martedì, Ottobre 15, 2024
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Cosa succederebbe se trasformassimo il deserto del Sahara in una gigantesca “fattoria solare”?

Secondo le stime della NASA, ogni metro quadrato di terreno riceve in media tra 2.000 e 3.000 kilowattora di energia solare all'anno. Se il terreno assorbisse ogni goccia di energia solare, significherebbe che l'energia totale disponibile sarebbe superiore a 22 miliardi di gigawattora (GWh) all'anno, visto le dimensioni del Sahara, che sono di circa 9 milioni di km²

Ogni volta che visito il Sahara, sono colpito da quanto è soleggiato, caldo e di quanto può essere chiaro il cielo. A parte qualche oasi , c’è poca vegetazione e la maggior parte del deserto più grande del mondo è coperto da rocce, sabbia e dune .

Il sole sul Sahara è abbastanza potente da fornire alla Terra un’importante quantità di energia solare.

Le statistiche sono sbalorditive. Se il deserto del Sahara fosse un paese, sarebbe il quinto più grande al mondo: è più grande del Brasile e leggermente più piccolo della Cina e degli Stati Uniti .

amount of sun over the earth

La radiazione orizzontale globale è una misura della quantità di energia solare ricevuta ogni anno (Global Solar Atlas / World Bank).

Secondo le stime della NASA, ogni metro quadrato di terreno riceve in media tra 2.000 e 3.000 kilowattora di energia solare all’anno. Se il terreno assorbisse ogni goccia di energia solare, significherebbe che l’energia totale disponibile sarebbe superiore a 22 miliardi di gigawattora (GWh) all’anno, visto le dimensioni del Sahara, che sono di circa 9 milioni di km².

Questo è certamente un numero enorme che va inquadrato nel giusto contesto:

Un’ipotetica “fattoria solare“, che coprisse l’intero deserto produrrebbe 2.000 volte di più dell’energia prodotta  dalle più grandi centrali elettriche del mondo, che generano appena 100.000 GWh all’anno. La sua produzione equivarrebbe a oltre 36 miliardi di barili di petrolio al giorno, ovvero circa cinque barili per ogni essere umano vivo, ogni al giorno. In questo scenario, il Sahara potrebbe potenzialmente produrre più di 7.000 volte il fabbisogno di elettricità dell’Europa, con quasi nessuna emissione di carbonio.

Inoltre, il Sahara ha anche il vantaggio di essere molto vicino all’Europa. La distanza più breve tra il Nord Africa e l’Europa è di soli 15 km nello Stretto di Gibilterra. Ma anche distanze maggiori, attraverso il bacino del Mediterraneo, sarebbero perfettamente pratiche – dopo tutto, il cavo di alimentazione sottomarino più lungo del mondo corre per quasi 600 km tra la Norvegia ed i Paesi Bassi.

Negli ultimi dieci anni, gli scienziati (compresi me e i miei colleghi) hanno analizzato in che modo la luce del deserto potrebbe soddisfare la crescente domanda di energia locale e infine alimentare anche l’Europa – e come ciò potrebbe funzionare nella pratica. E queste intuizioni accademiche sono state tradotte in piani seri. Il tentativo principale è stato “Desertec“, un progetto annunciato nel 2009, che ha rapidamente acquisito molti finanziamenti da varie banche e società energetiche, prima di crollare in gran parte quando la maggior parte degli investitori si è ritirata cinque anni dopo, citando i costi elevati. Questi progetti sono stati frenati da fattori politici, commerciali e sociali, tra cui la mancanza di un rapido sviluppo nella regione.

Tra le proposte più recenti vi sono il progetto “TuNur” in Tunisia, che mira ad alimentare più di 2 milioni di case europee, o il “Noor Complex Solar Power Plant” in Marocco, che, a sua volta, è finalizzato ad esportare energia in Europa.

Le due tecnologie disponibili

Al momento ci sono due tecnologie pratiche per generare elettricità solare in questo contesto: “energia solare concentrata (CSP)” e “pannelli solari fotovoltaici regolari“. Ognuno ha i suoi pro e contro.

L‘energia solare concentrata (CSP), utilizza lenti o specchi per focalizzare l’energia del sole in un punto, che diventa incredibilmente caldo. Questo calore genera quindi elettricità attraverso le tradizionali turbine a vapore. Alcuni sistemi usano sale fuso per immagazzinare energia, permettendo di produrre elettricità anche di notte. Il “CSP” sembra essere più adatto al Sahara, a causa del sole diretto, la mancanza di nuvole e, in più, le alte temperature lo rendono più efficiente. Tuttavia, le lenti e gli specchi potrebbero essere coperti da tempeste di sabbia, mentre i sistemi di riscaldamento a turbina e vapore rimangono tecnologie complesse. Lo svantaggio più importante di questa tecnologia è, però, la scarsa disponibilità di risorse idriche.

I “pannelli solari fotovoltaici” convertono invece l’energia del sole in energia elettrica direttamente utilizzando i semiconduttori. È il tipo più comune di energia solare in quanto può essere collegato alla rete o utilizzato su piccola scala per alimentare singoli edifici. Inoltre, fornisce un risultato ragionevole anche in condizioni di tempo nuvoloso. Hanno però lo svantaggio che quando i pannelli diventano troppo caldi la loro efficienza diminuisce. Ovviamente non è l’ideale in una parte del mondo in cui le temperature estive possono facilmente superare i 45° C all’ombra, visto che la richiesta di energia per l’aria condizionata è maggiore durante le ore più calde della giornata. Un altro problema è che eventuali tempeste di sabbia potrebbero coprire i pannelli, riducendo ulteriormente la loro efficienza.

Entrambe le tecnologie potrebbero richiedere una certa quantità d’acqua per pulire specchi e pannelli a seconda del tempo, il che rende l’acqua un fattore importante da considerare. La maggior parte dei ricercatori suggerisce di integrare le due principali tecnologie per sviluppare un sistema ibrido.

Solo una piccola parte del Sahara potrebbe produrre tanta energia quanto l’intero continente africano già fa in in questo momento. Con il miglioramento della tecnologia solare, le cose diventeranno meno costose e più efficienti. Il Sahara è inospitale per la maggior parte delle piante e degli animali, ma utilizzandolo correttamente potrebbe portare energia sostenibile a tutto il Nord Africa e oltre.

Amin Al-Habaibeh, professore della Intelligent Engineering Systems, Nottingham Trent University.

Questo articolo è ripubblicato da “The Conversation” sotto una licenza Creative Commons. Leggi l’articolo originale.

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