarebbe composto da 137438953472 individui, più di quanti ne fossero vivi allora, oggi o nell’intera storia dell’umanità.

Ciò vuol dire che, una volta risaliti di qualche generazione, le linee di ascendenza cominciano ad avvilupparsi su loro stesse e ad assomigliare meno a un albero e più a una maglia intrecciata o a una rete. È possibile, anzi è un fatto, che ognuno di noi discenda più volte da uno stesso individuo.

Più si risale nel tempo e più le linee di discendenza si condensano in un numero ridotto di individui. Prima ancora della scoperta del sequenziamento del DNA, un chiarimento su questo aspetto ci è arrivato dalla statistica.

Joseph Chang è uno statistico di Yale che ha voluto studiare le nostre ascendenze non con la genetica o gli alberi genealogici, ma solo per mezzo dei numeri. Chang ha costruito un modello matematico che includeva il numero di antenati che verosimilmente un individuo ha avuto (ognuno con due genitori) e ha dedotto che, partendo dalle dimensioni della popolazione attuale, il punto in cui, risalendo nell’albero genealogico, si intersecherebbero tutte le possibili linee di ascendenza risulta risalire ad appena 800 anni fa.

Più o meno alla fine del XIII secolo visse un uomo o una donna a cui ogni europeo potrebbe far risalire la propria origine, se esistessero documenti a comprovarlo.

Se poi si spinge il modello matematico ancora indietro di qualche secolo scopriamo che circa un quinto delle persone che popolavano l’Europa un millennio fa non ha avuto discendenti nella popolazione attuale. La loro stirpe a un certo punto si estinse, perché loro o qualcuno della loro progenie non ebbe figli.

Il restante 80 per cento, per contro, è composto dai progenitori di tutti gli umani europei attuali.

Se ne deduce, dunque, che se Carlomagno è vissuto nel IX secolo – e noi sappiamo che è così – e se ha avuto discendenti che oggi sono ancora in vita – e anche questo sappiamo che è vero – allora Carlomagno è, direttamente o indirettamente, antenato di tutti gli europei oggi esistenti.

Per evitare che qualcuno di noi si precipiti a reclamare un titolo nobiliare o dinastico, però occorre precisare che un conto è la discendenza ed un’altro i rapporti di parentela. Grazie all’avvento di metodi poco costosi di sequenziamento genetico, la teoria di Chang è stata messa alla prova.

Nel 2013 i due genetisti Peter Ralph e Graham Coop hanno dimostrato che il DNA racconta esattamente ciò che racconta l’analisi statistica di Chang: i nostri alberi genealogici non sono affatto «alberi», ma delle reti ingarbugliate.

Hanno anche corretto un limite del modello matematico di Chang. Lo studioso di statistica di Yale non teneva infatti in considerazione che le persone non si accoppiano a casaccio.
Nella maggior parte dei casi, infatti, ci si sposa con membri dello stesso gruppo socioeconomico, in aree geografiche ristrette, con persone che parlano la nostra stessa lingua.

Correggendo l’algoritmo, Chang ottenne quindi il risultato che il primo antenato comune risale ad appena 3.600 anni fa.

Quindi tutti gli europei, ovviamente non quelli che si sono ibridati recentemente con persone provenienti da altri continenti, sono tutti di stirpe romana, vichinga, gota, unna, etc.

Chiunque abbia vissuto nel X secolo e abbia lasciato una discendenza è un antenato di ciascun europeo di oggi, inclusi Carlomagno e i suoi figli.

Metarhizium: il fungo che rimuove il mercurio

0
Metarhizium: il fungo che rimuove il mercurio
Metarhizium: il fungo che rimuove il mercurio
Migliori casinò non AAMS in Italia

L’inquinamento da mercurio

L’inquinamento da mercurio del suolo e dell’acqua è una minaccia mondiale per la salute pubblica. Questo nuovo lavoro suggerisce che Metarhizium potrebbe fornire un modo economico ed efficiente per proteggere le colture coltivate in aree inquinate e risanare i corsi d’acqua carichi di mercurio.

Lo studio è stato condotto dal professore di entomologia dell’UMD Raymond St. Leger e dai ricercatori del laboratorio del suo ex borsista post-dottorato Weiguo Fang.

“Questo progetto, guidato dal Dr. Fang, ha scoperto che Metarhizium impedisce alle piante di assorbire il mercurio”, ha affermato St. Leger. “Nonostante sia piantata in un terreno inquinato, la pianta cresce normalmente ed è commestibile. Inoltre, il fungo da solo può eliminare rapidamente il mercurio sia dall’acqua dolce che da quella salata”.

Il fungo metarhizium

Il metarhizium è un fungo quasi ubiquitario e un precedente lavoro del laboratorio St. Leger aveva dimostrato che colonizzava le radici delle piante e le proteggeva dagli insetti erbivori. Gli scienziati hanno scoperto anche che il Metarhizium proviene da suoli che si trovano in siti tossici come le miniere di mercurio. Ma nessuno aveva precedentemente determinato come il fungo fosse sopravvissuto in terreni inquinati da mercurio, o se ciò avesse implicazioni per le piante con cui normalmente vive il fungo.

St. Leger e gli altri colleghi avevano precedentemente sequenziato il genoma di Metarhizium, ed è stato notato che il fungo contiene due geni che sono molto simili ai geni presenti in un batterio noto per disintossicare, o biorisanare, il mercurio.

Per il presente studio, i ricercatori hanno condotto una serie di esperimenti di laboratorio e hanno scoperto che il mais vicino a Metarhizium cresceva altrettanto bene sia che fosse piantato in un terreno pulito che in un terreno carico di mercurio. Inoltre, non è stato trovato mercurio nei tessuti vegetali del mais coltivato in terreni inquinati.

I ricercatori hanno quindi modificato geneticamente il fungo, rimuovendo i due geni che erano simili a quelli dei batteri che “rimuovono” il mercurio. Quando hanno replicato i loro esperimenti, hanno notato che il Metarhizium modificato geneticamente non ha più protetto le piante di mais dal terreno carico di mercurio.

Per verificare che i geni fornissero le qualità disintossicanti, i ricercatori li hanno inseriti in un altro tipo di fungo che normalmente non protegge il mais dal mercurio. Appena modificato, il fungo si è comportato esattamente come il Metarhizium, proteggendo le piante dal terreno carico di mercurio.

Le analisi microbiologiche hanno rivelato anche che i geni in questione esprimono enzimi che scompongono forme organiche altamente tossiche di mercurio in molecole di mercurio inorganiche meno tossiche. Infine, i ricercatori hanno ingegnerizzato geneticamente Metarhizium per esprimere più geni disintossicanti e aumentare la sua produzione di enzimi disintossicanti.

Nel loro esperimento finale, i ricercatori hanno scoperto di poter eliminare il mercurio dall’acqua dolce e salata in 48 ore mescolando Metarhizium.

Il prossimo passo sarà condurre esperimenti sui campi in Cina per vedere se Metarhizium può trasformare ambienti tossici in campi produttivi per la coltivazione di mais e altre colture. Gli attuali metodi di bonifica dei suoli inquinati richiedono che le tossine vengano rimosse o neutralizzate da interi campi prima che qualsiasi cultura possa essere piantata. Ciò richiede elevati costi e tempo. Ma Metarhizium disintossica semplicemente il terreno che circonda immediatamente le radici delle piante e impedisce alle piante di assorbire la tossina.

“Consentire alle piante di crescere in ambienti ricchi di mercurio è uno dei modi in cui questo fungo protegge la sua dimora vegetale”, ha spiegato St. Leger. “È l’unico microbo che conosciamo con il potenziale per essere utilizzato in questo modo, poiché i batteri con le stesse capacità genetiche di disintossicare il mercurio non crescono sulle piante”.

Oltre al suo potenziale come strumento conveniente per bonificare terreni inquinati per l’agricoltura, il metarhizium può aiutare a eliminare il mercurio dalle zone umide e dai corsi d’acqua inquinati, che sono sempre più minacciati dall’inquinamento a causa del cambiamento climatico e dallo scioglimento del permafrost che accelerano il rilascio di metallo tossico nei suoli e oceani.

Fonte: PNAS

Wormhole: esistono realmente?

0
Wormhole: questi conucoli spazio-temporali esistono realmente?
Wormhole: esistono realmente?
Migliori casinò non AAMS in Italia

Al momento non è dato sapere con certezza se i wormhole, questi fantomatici cunicoli spazio-temporali, esistano realmente. In teoria, però, essi possono fornire una visione cruciale del nostro universo.

I wormhole sono stati resi famosi dalla cinematografia e dalla letteratura sci-fi. Non a caso, gli eroi della fantascienza hanno un talento per sfuggire al pericolo in alcuni modi che sfidano la scienza, come saltare i parsec usando un motore a curvatura o teletrasportarsi fuori da una situazione difficile.

Ma un segno distintivo della tradizione fantascientifica, che ha evocato momenti toccanti in film come Interstellar, potrebbe in realtà essere una realtà scientifica.

La ricerca sui wormhole

I wormhole potrebbero esistere. Secondo una nuova ricerca pubblicata la scorsa settimana sulla rivista Physical Review D, gli scienziati affermano che i wormhole potrebbero trovarsi in bella vista dall’altra parte dei buchi neri, come al centro delle nostre galassie, incluso il nostro Sagittarius A*. Utilizzando simulazioni di modelli, il team di ricerca bulgaro ha determinato che gli spettri di luce polarizzata dei wormhole e dei buchi neri (la luce emessa da questi oggetti cosmici) sono quasi indistinguibili l’uno dall’altro.

Ciò significa che un dato buco nero può essere l’apertura di un portale spaziotemporale, almeno in teoria. Il problema è che, anche se i wormhole in teoria potrebbero esistere, non significa che siano come li immaginiamo noi, come ha spiegato Brianna Grado-White, una borsista post-dottorato presso la Brandeis University la cui ricerca include gravità quantistica e wormhole, in una email a Popular Mechanics. Questa cosa, però, non è necessariamente una negativa.

Grado-White: “Abbiamo acquisito conoscenze teoriche e pratiche

Grado-White, che non è stata coinvolta nel nuovo lavoro ha tuttavia, spiegato: “Solo perché non abbiamo utilizzato i wormhole per costruire una macchina del tempo non significa che non abbiamo… acquisito [ndr] conoscenze teoriche e pratiche significative attraverso il loro studio”.

Varietà di cunicoli

Quando gli scienziati parlano di wormhole, in genere discutono di due varietà principali, spiega Grado-White: un wormhole attraversabile (noto anche come ponte di Einstein-Rosen) e uno spaziotempo o replica di wormhole. L’ex wormhole è probabilmente il più popolare.

Albert Einstein e il suo collega Nathan Rosen lo proposero per la prima volta nel 1935 come soluzione alle equazioni al centro della teoria della relatività generale di Einstein. In questa comprensione di un wormhole, un buco nero funziona come l’apertura di un passaggio che si collega a un buco “bianco” inverso in un’altra parte dello spazio come uscita. Similmente a come un buco nero che consuma tutto sul suo cammino, un buco bianco, un costrutto puramente teorico, invece, espellerebbe materia. A collegare questi due punti c’è il ponte Einstein-Rosen.

Solo un prodotto della fantasia?

“Questi sono i tunnel attraverso lo spaziotempo che sono spesso al centro della fantasia degli appassionati di fantascienza”, dice Grado-White. “All’incirca, se attraversabili, questi wormhole permetterebbero a qualcuno di saltarci dentro e arrivare dall’altra parte, in qualche parte diversa dell’universo, potenzialmente illeso”.

Tuttavia, mantenere il tunnel aperto in modo che sia teoricamente possibile attraversarlo è più facile a dirsi che a farsi. Per effetto della gravità, questi ponti tendono naturalmente a crollare su se stessi e distruggerebbero qualsiasi viaggiatore all’interno.

Per molti anni, gli scienziati hanno creduto che l’unico modo per mantenerli aperti fosse usare qualcosa chiamato “materia esotica ” per lavorare contro la forza di gravità.

Un modo possibile per creare questa forza resistente è usare “stringhe cosmiche”, spiega Gerald Cleaver, professore di fisica e capo del gruppo di teoria delle stringhe e cosmologia dell’universo primordiale alla Baylor University, tramite una mail inviata al portale Popular Mechanics.

I wormhole possono esistere nell’universo se stringhe cosmiche di densità o pressione di energia negativa sono state generate nell’universo primordiale vicino al Big Bang “, dice Cleaver, aggiungendo: “Ad esempio, i wormhole attraversabili lorentziani che io e i miei studenti studiamo sono definiti come quelli che teoricamente consentirebbero viaggi rapidi (meno di un anno) in entrambe le direzioni da una parte all’altra dell’universo… da un universo all’altro”.

L’idea dei viaggi nel tempo potrà sopravvivere alla teoria del tutto?

0
L'idea dei viaggi nel tempo potrà sopravvivere alla teoria del tutto?
L'idea dei viaggi nel tempo potrà sopravvivere alla teoria del tutto?
Migliori casinò non AAMS in Italia

All’interno degli universi fantascientifici viaggiare nel tempo non è molto più difficile che guidare in mezzo al traffico caotico di una grande città. I protagonisti possono decidere di muoversi a loro piacimento, in quanto nessuna legge della fisica impedisce loro di raggiungere la destinazione in qualsiasi luogo essa sia.

Nella vita di tutti i giorni, viaggiare nel tempo non è così semplice. In effetti, è probabilmente impossibile realizzare un qualche tipo di dispositivo come in “Ritorno al futuro” che permetta all’inventore di muoversi a suo piacimento lungo linee temporali percorrendole avanti e indietro, saltando da un’epoca all’altra.

Tuttavia, il viaggio nel tempo non è vietato dalle leggi della fisica.

Nella teoria di Albert Einstein, la relatività generale, spazio e tempo si fondono in una nuova entità dinamica chiamata “spaziotempo“, che consente la possibilità di percorsi che potrebbero piegarsi verso il passato e riportarci nel futuro.

Questi percorsi, noti come curve a tempo chiuso, sono un po’ come dei grandi cerchi intorno alla superficie della Terra. Percorrendoli in una direzione e andando dritti, alla fine si ritorna al punto di partenza. In quel caso la curvatura della Terra ci riporta al punto precedente nello spazio; con curve temporali chiuse, la geometria dello spaziotempo ci riporterebbe a un momento precedente alla partenza.

Pur sembrando possibili, i cicli temporali della relatività generale non sarebbero pratici per viaggiare nel tempo. Tuttavia, l’esistenza di questi cicli è legata all’universo stesso che, come ha dimostrato Kurt Godel negli anni ’40 dovrebbe ruotare e non espandersi.
Proprio per questo, però, i viaggi nel tempo sembrano non essere possibili, sembrerebbe infatti che l’universo si stia espandendo ma senza ruotare.

Se questi cicli esistessero servirebbe qualcosa per percorrerli, una macchina capace di spostarsi a velocità prossime a quella della luce. In pratica oggi, non disponendo di un mezzo del genere, non possiamo spostarci nel tempo.

Tuttavia, in linea di principio, la sola possibilità di viaggiare nel tempo, avrebbe importanti implicazioni per la fisica di base dell’universo e potrebbero valere la pena di investigare approfonditamente la questione. I cicli del tempo potrebbero non permetterci di attraversare il cosmo come raccontato nei film e nei libri di fantascienza ma forse potrebbero aiutarci a capire il cosmo ed o suoi tanti misteri ancora insoluti.

Per risolvere i grandi misteri della fisica, della nascita e dell’evoluzione dell’universo, le teorie oggi a disposizione sembrano non essere sufficienti. La relatività generale di Einstein è una teoria che spiega un grande numero di eventi, ma indubbiamente non è in grado di sondare i lidi più estremi della fisica.

La relatività inizia a scricchiolare? Forse. La maggior parte delle previsioni derivate dalla relatività sono state confermate ed è indubbio che che la relatività ci spiega molto bene il funzionamento dell’universo a livello macroscopico, eppure è sempre più evidente che sarà difficilissimo, se non impossibile, renderla davvero compatibile con la meccanica quantistica, che governa il mondo dell’infinitamente piccolo, e visto che l’universo è comunque composto da “cose” infinitamente piccole, in qualche modo lo governa tutto.

La combinazione della relatività con la meccanica quantistica potrebbe consentire i viaggi nel tempo, ma serve qualcosa che le combini in maniera efficace, un qualcosa che non c’è ancora.

Sono state proposte diverse teorie per fondere la relatività generale e la meccanica quantistica in una teoria unificata. Secondo il filosofo Christian Wüthrich dell’Università di Ginevra, il viaggio nel tempo potrebbe essere possibile se una nuova teoria potesse in qualche modo includere l’equivalente dei cicli temporali della relatività generale.

Sebbene la teoria fondamentale rimarrebbe incompatibile con il viaggio nel tempo, tollererebbe la possibilità di viaggiare nel tempo su un’altra scala, meno fondamentale” scrive Wüthrich in un suo articolo pubblicato online a giugno. “A seconda di quale possa essere la relazione tra la teoria fondamentale e lo spaziotempo emergente, potremmo scoprire che la struttura emergente e macroscopica dello spaziotempo consente il viaggio nel tempo“.

Tuttavia, rivedere le principali proposte di teorie della gravità quantistica non fornisce molta speranza. Un approccio, noto come teoria degli insiemi causali, richiede che gli insiemi di eventi siano ordinati in una corretta relazione causa-effetto. Quindi la sua idea centrale sembra escludere curve simili a quelle dei cicli temporali.

Un altro approccio, noto come gravità quantistica ad anello, prevede che lo spazio sia costruito con anelli fondamentali chiamati “atomi di spazio“. Questa visione, però, ha incontrato difficoltà tecniche. “Pertanto, sembriamo di fronte a una struttura temporalmente innocua in cui non è consentito alcun senso significativo del viaggio nel tempo“, scrive Wüthrich.

“È possibile che le reti di questi atomi di spazio possano produrre spaziotempo di alto livello che incorpora curve chiuse simili al tempo ciclico. Ma l’analisi dei dettagli, in questa fase dello sviluppo della gravità quantistica ad anello, non offre molte ragioni di ottimismo”, conclude Wüthrich.

Il futuro del viaggio nel tempo potrebbe apparire un po’ più chiaro se l’approccio corretto alla gravità quantistica risulterà essere la teoria delle stringhe.

Nella teoria delle stringhe, le particelle di base della materia sono piccole cordicelle di energia vibranti chiamati “stringhe” estese in una sola dimensione.

Sono state costruite diverse versioni della teoria delle stringhe, suggerendo che potrebbero esistere manifestazioni diverse di una teoria principale più fondamentale chiamata teoria M.

Poiché la teoria M non esiste ancora, è impossibile determinare il suo verdetto sui viaggi nel tempo“, scrive Wüthrich. Ma le indagini su vari scenari della teoria delle stringhe fanno pensare che la teoria definitiva dovrebbe poter includerebbe curve chiuse simili ai cicli del tempo.

Anche se questi cicli del tempo fossero inclusi nella teoria fondamentale, non è detto che vengano conservati nello spazio-tempo su una scala rilevante nella vita reale. “Del resto“, sottolinea Wüthrich, “prevedere che l’esistenza di circuiti di viaggio nel tempo potrebbe essere presa come prova contro la teoria, considerando la seria probabilità che il viaggio nel tempo non sia affatto possibile“.

Non sappiamo se i cicli temporali della relatività generale si preserveranno in una teoria più profonda e come afferma Wüthrich:”Una teoria più fondamentale potrebbe ammettere strutture pari a curve del tempo chiuse e quindi consentire viaggi nel tempo. Questa, chiaramente, rimane un’opzione nella fase attuale della conoscenza“.

In ogni caso, indagare se le teorie della gravità quantistica conservano la possibilità del viaggio nel tempo della relatività generale può fare luce su molte domande difficili alle quali bisogna rispondere per sviluppare una teoria vincente e capire come si relaziona con la relatività generale.

E dopo la Luna, Marte. Come ci arriveremo?

0
E dopo la Luna, Marte. Come ci arriveremo?
E dopo la Luna, Marte. Come ci arriveremo?
Migliori casinò non AAMS in Italia

Anche nel punto di distanza minima, la Terra e Marte sono separati da oltre 50 milioni di chilometri. La distanza, però, non impedisce a NASA, SpaceX e altre agenzie spaziali di progettare una missione umana che richiederà all’equipaggio di vivere nello spazio non meno di due anni e mezzo.

La NASA lavora per portare gli astronauti su Marte nei primi anni del 2030, afferma Thomas Williams, PhD, psicologo e scienziato capo di fattori umani e prestazioni comportamentali presso il Johnson Space Center della NASA a Houston, in Texas. Il primo passo, però, prevede un ritorno sulla luna, che l’uomo ha visitato per l’ultima volta 48 anni fa con l’ultima missione Apollo, la numero 17.

Per arrivare su Marte non serve solo una tecnologia all’avanguardia, ma anche degli uomini impegnati nell’impresa che sono forse il vero limite della missione. “La NASA non affronta queste sfide alla leggera“, ha detto Williams.

Gli scienziati stanno valutando i fattori fisiologici, psicologici e sociali correlati a un viaggio cosi lungo, con la NASA che conduce ricerche in modo indipendente e in collaborazione con esperti al di fuori dell’agenzia.

Gli effetti della vita nello spazio sono in corso di studio da decenni. Dal 1971 astronauti, cosmonauti e tachionauti hanno trascorso settimane e mesi in stazioni spaziali in orbita attorno alla Terra.

Dal 2000 la ISS (International Space Station) accoglie equipaggi che vi permangono per lunghi periodi di tempo. Gli studi effettuati sulla ISS hanno fornito dati utili sulle risposte fisiologiche e psicologiche degli astronauti alla microgravità, il confinamento e l’isolamento. Tuttavia, come ha chiarito Nick Kanas, MD, professore emerito di psichiatria presso l’Università della California, San Francisco: “Marte è molto lontano e l’estrema distanza ha conseguenze psicologiche“.

Gli astronauti che operano sulla ISS vi permangono per circa sei mesi. Il record di permanenza, però, è di 437 giorni, stabilito dal cosmonauta Valeri Polyakov a bordo della stazione russa Mir.

Un viaggio lungo alcuni anni durante il quale trascorrere il tempo in spazi angusti e con poche persone sarà un’impresa difficile anche perché una missione su Marte richiederà un equipaggio misto e gli astronauti dovranno convivere con le inevitabili differenze culturali.

Inoltre gli astronauti che si recheranno su Marte vivranno un distanziamento sociale unico, saranno totalmente isolati dai propri affetti, non solo nello spazio ma anche nel tempo. Le comunicazioni infatti saranno complicate perché sono necessari circa 40 minuti tra una domanda e la risposta. Questa distanza potrebbe contribuire alla solitudine e a creare problemi alla psiche e si teme che ansia e depressione non mancheranno.

Gli astronauti dovranno essere in grado di operare in autonomia, data la distanza e gestire la routine quotidiana come mai nessuna missione ha fatto fino ad oggi. La preoccupazione per la salute psicologica degli astronauti deriva anche dal fatto che non sappiamo come possano reagire all’assenza della Terra. La lunga permanenza nella ISS è mitigata dalla vicinanza e dalla presenza rassicurante del pianeta azzurro e quel vantaggio svanirà quando gli astronauti si troveranno lontani milioni di chilometri.

Una volta privi della difesa del campo magnetico terrestre, gli astronauti dovranno affrontare delle sfide più intense a livello fisico perché le radiazioni spaziali avranno molti effetti deleteri sui loro tessuti, sul sistema nervoso e sul DNA.

Gli studi effettuati su cavie hanno mostrato cambiamenti strutturali nel cervello dei topi come la ridotta complessità dei dendriti, le estensioni che si ramificano dai neuroni. Inoltre, i topi hanno anche mostrato cambiamenti comportamentali, tra cui deficit di memoria, aumento dell’ansia e deficit nelle funzioni esecutive.

I ricercatori stanno studiando possibili contromisure per mitigare gli effetti dell’esposizione alle radiazioni. Anche l’assenza di gravità può portare a problemi fisici tra cui cinetosi, deperimento muscolare e cambiamenti nella percezione visiva, effetti che si riflettono sul benessere psicologico, come ha osservato Williams.

Se è vero che l’assenza di gravità non è facilmente simulabile sul nostro pianeta, è anche vero che si possono effettuare altri studi, ad esempio sull’isolamento. Il più grande studio è stato il progetto Mars500, condotto dall’Istituto di problemi biomedici dell’Accademia delle scienze russa nel 2010-2011.

Per 520 giorni, sei partecipanti maschi sani di diversi paesi hanno vissuto all’interno di un modulo chiuso progettato per imitare la sensazione e la funzione di una navetta in viaggio per Marte. Durante la simulazione, i membri dell’equipaggio hanno effettuato la manutenzione ordinaria ed esperimenti scientifici, sono stati isolati dai cicli luce-buio della Terra e hanno subito ritardi nella comunicazione proprio come avrebbero fatto su un volo reale verso Marte.

L’esperimento Mars 500 ha sollevato non poche preoccupazioni, come ha affermato David Dinges, PhD, psicologo dell’Università della Pennsylvania ha studiato gli astronauti sulla ISS e negli ambienti analogici spaziali. Sono infatti stati registrati cambiamenti psicologici e comportamentali tra i partecipanti.

Un membro dell’equipaggio ha manifestato sintomi di depressione da lieve a moderata durante la maggior parte del periodo dell’esperimento (PLOS One , Vol. 9, N. 3, 2014). Altri partecipanti hanno mostrato alti livelli di stress. La conclusione è che le difficoltà di un membro potrebbero causare problemi a tutta la missione.

In un’altro studio, Dinges e il suo team hanno esaminato le abitudini di sonno e attività dell’equipaggio Mars500. Hanno scoperto che con il passare dei mesi l’equipaggio diventava sempre più sedentario durante gli orari di veglia. Trascorrevano più tempo a dormire e riposare (PNAS , Vol. 110, No. 7, 2013).

Alcuni problemi possono essere risolti ottimizzando l’illuminazione imitando il ciclo di 24 ore e lo spettro UV della luce solare sulla Terra, afferma Dinges. “Siamo una specie circadiana e se non si dispone dell’illuminazione adeguata per mantenere quella cronobiologia, si possono creare problemi significativi per i membri dell’equipaggio“.

Dinges lavora per capire e prevenire i problemi psicosociali che potrebbero sorgere nello spazio. In un progetto sostenuto dalla NASA, lui e alcuni colleghi cercano i biomarcatori che diano indizi sulla resilienza emotiva, sociale e cognitiva di una persona.

La NASA utilizza già un processo di selezione di astronauti che potrebbero resistere nelle condizioni stressanti del volo spaziale e i biomarcatori della resilienza potrebbero aggiungere una nuova dimensione alle valutazioni.

Tuttavia, selezionare gli astronauti biologicamente superiori non è necessariamente l’obiettivo, afferma Dinges che prevede che i biomarcatori vengano utilizzati nella ricerca per identificare e testare farmaci o strategie comportamentali che potrebbero aumentare la resilienza.

Raphael Rose, PhD, psicologa presso l’Università della California, a Los Angeles, è tra gli scienziati che contribuiscono a questo sforzo. Ha studiato un programma di gestione dello stress tra i partecipanti al progetto Hawai’i Space Exploration Analog and Simulation (HI-SEAS), uno studio condotto dall’Università delle Hawai’i a Mānoa.

Durante il progetto, i partecipanti hanno utilizzato il programma di Rose, la gestione dello stress e la formazione alla resilienza per prestazioni ottimali (SMART-OP). La NASA sta esaminando i risultati, che non sono ancora stati resi pubblici.

Studi come Mars500 e HI-SEAS sono importanti ma non possono rispondere a tutte le domande che la vita nello spazio pone. I test sono stati fatti su un un numero esiguo di partecipanti e inoltre i dati sono falsati perché i test sono svolti sulla Terra, e non nell’effettivo rigido ambiente spaziale o marziano.

Il viaggio verso Marte potrebbe avere fattori di stress unici, ma anche eccitazione e meraviglia. Per le persone che sognano di esplorare la nuova frontiera i benefici potrebbero superare i rischi.

Staremo a vedere.

Fonte: https://www.apa.org/monitor/2018/06/mission-mars

La Terra ha un meccanismo di feedback stabilizzante

0
La Terra ha un meccanismo di feedback stabilizzante?
La Terra ha un meccanismo di feedback stabilizzante?
Migliori casinò non AAMS in Italia

Un sistema di “feedback stabilizzante” su scale temporali di 100.000 anni tiene sotto controllo le temperature globali.

La Terra può regolare la propria temperatura nel corso dei millenni

Dal vulcanismo globale alle ere glaciali che raffreddano il pianeta e ai drammatici cambiamenti nella radiazione solare, il clima della Terra ha subito alcuni grandi cambiamenti. Eppure negli ultimi 3,7 miliardi di anni la vita ha continuato a battere.

Ora, una nuova ricerca degli scienziati del MIT conferma che il pianeta ospita un meccanismo di “feedback stabilizzante” che agisce per centinaia di migliaia di anni per riportare il clima indietro dall’orlo, mantenendo le temperature globali entro un intervallo stabile e abitabile. 

In che modo la Terra realizza questo? Un meccanismo probabile è “l’erosione dei silicati”, un processo geologico mediante il quale l’erosione lenta e costante delle rocce di silicato comporta reazioni chimiche che alla fine estraggono l’anidride carbonica dall’atmosfera e nei sedimenti oceanici, intrappolando il gas nelle rocce.

È stato a lungo sospettato dai ricercatori che l’erosione dei silicati svolga un ruolo importante nella regolazione del ciclo del carbonio terrestre. Il meccanismo dell’erosione dei silicati potrebbe fornire una forza geologicamente costante nel tenere sotto controllo l’anidride carbonica e le temperature globali. Ma fino ad ora, non c’è mai stata una prova diretta del funzionamento continuo di un tale feedback stabilizzante.

Le nuove scoperte si basano su uno studio dei dati paleoclimatici che registrano i cambiamenti delle temperature globali medie negli ultimi 66 milioni di anni. Il team del MIT ha applicato un’analisi matematica per vedere se i dati hanno rivelato eventuali modelli caratteristici di fenomeni di stabilizzazione che hanno frenato le temperature globali su una scala temporale geologica.

Hanno scoperto che in effetti sembra esserci un modello coerente in cui le oscillazioni di temperatura della Terra vengono smorzate su scale temporali di centinaia di migliaia di anni. La durata di questo effetto è simile ai tempi su cui si prevede che agisca l’erosione dei silicati.

I risultati sono i primi a utilizzare dati reali per confermare l’esistenza di un feedback stabilizzante, il cui meccanismo è probabilmente l’erosione dei silicati. Il modo in cui la Terra è rimasta abitabile attraverso eventi climatici drammatici nel passato geologico può essere spiegato da questo feedback stabilizzante.

“Da un lato è positivo perché sappiamo che il riscaldamento globale di oggi alla fine verrà annullato attraverso questo feedback stabilizzante”, ha affermato Constantin Arnscheidt, uno studente laureato presso il Dipartimento di Scienze della Terra, Atmosferiche e Planetarie (EAPS) del MIT. “Ma d’altra parte, ci vorranno centinaia di migliaia di anni perché possa accadere, quindi non abbastanza velocemente per risolvere i nostri problemi attuali.”

Stabilità nei dati

Gli scienziati hanno già visto indizi di un effetto di stabilizzazione del clima nel ciclo del carbonio terrestre: analisi chimiche di rocce antiche hanno dimostrato che il flusso di carbonio dentro e fuori dall’ambiente della superficie terrestre è rimasto relativamente equilibrato, anche attraverso drammatiche oscillazioni della temperatura globale. Inoltre, i modelli di alterazione dei silicati prevedono che il processo dovrebbe avere un effetto stabilizzante sul clima globale. E infine, il fatto dell’abitabilità duratura della Terra indica un controllo geologico intrinseco sugli sbalzi di temperatura estremi.

“Il pianeta ha un clima che è stato soggetto a così tanti drammatici cambiamenti esterni. Perché la vita è sopravvissuta per tutto questo tempo? Un argomento è che abbiamo bisogno di una sorta di meccanismo di stabilizzazione per mantenere le temperature adatte alla vita”, ha affermato Arnscheidt. “Ma non è mai stato dimostrato dai dati che un tale meccanismo abbia costantemente controllato il clima della Terra”.

Arnscheidt e Rothman hanno cercato di confermare se un feedback stabilizzante fosse effettivamente all’opera, esaminando i dati delle fluttuazioni della temperatura globale attraverso la storia geologica. Hanno lavorato con una serie di registrazioni della temperatura globale compilate da altri scienziati, dalla composizione chimica di antichi fossili e conchiglie marine, nonché carote di ghiaccio antartiche conservate.

“L’intero studio è possibile solo perché ci sono stati grandi progressi nel migliorare la risoluzione di questi record di temperatura di acque profonde”, ha osservato Arnscheidt. “Ora abbiamo dati che risalgono a 66 milioni di anni fa, con punti dati distanti al massimo migliaia di anni”.

Accelerare fino a fermarsi

Ai dati, il team ha applicato la teoria matematica delle equazioni differenziali stocastiche, che è comunemente usata per rivelare modelli in set di dati ampiamente fluttuanti.

“Ci siamo resi conto che questa teoria fa previsioni su come ci si aspetterebbe che fosse la storia della temperatura della Terra se ci fossero stati feedback che agiscono su determinate scale temporali”, ha spiegato Arnscheidt.

Utilizzando questo approccio, il team ha analizzato la storia delle temperature globali medie negli ultimi 66 milioni di anni, considerando l’intero periodo su diverse scale temporali, come decine di migliaia di anni contro centinaia di migliaia, per vedere se all’interno sono emersi modelli di feedback stabilizzanti

“In un certo senso, è come se la tua macchina stesse accelerando lungo la strada e quando premi i freni, scivoli a lungo prima di fermarti”, ha detto Rothman. “C’è un lasso di tempo in cui la resistenza all’attrito, o un feedback stabilizzante, entra in gioco, quando il sistema ritorna a uno stato stazionario.”

Senza un feedback stabilizzante, le fluttuazioni della temperatura globale dovrebbero crescere nel tempo. Ma l’analisi del team ha rivelato un regime in cui le fluttuazioni non crescevano, il che implica che un meccanismo di stabilizzazione regnava nel clima prima che le fluttuazioni diventassero troppo estreme. La scala temporale per questo effetto stabilizzante – centinaia di migliaia di anni – coincide con ciò che gli scienziati prevedono per l’erosione dei silicati.

È interessante notare che Arnscheidt e Rothman hanno scoperto che su scale temporali più lunghe i dati non hanno rivelato alcun feedback stabilizzante. Cioè, non sembra esserci alcun abbassamento ricorrente delle temperature globali su scale temporali più lunghe di un milione di anni. In questi tempi più lunghi, quindi, cosa ha tenuto sotto controllo le temperature globali?

“C’è l’idea che il caso possa aver giocato un ruolo importante nel determinare perché, dopo più di 3 miliardi di anni, la vita esista ancora”, ha affermato Rothman.

In altre parole, poiché le temperature della Terra fluttuano su lunghi periodi, queste fluttuazioni possono essere abbastanza piccole in senso geologico, da rientrare in un intervallo in cui un feedback stabilizzante, come l’erosione dei silicati, potrebbe periodicamente tenere sotto controllo il clima, e più precisamente, all’interno di una zona abitabile.

“Ci sono due teorie: alcuni affermano che il caso casuale è una spiegazione abbastanza buona, e altri dicono che deve esserci un feedback stabilizzante”, ha detto Arnscheidt. “Siamo in grado di dimostrare, direttamente dai dati, che la risposta è probabilmente una via di mezzo. In altre parole, c’è stata una certa stabilizzazione, ma probabilmente anche la pura fortuna ha avuto un ruolo nel mantenere la Terra continuamente abitabile”.

Fonte: Science Advances

La nuova mappa interattiva dell’universo

0
La nuova mappa interattiva dell'universo
La nuova mappa interattiva dell'universo
Migliori casinò non AAMS in Italia

Una nuova mappa interattiva mostra l’universo con ben 200.000 galassie. La simulazione rende disponibile l’estensione dell’intero cosmo conosciuto con precisione millimetrica e bellezza travolgente.

Creata dagli astronomi della Johns Hopkins University con dati estratti nel corso di due decenni dallo Sloan Digital Sky Survey, la mappa consente al pubblico di sperimentare dati precedentemente accessibili solo agli scienziati.

Il professor Brice Menard della John Hopkins ha affermato tramite alcune dichiarazioni rilasciate da Phys.org: “Crescendo sono stato molto ispirato da immagini astronomiche, stelle, nebulose e galassie, e ora è il nostro momento di creare un nuovo tipo di immagine per ispirare le persone“.

Ricreare l’universo in tutta la sua realtà

Ménard ha aggiunto: “Gli astrofisici di tutto il mondo hanno analizzato questi dati per anni, portando a migliaia di articoli scientifici e scoperte. Ma nessuno si è preso il tempo per creare una mappa che sia bella, scientificamente accurata e accessibile a persone che non sono scienziati. Il nostro obiettivo qui è mostrare a tutti com’è realmente l’universo”.

Lo Sloan Digital Sky Survey è uno sforzo pionieristico per catturare il cielo notturno attraverso un telescopio con sede nel New Mexico. Notte dopo notte, per anni, il telescopio ha puntato su posizioni leggermente diverse per catturare questa prospettiva insolitamente ampia.

Il lavoro svolto dai ricercatori

La mappa, che Ménard ha assemblato con l’aiuto dell’ex studente di informatica della Johns Hopkins Nikita Shtarkman, visualizza una fetta dell’universo, o circa 200.000 galassie: ogni punto sulla mappa è una galassia e ogni galassia contiene miliardi di stelle e pianeti. La Via Lattea è semplicemente uno di questi punti, quello in fondo alla mappa.

L’espansione dell’universo contribuisce a rendere questa mappa ancora più colorata. Più un oggetto è lontano, più appare rosso. La parte superiore della mappa rivela il primo lampo di radiazioni emesse subito dopo il Big Bang, 13,7 miliardi di anni fa.

Ménard: “In questa mappa siamo solo un pixel”

“In questa mappa, siamo solo un puntino in fondo, solo un pixel. E quando dico noi, intendo la nostra galassia, la Via Lattea che ha miliardi di stelle e pianeti”, dice Ménard. “Siamo abituati a vedere immagini astronomiche che mostrano una galassia qui, una galassia là o forse un gruppo di galassie. Ma ciò che mostra questa mappa è una scala molto, molto diversa”.

Ménard spera che le persone sperimenteranno sia l’innegabile bellezza della mappa sia la sua maestosa portata di scala. “Da questo granello in fondo”, dice, “siamo in grado di mappare le galassie in tutto l’universo, e questo dice qualcosa sul potere della scienza”.

Chi è Brice Menard

Come si legge dal sito della Johns Hopkins University Brice Ménard è entrato a far parte della facoltà della Johns Hopkins nel 2010. Ha conseguito il dottorato di ricerca sia presso l’Institut d’Astrophysique de Paris che presso il Max Planck Institute for Astrophysics in Germania. È stato membro post-dottorato dell’Institute for Advanced Study di Princeton e senior research associate presso il Canadian Institute for Theoretical Astrophysics di Toronto. La sua ricerca combina astrofisica e statistica.

Il suo lavoro ha portato alla rilevazione dell’ingrandimento gravitazionale da parte della materia oscura attorno alle galassie, alla scoperta di minuscoli granelli di polvere nello spazio intergalattico, una nuova tecnica per stimare il redshift (o distanza) di oggetti extragalattici e un nuovo modo per trovare automaticamente le tendenze in set di dati complessi.

Ménard è membro congiunto del Kavli Institute for Physics and Mathematics dell’Università di Tokyo. Ha ricevuto il Johns Hopkins President Frontier Award (2019), la Packard Fellowship for Science and Engineering ( 2014 ), la Sloan Research Fellowship ( 2012 ), è stato nominato Outstanding Young Scientist of Maryland nel 2012 e ha ricevuto il premio Henri Chrétien nel 2011 dall’American Astronomical Society.

Villa dei Misteri: l’edificio più famoso di Pompei – video

0
Villa dei Misteri: l'edificio più famoso di Pompei - video
Villa dei Misteri: l'edificio più famoso di Pompei - video
Migliori casinò non AAMS in Italia

La Villa dei Misteri, uno degli edifici più celebri e rinomati di Pompei, prende il suo nome dalla sala dei misteri sita nella zona residenziale della struttura, volta verso il mare.

La rustica villa è rinomata per un affresco sublime lungo 17 metri e alto tre, che si trova nella sala da pranzo della residenza (detta triclinio). L’area in cui soggiornavano i ricchi proprietari della villa colpisce per il lusso e la raffinatezza che si possono ancora notare e respirare a circa 2000 anni di distanza.

Abbiamo parlato di villa rustica, questo perché la Villa dei Misteri è sita fuori dalle mura attornianti la città vera e propria. Nella parte rustica della casa sono stati rinvenuti diversi attrezzi usati comunemente nella vita dei campi, tra cui un torchio atto alla spremitura dell’uva e due forni. Da menzionare anche la presenza di alcune cucine molto spaziose. 

Villa dei Misteri: informazioni sull’affresco

Non è dato sapere chi fu il realizzatore del maestoso affresco della Villa dei Misteri. La pittura raffigura la scena di un rituale misterico. Il rito misterico (o più semplicemente mistero) è una forma di rito religioso, tramite cui un individuo effettua un passaggio da uno stato ad un altro.

Cristoforo Gorno, nel corso di una puntata di Atlantide andata in onda su La7, afferma riguardo l’affresco: “La protagonista è una ragazza, non sappiamo se il rito le serve come preparazione al matrimonio o se invece segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, probabilmente tutte e due le cose insieme”.

Come fa notare un articolo pubblicato su dailybest.it, l’anonimo artista ha raffigurato i vari personaggi umani secondo il genere pittorico della “megalografia”, ovvero, figure ritagliate e prive della loro ombra (come se fossero state incollate) ponendole a gruppi su un podio decorato a finto marmo. Nel rito misterico dell’affresco è più di uno il rimando al dio Bacco (Dioniso per i greci).

Del resto non dobbiamo stupirci, in quanto i proprietari della villa erano probabilmente degli imprenditori agricoli e Bacco era il signore del vino, dell’ebbrezza e dell’estasi mistica. 

La scoperta

La Villa dei Misteri venne scoperta da un certo Aurelio Item (all’epoca padrone del terreno) nel 1909. Come precisa ecampania.it, il signor Item era in possesso di una licenza di scavo temporanea proprio come gli altri possidenti del territorio extraurbano della città di Pompei. Proprio dalla scoperta dello stupendo affresco nella villa ne conseguì l’esproprio della zona e lo stop ai lavori.

L’edificio fu completamente riportato alla luce grazie all’operato dell’archeologo Amedeo Maiuri ed al prezioso contributo del Banco di Napoli che effettuò una donazione di 50.000 lire. 

Inquinamento da plastica si può, una speranza per l’ambiente

0
Inquinamento da plastica si può, una speranza per l'ambiente
Inquinamento da plastica si può, una speranza per l'ambiente
Migliori casinò non AAMS in Italia

Inquinamento da plastica. Una parola che a sentirla riecheggia tristemente come un’eco, tant’è copiosa e continua la sua riproduzione. Purtroppo, il più grande imputato di questo grande sterminio, perché è proprio di questo che si parlerà nell’imminente futuro, è l’uomo, senza distinzione alcuna.

Ogni azione che compiamo quotidianamente – e che sembra non avere pertinenza con l’argomento – come mangiare, lavarsi, bere, produce un rifiuto. Eppure, nel contesto generale, l’uomo si comporta come se la cosa non avesse nulla a che fare con lui.

Sfortunatamente, quest’atteggiamento controproducente per gli altri e per se stessi, ha prodotto dagli anni sessanta ad oggi un incremento di circa 8,3 miliardi di tonnellate di rifiuti solidi. E non è tutto.

Nonostante il grido delle associazioni sull’emergenza plastica, si stima che, agli albori del 2050, ci troveremo ad osservare tristemente un mare, con più plastica che creature marine. Habitat distrutti, decine di animali che muoiono per intossicazione o per danni di varia natura provocati dalle scorie. Ed ancora, la scoraggiante stima che in tutto il pianeta, solo in mare, si stanno riversando 10 Mila tonnellate di plastica ogni anno. Almeno stando ad una recente statistica.

Questa crescita esponenziale, mette i brividi; maggiormente se consideriamo come, tra le produzioni più distruttive per l’ambiente, ci sono i prodotti monouso e gli imballaggi.

Peggio, c’è la considerazione che questo materiale, sia per convenzione al 3° posto tra le maggiori produzioni. Eppure, una nuova speranza arriva da un team di ricercatori, che è riuscito ad ideare un nuovo sistema che potrebbe, nel tempo, risolvere il danno da plastica (forse) alla radice.

Distruggere la plastica si può accelerando il processo di decomposizione

Andiamo per gradi. L’industria petrolchimica produce più di 88 milioni di tonnellate di polietilene, cioè il più semplice dei polimeri sintetici, ed è anche la più comune fra le materie plastiche. Gli scienziati secondo uno studio pubblicato di recente su Science hanno trovato un nuovo metodo valido per riciclarlo. Tutto questo, potrebbe aiutare ad affrontare la crescente crisi d’inquinamento da plastica.

Il polietilene si presenta in diverse forme ed è utilizzato a più livelli e per le più diversificate produzioni; dai sacchetti di plastica agli imballaggi alimentari, dall’isolamento elettrico alle tubazioni industriali.

Tutto questo ci porta, sia ad una sorta di “benessere” globale, sia purtroppo ad una crescita sempre maggiore che indissolubilmente si lega all’inquinamento. Infatti, essendo così comune, si espande sempre di più nella produzione, ma soprattutto nell’ambiente scontrandosi con la triste realtà di un sistema di riciclaggio inefficiente e, oserei dire, quasi fatiscente.

Uno dei principali motivi, è che finiamo per buttare via moltissima plastica. Ovviamente, la massiccia produzione e il conseguente e selvaggio consumo, staccano di netto sullo smaltimento. Quindi, tristemente, finisce nelle discariche o nell’oceano, dove si rompe lentamente, o viene bruciato negli inceneritori di rifiuti che emettono sostanze chimiche tossiche.

Ma nel nuovo studio i ricercatori, hanno trovato un modo per accelerare il processo di decomposizione del polietilene e trasformarlo in molecole alchil aromatiche, che vengono utilizzate come tensioattivi nei cosmetici e nei detersivi per il bucato, nei lubrificanti per macchinari e nei fluidi refrigeranti.

A livello globale, oggi è un mercato da 9 miliardi di dollari“, ha detto in un’e-mail Susannah Scott, un ingegnere chimico dell’Università della California, Santa Barbara, co-autore dello studio, in riferimento alle molecole alchil aromatiche. “Qui c’è valore economico e scala“.

Smaltimento a 570°F senza solventi

Non è la prima volta che gli scienziati hanno capito come scomporre il polietilene: ci sono altri metodi per riciclare chimicamente il materiale. Ma i metodi convenzionali per decomporre la plastica richiedono di riscaldarla a temperature comprese tra i 983 e i 1832 gradi Fahrenheit (500 e 1000 gradi Celsius) e di utilizzare solventi o idrogeno aggiunto per accelerare il processo.

Al contrario, il nuovo metodo degli sviluppatori richiede solo il riscaldamento fino a circa 570 gradi Fahrenheit (300 gradi Celsius) e non utilizza solventi o idrogeno aggiunto, ma si basa solo su un catalizzatore relativamente delicato di platino con ossido di alluminio.

Il loro processo ha aiutato a disassemblare i polimeri della plastica in modo meno grossolano, permettendo loro di estrarre le preziose molecole alchil aromatiche intatte.
La studiosa Scott, ha detto che il catalizzatore funziona per “tagliare i legami che tengono la catena del polimero in pezzi più piccoli“; trasformando infine la plastica solida in un liquido dal quale possono estrarre le preziose sostanze chimiche.

Il nuovo processo degli autori è molto meno dispendioso in termini di energia rispetto ad altri mezzi per decomporre il polietilene. Questa è una buona notizia per l’ambiente. E’ anche più economico, il che è una buona notizia per le aziende che potrebbero voler aumentare la scala. La tecnica non è ancora pronta per questa scalata, ma la scoperta potrebbe essere utilizzata per dare alla plastica una nuova vita come materia prima di valore invece che come rifiuto inquinante.

Nota integrativa

La nuova scoperta, specificano gli autori della nuova ricerca, non deve certo essere un deterrente per dare all’industria petrolchimica la licenza per produrre ancora più plastica.
In quanto  la creazione del polietilene, minaccia anche la salute pubblica a causa delle emissioni tossiche e del clima.

“Dobbiamo ancora lavorare per abituare il mondo dalla minor produzione e, al minor consumo di plastica. Ma la nuova tecnologia potrebbe contribuire a ridurre la quantità di rifiuti che vengono prodotti e a ripulire il casino che abbiamo già tra le mani”.

Una cosa però è certa, se esistesse un processo denominato “disastro ambientale” l’uomo sarebbe condannato all’unanimità, in quanto ignorare i fatti non li cambia.