Il gioco del pollo, conosciuto anche come Chicken Road, è un videogioco semplice ma incredibilmente coinvolgente che ha saputo conquistare un ampio pubblico sul web sin dal suo debutto. Lanciato inizialmente come passatempo spensierato, è diventato nel tempo un fenomeno virale, apprezzato per la sua dinamica immediata e la grafica colorata.
Il concetto del gioco è tanto semplice quanto efficace: impersonare un pollo che deve attraversare una strada trafficata, evitando auto, camion e altri ostacoli in movimento, per raggiungere il lato opposto. Il tutto si svolge in un contesto umoristico e con una curva di difficoltà crescente che tiene alta l’attenzione del giocatore.
Origini semplici ma impatto globale
Chicken Road prende chiaramente ispirazione da giochi arcade come Frogger, un classico degli anni ’80 in cui una rana deve attraversare strade e fiumi. Tuttavia, il gioco del pollo è riuscito a reinterpretare quel modello in chiave più moderna e divertente.
La sua diffusione ha avuto un grande impulso grazie ai social media e alle piattaforme di condivisione video, dove utenti di tutte le età pubblicavano le loro performance e sfidavano gli amici a superare i punteggi più alti. Questo elemento di competizione sociale ha trasformato un gioco apparentemente banale in una vera e propria sfida collettiva, contribuendo in modo determinante alla sua popolarità su scala globale.
Giocabilità accessibile per tutte le età
Una delle ragioni principali per cui Chicken Road continua a essere giocato anche a distanza di anni è la sua accessibilità. Non serve essere esperti di videogiochi per comprendere le regole né per divertirsi. Chiunque, dai bambini agli adulti, può iniziare una partita in pochi secondi e provare il brivido di portare il proprio pollo dall’altro lato della strada.
Il sistema di controllo è intuitivo e il ritmo crescente del gioco mantiene sempre viva la tensione. Questo equilibrio tra semplicità e sfida ha reso il titolo perfetto per pause brevi o momenti di svago, anche da dispositivi mobili.
Presenza costante sui social e nelle app
Un altro fattore decisivo del successo duraturo del gioco è la sua capacità di adattarsi ai nuovi strumenti digitali. Chicken Road è stato spesso integrato all’interno di app gratuite, mini-siti di gioco e addirittura versioni alternative su piattaforme come TikTok o Instagram, sotto forma di mini-giochi interattivi.
L’algoritmo dei social ha premiato contenuti brevi, ironici e sorprendenti, proprio come quelli ispirati al gioco del pollo. Inoltre, la sua estetica divertente e cartoonesca lo rende ideale per meme e video virali, che periodicamente riportano l’attenzione degli utenti sul gioco, rinnovando il ciclo della sua popolarità.
Nostalgia digitale e semplicità senza tempo
La longevità di Chicken Road può essere spiegata anche con un fenomeno più ampio: la nostalgia digitale. In un’epoca in cui molti giochi diventano rapidamente complessi e pieni di opzioni, Chicken Road rappresenta un ritorno alla semplicità. Giocare a questo titolo significa immergersi in un’esperienza diretta, priva di complicazioni, che fa leva su riflessi e intuito.
Per molti utenti, riprendere in mano questo gioco equivale a rivivere momenti spensierati, a una forma di evasione che non ha bisogno di aggiornamenti o innovazioni continue. Ecco perché, ancora oggi, il gioco del pollo continua a far sorridere e divertire milioni di persone in tutto il mondo.
Le strane anomalie astrofisiche che non si accordano con le nostre teorie
La scienza è una delle più grandi conquiste dell’umanità, eppure quando le nostre teorie si confrontano con la realtà, spesso si rivelano quantomeno approssimative. In astronomia, in particolare, questo scatena una competizione tra teoria e osservazioni, e spesso scopriamo cose che sembrano sfidare tutto ciò che conosciamo.
Il problema dell’orizzonte
La teoria del Big Bang è una delle teorie più accreditate del XX secolo. È supportata da numerose prove osservative eppure restano alcuni nodi da appianare. Uno di questi è chiamato il “problema dell’orizzonte“, un’incongruenza del modello cosmologico standard del Big Bang identificata negli anni settanta. che ci dice che l’universo è troppo uniforme.
Ad esempio, all’osservazione, ogni regione dell’universo sembra avere la stessa temperatura e altri parametri fisici in comune, cosa che non ci aspettiamo da regioni che non hanno mai avuto contatti tra loro. Questo è in contrasto con la termodinamica che ci dice che se hanno la stessa temperatura, regioni diverse e lontane tra loro ad un certo punto devono essersi incontrate.
Ciò dovrebbe essere impossibile, dato che la velocità della luce è la massima alla quale può avvenire qualunque scambio di informazione, riguardante l’energia, il calore o altri parametri fisici.
Il problema dell’orizzonte può essere risolto tramite la teoria inflazionaria, che nasce principalmente a tale scopo.
La teoria dell’inflazione cosmologica mette a posto diverse osservazioni, rendendole spiegabili ma resta una teoria non confermata e, soprattutto, non sappiamo come e perché si sarebbe scatenata questa inflazione cosmica e non sappiamo perché si sia fermata.
La stella di Tabby
KIC 8462852, o stella di Tabby, è stata descritta come la stella più misteriosa della galassia, e per una buona ragione. Le sue variazioni di luminosità sono assolutamente imprevedibili e non somigliano a nulla che abbiamo mai visto altrove. In oltre 1.600 giorni di osservazioni, la quantità di luce stellare che emette è diminuita fino al 20 percento in diverse occasioni e ad intervalli casuali per poi tornare ai livelli normali.
Questo fenomeno non si può spiegare con un pianeta in orbita standard o sostenendo che si tratta di una stella variabile. Ci sono anche indicazioni che la stella potrebbe sperimentare periodicamente un oscuramento prolungato, il che è, a dir poco, strano.
Le spiegazioni vanno da quelle più prettamente scientifiche, come la presenza nella sua orbita di una enorme nube di polvere o un pianeta dotato di anelli irregolari o quella di uno sciame di comete che ne bloccano la luce, a quelle più fantasiose come la possibile presenza di megastrutture aliene. Al momento, le ipotesi su comete e megastrutture non sono prese seriamente in considerazione dagli scienziati ma non abbiamo ancora scoperto la causa di questo sfarfallio della luce emessa da KIC 8462852.
La stella che è morta due volte
Nel 2014, gli astronomi sono stati testimoni della nascita di una supernova. Questo è già un evento insolito, ma ciò che lo rende veramente speciale è il fatto che la stella in questione era già diventata una supernova nel 1954.
Finora, la migliore spiegazione proposta per questo insolito evento è che si tratti di una supernova instabile a coppia pulsazionale, in cui una stella davvero massiccia in effetti soffia via il suo strato esterno, lasciando intatto il suo interno per avviare il processo.
L’unico problema con questa ipotesi è che, secondo le nostre teorie, le stelle che esplodono in questo modo non dovrebbero più esistere ma, a quanto pare, il cosmo non si cura delle nostre teorie.
La Corona solare
La corona solare, l’aura di plasma che circonda il Sole, è troppo calda. Supera i milioni di gradi e non siamo sicuri di come faccia ad essere così calda. È circa 1.000 volte più calda della superficie del Sole, il che, inutile dirlo, è un po bizzarro. Dopo tutto, nessuno si aspetterebbe che l’aria sopra il fuoco sia più calda del fuoco stesso. Diversamente dal fuoco, la corona solare si estende per migliaia di chilometri e in qualche modo è molto più calda della superficie solare.
I ricercatori non hanno le idee chiare in merito a questo fenomeno. Potrebbe non dipendere nemmeno da un singolo processo. Sono diverse le ipotesi proposte per spiegare il fenomeno, ad esempio i nanoflares, ma restano ancora molte le domande a cui dare una risposta.
La velocità del vento di Venere
Secondo i nostri attuali modelli climatici, i venti su Venere si muovono troppo velocemente.
I venti di Venere si muovono 60 volte più velocemente della rotazione del pianeta sul suo asse e non è facile conciliare ciò con quello che sappiamo. Sulla Terra, i venti vengono creati dalla differenza di pressione tra due aree adiacenti. Queste differenze di pressione sono causate dalle differenze nella temperatura dell’aria di zona in zona. Eppure, a quanto ci risulta, Venere non ha gradienti di temperatura così drammatici da giustificare venti così potenti.
Anche le nuvole su Venere non hanno senso.
C’è un’enorme onda stazionaria nelle nuvole dell’atmosfera superiore e modelli irregolari sul lato notturno del pianeta, oltre a una strana forma a Y visibile sul lato del giorno. Le osservazioni sui fenomeni climatici di Venere sono ancora in corso, quindi forse un giorno scopriremo la causa di tale complessità.
L’esagono di Saturno
Se parliamo di nuvole, dobbiamo menzionare il vortice polare di Saturno – una caratteristica formazione esagonale che cambia colore di cui non conosciamo l’origine. L’esagono fu osservato per la prima volta nel 1981 dalla Voyager, e poi esaminato in dettaglio dalla sonda della NASA Cassini. Sappiamo che l’esagono varia da una tonalità blu a un colore dorato con le stagioni, ma i fisici stanno ancora cercando di capire come si è formato.
Un esopianeta troppo grande per la sua stella
NGTS-1b è un pianeta di dimensioni pari a Giove simile alle molte centinaia che abbiamo scoperto negli ultimi decenni. Ma a differenza di altri, orbita attorno a una nana rossa – una piccola stella che è solo il 12 percento del Sole in volume.
Pianeti così grandi non dovrebbero formarsi attorno a stelle così piccole. Secondo la visione corrente, le stelle nane non possono raccogliere abbastanza materiale per formare grandi pianeti. Eppure, in qualche modo, questa lo ha fatto. I ricercatori stanno ora cercando altri esempi simili nello spazio per capire meglio le ragione di questa apparente anomalia.
Insomma, come dice Marcello ad Orazio che “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”. Shakespeare aveva ragione.
Kosmos 482: un frammento di storia spaziale pronto all'impatto
Le profondità dello Spazio restituiscono un frammento di storia tecnologica sovietica. Nuove immagini catturate da osservatori terrestri rivelano un inatteso dettaglio riguardante il lander della sonda Kosmos 482, un veicolo spaziale lanciato nel lontano 1972 con l’ambizioso obiettivo di esplorare Venere.
A distanza di cinquantatre anni dal suo lancio fallito, questo relitto orbitale, ora inesorabilmente attratto dalla gravità terrestre, si appresta a compiere il suo rientro atmosferico, previsto intorno al 10 maggio 2025.
Kosmos 482: un frammento di storia spaziale pronto all’impatto
Kosmos 482: il mistero del lander sovietico perduto
L’attenzione degli esperti di tracciamento satellitare si è concentrata sulle recenti fotografie del lander, le quali svelano la presenza di un oggetto non identificato che segue da vicino il corpo principale del veicolo. Questa inaspettata appendice ha immediatamente suscitato interrogativi sulla sua natura e origine. Ralf Vandebergh, un astronomo e astrofotografo olandese, ha condiviso le sue osservazioni sulla piattaforma X, evidenziando la presenza di “una struttura collegata alla capsula“. Pur mantenendo un approccio cauto, Vandebergh ha ipotizzato che tale struttura potrebbe trattarsi del paracadute originariamente destinato ad ammorbidire l’atterraggio del lander sulla superficie venusiana.
La storia di Kosmos 482 è intrinsecamente legata al programma Venera dell’Unione Sovietica, una serie di missioni pionieristiche volte all’esplorazione del pianeta Venere. Il lancio del 1972, tuttavia, fu segnato da un guasto al razzo vettore, un evento che compromise irrimediabilmente la missione. La sonda si frammentò, con il corpo principale che precipitò sulla Terra nel 1981. La sezione del lander, invece, intraprese un inatteso viaggio orbitale, intrappolata nell’abbraccio gravitazionale del nostro pianeta per oltre mezzo secolo. La sua imminente caduta rappresenta la conclusione di un lungo e silenzioso peregrinare nello Spazio.
La potenziale presenza di un paracadute ancora collegato al lander solleva interrogativi affascinanti sulle dinamiche del suo rientro atmosferico. Sebbene l’ipotesi di Vandebergh rimanga una speculazione, la sua conferma potrebbe fornire preziose informazioni sulla resistenza e la degradazione dei materiali spaziali nel corso di decenni di esposizione all’ambiente ostile dell’orbita terrestre. Gli esperti continueranno ad analizzare le immagini e a monitorare la traiettoria del lander nelle prossime ore, nella speranza di svelare definitivamente la natura di questo misterioso “compagno di viaggio” e di comprendere appieno le modalità del suo epilogo sulla Terra.
Un ritorno inatteso
La storia di Kosmos 482 si intreccia indissolubilmente con quella di Venera 8, una missione spaziale sovietica che nel luglio del 1972 segnò un importante traguardo nell’esplorazione di Venere. Lanciata nello stesso periodo, Venera 8 divenne la seconda sonda nella storia a posarsi con successo sulla superficie del pianeta più caldo del nostro sistema solare, preceduta solo dalla sua predecessora, Venera 7. Una volta atterrata, Venera 8 riuscì a trasmettere preziosi dati scientifici dall’ambiente venusiano per un breve ma significativo periodo di poco più di cinquanta minuti, prima di soccombere alle estreme condizioni atmosferiche del pianeta.
Come la sua gemella di successo, Kosmos 482 fu meticolosamente progettata per resistere al difficile attraversamento dell’atmosfera densa e rovente di Venere. Questa robustezza costruttiva suggerisce che il lander, con una massa di 495 chilogrammi e una lunghezza di un metro, potrebbe sorprendentemente fare ritorno sulla Terra in condizioni relativamente integre, nonostante il suo lungo soggiorno nello Spazio e l’imminente rientro atmosferico.
L’astronomo e astrofotografo Ralf Vandebergh ha giocato un ruolo cruciale nel riportare Kosmos 482 sotto i riflettori. La sua dedizione e la sua abilità nell’acquisizione di immagini ad alta risoluzione hanno permesso di ottenere nuove prospettive su questo relitto spaziale. La prima serie di queste dettagliate fotografie fu catturata nel luglio del 2024, ma Vandebergh ha scelto di condividerle pubblicamente solo il 29 aprile del 2025 attraverso la piattaforma X.
Un’analisi comparativa tra queste nuove immagini e quelle precedentemente acquisite nel giugno del 2014 ha rivelato una costante anomalia. In entrambe le serie di fotografie, sembra distinguersi “una sfera compatta” accompagnata da “una debole struttura allungata su un lato particolare della sfera“, un dettaglio persistente che appare in diversi fotogrammi e che alimenta le speculazioni sulla sua natura, inclusa la possibilità che si tratti del paracadute di atterraggio.
Un’inevitabile consunzione nel rientro atmosferico
Nonostante l’affascinante ipotesi che la struttura osservata nelle recenti immagini possa effettivamente essere il paracadute originariamente destinato all’atterraggio di Kosmos 482 su Venere, le leggi della fisica e le estreme condizioni del rientro atmosferico terrestre rendono altamente improbabile la sua sopravvivenza. La velocità prevista con cui il lander si tufferà nell’atmosfera del nostro pianeta, stimata intorno ai 242 chilometri orari, rappresenta una sfida insormontabile per la fragilità di un paracadute rimasto esposto al vuoto e alle radiazioni spaziali per oltre mezzo secolo.
Ralf Vandebergh, l’astronomo che ha catturato le immagini rivelatrici, ha espresso con chiarezza il suo scetticismo riguardo alla funzionalità del presunto paracadute durante la fase critica del rientro: “Se è vero che questo è il paracadute uscito molto tempo fa nello Spazio“, ha commentato su X: “Ciò significherebbe che probabilmente brucerà durante il rientro e non avrà alcuna funzione nel rallentare la navicella spaziale“. L’esposizione prolungata all’ambiente spaziale degraderebbe inevitabilmente i materiali del paracadute, rendendolo incapace di resistere alle intense forze aerodinamiche e al calore estremo generato dall’attrito con l’atmosfera terrestre.
Mentre la discesa di Kosmos 482 si avvicina al suo culmine, l’interesse degli osservatori satellitari rimane vivo. La comunità scientifica e gli appassionati dello spazio seguono con attenzione la traiettoria del lander, anticipando l’inevitabile impatto con la superficie terrestre. È prevedibile che ulteriori immagini e proiezioni aggiornate sul luogo e le modalità dell’atterraggio emergeranno nelle prossime ore, offrendo uno sguardo finale sul destino di questo relitto spaziale e, forse, chiarendo definitivamente la natura dell’enigmatica struttura che lo accompagna nel suo ultimo viaggio.
Come sarebbe percepito il nostro mondo da osservatori che si muovono più velocemente della luce nel vuoto?
Tre dimensioni temporali ed una dimensione spaziale
Secondo i teorici delle università di Varsavia e Oxford, una tale visione sarebbe diversa da quella che incontriamo quotidianamente, con la presenza non solo di fenomeni spontanei ma anche di particelle che percorrono più percorsi contemporaneamente.
Inoltre, il concetto stesso di tempo verrebbe completamente trasformato: un mondo superluminale dovrebbe essere caratterizzato con tre dimensioni temporali e unadimensione spaziale e dovrebbe essere descritto nel linguaggio familiare della teoria deicampi. É stato scoperto che la presenza di tali osservatori superluminali non porta a nulla di logicamente incoerente, inoltre, è del tutto possibile che gli oggetti superluminali esistano davvero.
“All’inizio del XX secolo, Albert Einstein ha completamente ridefinito il modo in cui percepiamo il tempo e lo spazio. Lo spazio tridimensionale ha acquisito una quarta dimensione: il tempo, e i concetti di tempo e spazio, finora separati, hanno cominciato a essere trattati come un tutt’uno. Nella teoria della relatività ristretta formulata nel 1905 da Albert Einstein, tempo e spazio differiscono solo per il segno in alcune delle equazioni”, ha spiegato il professor Andrzej Dragan, professore della Facoltà di Fisica dell’Università di Varsavia e Centro per le Tecnologie Quantistiche dell’Università Nazionale di Singapore.
Einstein basò la sua teoria dellarelatività ristretta su due presupposti: il principio direlatività di Galileo e la costanza della velocità della luce. Come sostiene Andrzej Dragan, il primo principio è fondamentale, il quale presuppone che in ogni sistema inerziale le leggi della fisica siano le stesse e tutti gli osservatori inerziali siano uguali.
Tipicamente, questo principio si applica agli osservatori che si muovono l’uno rispetto all’altro a velocità inferiori alla velocità della luce (c). Tuttavia, non vi è alcuna ragione fondamentale per cui gli osservatori che si muovono in relazione ai sistemi fisici descritti con velocità superiori alla velocità della luce non dovrebbero esserne soggetti, sostiene Dragan.
Cosa succede quando assumiamo – almeno teoricamente – che il mondo possa essere osservabile da quadri di riferimento superluminali? C’è la possibilità che ciò consenta l’incorporazione dei principi di base della meccanica quantistica nella teoria della relativitàristretta. Questa ipotesi rivoluzionaria del professor Andrzej Dragan e del professor Artur Ekert dell’Università di Oxford è stata presentata per la prima volta due anni fa.
Lì hanno considerato il caso semplificato di entrambe le famiglie di osservatori in uno spazio-tempo costituito da due dimensioni: una spaziale e una temporale. Nella loro ultima pubblicazione “Relatività degli osservatori superluminali nello spaziotempo 1 + 3”, un gruppo di 5 fisici ha fatto un ulteriore passo avanti, presentando conclusioni sull’intero spaziotempo quadridimensionale. Gli autori sono partiti dal concetto di spazio-tempo corrispondente alla nostra realtà fisica: con tre dimensioni spaziali e una dimensione temporale.
Tuttavia, dal punto di vista dell’osservatore superluminale, solo una dimensione di questo mondo conserva un carattere spaziale, quella lungo la quale le particelle possono muoversi.
“Le altre tre dimensioni sono dimensioni temporali”, ha spiegato il professor AndrzejDragan.
“Dal punto di vista di un tale osservatore, la particella “invecchia” indipendentemente in ciascuno dei tre tempi. Ma dal nostro punto di vista – mangiatori di pane illuminati – sembra un movimento simultaneo in tutte le direzioni dello spazio, cioè la propagazione di un’onda sferica quantomeccanica associata a una particella”, ha commentato il professor Krzysztof Turzyński, coautore dell’articolo.
Si tratta, come ha spiegato il professor Andrzej Dragan, in accordo con il principio diHuygens formulato già nel XVIII secolo, secondo il quale ogni punto raggiunto da un’onda diventa la sorgente di una nuova onda sferica. Questo principio inizialmente si applicava solo all’onda luminosa, ma la meccanica quantistica ha esteso questo principio a tutte le altre forme di materia.
Come hanno dimostrato gli autori della pubblicazione, l’inclusione di osservatori superluminali nella descrizione richiede la creazione di una nuova definizione di velocità e cinematica. – Questa nuova definizione preserva il postulato di Einstein della costanza della velocità della luce nel vuoto anche per gli osservatori superluminali. “Pertanto, la nostra relatività ristretta estesa non sembra un’idea particolarmente stravagante”, ha aggiunto Dragan.
Come cambia la descrizione del mondo a cui introduciamo gli osservatori superluminali?
Dopo aver preso in considerazione le soluzioni superluminali, il mondo diventa non deterministico, le particelle invece una alla volta iniziano a muoversi lungo molte traiettorie contemporaneamente, secondo il principio quantistico di sovrapposizione.
“Per un osservatore superluminale, la classica particella puntiforme newtoniana cessa di avere senso e il campo diventa l’unica quantità che può essere utilizzata per descrivere il mondo fisico”, ha osservato Andrzej Dragan.
“Fino a poco tempo fa si credeva generalmente che i postulati alla base della teoria quantistica fossero fondamentali e non potessero essere derivati da qualcosa di più basilare. In questo lavoro, abbiamo mostrato che la giustificazione della teoria quantistica usando la relatività estesa, può essere naturalmente generalizzata a 1 + 3 spaziotempo e tale estensione porta a conclusioni postulate dalla teoria quantistica dei campi”, hanno dichiarato gli autori.
Tutte le particelle, quindi, sembrano avere uno straordinario quanto, proprietà indivisibile nella relatività ristretta. Funziona al contrario? Possiamo rilevare particelle normali per gli osservatori superluminali, cioè particelle che si muovono rispetto a noi a velocità superluminali?
“Non è così semplice”, ha affermato il professor Krzysztof Turzyński.
“La mera scoperta sperimentale di una nuova particella fondamentale è un’impresa degna del Premio Nobel e realizzabile in un grande gruppo di ricerca utilizzando le più recenti tecniche sperimentali. Tuttavia, speriamo di applicare i nostri risultati per una migliore comprensione del fenomeno della rottura spontanea della simmetria associata alla massa della particella di Higgs e di altre particelle nel Modello standard, specialmente nell’universo primordiale”.
Andrzej Dragan ha aggiunto che l’ingrediente cruciale di qualsiasi meccanismo spontaneo di rottura della simmetria è un campo tachionico. Sembra che i fenomeni superluminali possano svolgere un ruolo chiave nel meccanismo di Higgs.
Superconduttori ad alta temperatura: verso una comprensione completa con il tunneling innovativo
I superconduttori, materiali dotati della straordinaria capacità di condurre corrente elettrica senza opporre alcuna resistenza, rappresentano un elemento cruciale per lo sviluppo di tecnologie all’avanguardia.
Le loro proprietà uniche aprono orizzonti in settori strategici quali la trasmissione efficiente di energia, la levitazione magnetica per trasporti innovativi, l’accumulo di energia su larga scala e l’emergente campo dell’informatica quantistica.
Superconduttori ad alta temperatura: verso una comprensione completa con il tunneling innovativo
Superconduttori ad alta temperatura: un balzo avanti nella caratterizzazione con il tunneling
Per lungo tempo tuttavia, l’applicazione pratica dei superconduttori è stata ostacolata dalla necessità di operare a temperature estremamente basse, un requisito che ne limitava significativamente l’adozione. Una svolta epocale nella ricerca sui superconduttori è giunta con la scoperta della superconduttività in composti ricchi di idrogeno. In particolare, l’acido solfidrico (H₃S) e il decaidruro di lantanio (LaH₁₀) hanno dimostrato proprietà superconduttive a temperature notevolmente più elevate rispetto ai superconduttori tradizionali.
L’H₃S manifesta superconduttività a 203 Kelvin (-70 °C), mentre il LaH₁₀ raggiunge questo stato a 250 Kelvin (-23 °C). Questi risultati pionieristici hanno avvicinato in modo significativo la comunità scientifica all’ambizioso obiettivo della superconduttività a temperatura ambiente. Grazie alle loro temperature critiche, che superano ampiamente il punto di ebollizione dell’azoto liquido (77 K), questi materiali sono ora classificati come superconduttori ad alta temperatura, aprendo nuove prospettive per la loro applicazione.
Un concetto fondamentale per comprendere la superconduttività è il gap superconduttivo, una proprietà intrinseca che riflette il meccanismo attraverso il quale gli elettroni si accoppiano per dare origine allo stato superconduttore. L’identificazione precisa di questo gap è essenziale per distinguere la fase superconduttiva dal comportamento metallico ordinario di un materiale. Tuttavia, la misurazione del gap superconduttivo in composti ricchi di idrogeno come l’H₃S ha rappresentato una sfida scientifica di notevole complessità.
La sintesi di questi materiali richiede condizioni di pressione estreme, superiori a un milione di volte la pressione atmosferica, realizzabili unicamente all’interno di celle a incudine di diamante. In un ambiente così ostile, le tecniche di misurazione convenzionali, come la spettroscopia a effetto tunnel a scansione (STS) e la spettroscopia fotoemissione ad angolo risolto (ARPES), si rivelano inapplicabili.
Per superare questa barriera tecnologica, un team di ricercatori del Max Planck Institute di Magonza ha sviluppato una sofisticata tecnica di spettroscopia a effetto tunnel elettronico planare, specificamente progettata per operare in condizioni di pressione elevatissima. Questa innovazione metodologica ha permesso loro di sondare per la prima volta il gap superconduttivo nell’H₃S, offrendo una visione diretta e senza precedenti dello stato superconduttore in questi promettenti composti ricchi di idrogeno.
Attraverso l’applicazione di questa nuova spettroscopia, i ricercatori hanno scoperto che l’H₃S presenta un gap superconduttore completamente aperto con un valore di circa 60 millielettronvolt (meV). Sorprendentemente, il suo analogo deuterato, il D₂S, ha mostrato un gap inferiore, pari a circa 44 meV.
Il deuterio, un isotopo dell’idrogeno con un neutrone aggiuntivo, ha rivelato un comportamento che fornisce un indizio cruciale sul meccanismo della superconduttività. La differenza nel gap tra H₃S e D₂S conferma che l’interazione degli elettroni con i fononi – le vibrazioni quantizzate del reticolo atomico del materiale – è la causa fondamentale della superconduttività nell’H₃S, fornendo un solido supporto a previsioni teoriche di lunga data.
L’eredità di Eremets
Per il team di ricerca di Magonza, il recente sviluppo di una spettroscopia innovativa non rappresenta unicamente un avanzamento tecnico di rilievo. Questa metodologia pionieristica apre nuove e concrete possibilità per svelare in modo esaustivo i meccanismi fondamentali che sottendono la superconduttività ad alta temperatura nei materiali ricchi di idrogeno.
Il Dottor Feng Du, primo autore dello studio, sottolinea l’importanza di questo risultato per il futuro della ricerca: “Ci auguriamo che estendendo questa tecnica di tunneling ad altri superconduttori a idruri, si possano individuare i fattori chiave che consentono la superconduttività a temperature ancora più elevate. Ciò dovrebbe in definitiva consentire lo sviluppo di nuovi materiali in grado di operare in condizioni più pratiche“.
Il Dottor Mikhail Eremets, figura di spicco nel campo della superconduttività ad alta pressione, tragicamente scomparso nel novembre del 2024, aveva riconosciuto l’importanza capitale di questo studio, definendolo “il lavoro più importante nel campo della superconduttività degli idruri dalla scoperta della superconduttività in H₂S nel 2015″. Vasily Minkov, responsabile del progetto di Chimica e Fisica ad Alta Pressione presso il Max Planck Institute for Chemistry, ha commentato con entusiasmo: “La visione di Mikhail di superconduttori operanti a temperatura ambiente e pressioni moderate si avvicina di un passo alla realtà grazie a questo lavoro“.
La superconduttività, la straordinaria capacità dei materiali di condurre corrente elettrica senza alcuna perdita di energia, fu scoperta nel 1911 da Heike Kamerlingh Onnes nel mercurio puro. Per decenni, si è ritenuto che questo fenomeno potesse manifestarsi unicamente a temperature prossime allo zero assoluto (-273 °C). Questo paradigma consolidato subì una radicale trasformazione alla fine degli anni ’80, quando Georg Bednorz e Karl Alexander Müller portarono alla luce una nuova classe di superconduttori a base di ossido di rame (cuprati) che esibivano superconduttività ad alta temperatura a pressione atmosferica.
Questa scoperta innescò un’intensa attività di ricerca a livello globale, culminando nel raggiungimento di una temperatura critica (Tc), la soglia termica al di sotto della quale un materiale perde la sua resistenza elettrica, di circa 133 K a pressione ambiente e 164 K ad alta pressione. Tuttavia, fino all’avvento dei composti ricchi di idrogeno, nessun superconduttore con una Tc superiore era stato identificato.
La scoperta della superconduttività nell’acido solfidrico (H₂S) a pressioni di megabar, con una temperatura critica (Tc) di 203 K, da parte del gruppo di ricerca guidato dal Dottor Mikhail Eremets, rappresentò quindi un progresso epocale verso la realizzazione della superconduttività a temperature prossime a quelle ambientali.
Questa svolta fondamentale fu rapidamente seguita dalla scoperta di valori di Tc ancora più elevati in altri idruri metallici ricchi di idrogeno, come YH₆ (Tc ≈ 244 K) e LaH₁₀ (Tc ≈ 250 K). Gli attuali modelli teorici suggeriscono con crescente convinzione la possibilità di raggiungere la superconduttività a temperature superiori a quella ambiente in diversi sistemi chimici dominati dall’idrogeno, sebbene sottoposti a condizioni di pressione estreme.
Il fondamento quantistico della superconduttività
Nei metalli convenzionali, gli elettroni con livelli di energia prossimi al livello di Fermi, che rappresenta l’energia massima occupata dagli elettroni in un solido allo zero assoluto, possiedono la libertà di muoversi attraverso la struttura cristallina. Tuttavia, la transizione a uno stato superconduttore innesca un profondo cambiamento nel comportamento elettronico. Gli elettroni si aggregano formando le cosiddette coppie di Cooper, un fenomeno quantistico collettivo.
Queste coppie, intrinsecamente correlate, si propagano attraverso il materiale come singole entità, eludendo la dispersione causata dalle vibrazioni del reticolo atomico (fononi) o dalle imperfezioni strutturali (impurità). Questa assenza di scattering è la diretta responsabile della caratteristica distintiva della superconduttività: la resistenza elettrica nulla.
L’accoppiamento degli elettroni in coppie di Cooper è intrinsecamente legato alla formazione di un gap energetico in prossimità del livello di Fermi, denominato gap superconduttore. Questo gap rappresenta l’energia minima necessaria per scindere una coppia di elettroni di Cooper, disgregando lo stato superconduttore. L’esistenza di questa barriera energetica conferisce stabilità allo stato superconduttore, proteggendolo da perturbazioni esterne come i processi di scattering che normalmente ostacolano il flusso di elettroni nei conduttori ordinari.
Il gap superconduttore emerge come la caratteristica distintiva che definisce lo stato quantistico di un superconduttore. La sua grandezza, ovvero il suo valore energetico, e la sua simmetria spaziale forniscono informazioni cruciali sulle interazioni fondamentali che governano l’accoppiamento degli elettroni all’interno del materiale. In questo senso, il gap superconduttore agisce come una vera e propria impronta digitale del meccanismo microscopico che è alla base della superconduttività in un dato materiale, rivelando la natura delle forze che orchestrano questo affascinante fenomeno quantistico.
Una simulazione quantistica svela la fragilità cosmica: un Universo a rischio?
Un team internazionale di fisici ha compiuto un passo significativo nell’esplorazione di uno dei misteri più profondi e inquietanti del cosmo attraverso la realizzazione di una sofisticata simulazione quantistica.
Questa ricerca innovativa si concentra sulla possibilità che il nostro universo si trovi in uno stato di “falso vuoto“, una condizione apparentemente stabile ma intrinsecamente temporanea, destinata a un potenziale collasso verso una realtà più stabile e fondamentale.
Una simulazione quantistica svela la fragilità cosmica: un Universo a rischio?
Simulazione quantistica svela i segreti del “falso vuoto”
Utilizzando la potenza di un avanzato computer quantistico, i ricercatori sono stati in grado di osservare la dinamica di formazione di “bolle” che rappresentano la transizione verso questo stato di vuoto più stabile. Questa simulazione offre una prospettiva inedita e privilegiata per assistere a un processo che, sebbene ritenuto improbabile su scale temporali brevi, potrebbe un giorno rimodellare radicalmente la struttura stessa della realtà come la conosciamo.
La portata di questa ricerca trascende la mera svelamento di segreti cosmici. Essa suggerisce anche una potenziale rivoluzione nel campo dell’informatica quantistica, fornendo nuovi strumenti e intuizioni per affrontare le sfide computazionali più complesse. Inoltre, i risultati ottenuti potrebbero avere implicazioni profonde per la nostra concezione fondamentale del tempo, dello spazio e della natura intrinseca della tecnologia.
Circa mezzo secolo fa, i fisici teorici formularono l’ipotesi che il nostro universo potrebbe essere intrappolato in uno stato di “falso vuoto“, una condizione che appare stabile alle nostre osservazioni ma che, in realtà, possiede una natura transitoria. Secondo questo scenario teorico, l’universo potrebbe, in un momento imprevedibile, subire una transizione quantistica verso uno stato di “vero vuoto“, caratterizzato da una maggiore stabilità energetica.
Se un evento di tale portata dovesse verificarsi, il tessuto stesso della realtà potrebbe subire una trasformazione istantanea e radicale, alterando le forze fondamentali che governano l’universo e le particelle elementari che costituiscono ogni forma di materia ed energia. La comunità scientifica concorda sul fatto che una transizione di questo tipo è estremamente improbabile che si verifichi nel prossimo futuro, ammesso che si verifichi, ma la sua possibilità teorica rimane valida su scale temporali cosmiche, che si estendono per milioni o addirittura miliardi di anni.
Ora, un team internazionale composto da ricercatori provenienti da tre prestigiose istituzioni scientifiche ha compiuto un passo avanti cruciale utilizzando una potente simulazione quantistica per esplorare le dinamiche attraverso le quali questo decadimento del falso vuoto potrebbe potenzialmente svolgersi. Il loro lavoro pionieristico fornisce una nuova e preziosa comprensione dei complessi comportamenti quantistici che governano sia l’universo primordiale, nelle sue fasi iniziali dopo il Big Bang, sia gli elementi costitutivi più elementari della materia a livello subatomico. Il progetto di ricerca è stato guidato congiuntamente dal professor Zlatko Papic dell’Università di Leeds e dal dottor Jaka Vodeb del Forschungszentrum Jülich in Germania.
Il professor Papic, autore principale dell’articolo scientifico e professore di fisica teorica presso la Facoltà di Fisica e Astronomia dell’Università di Leeds, sottolinea la portata trasformativa di un tale evento cosmico: “Stiamo parlando di un processo attraverso il quale l’Universo cambierebbe completamente la sua struttura. Le costanti fondamentali potrebbero cambiare istantaneamente e il mondo come lo conosciamo crollerebbe come un castello di carte”.
Le costanti fondamentali potrebbero cambiare istantaneamente e il mondo come lo conosciamo crollerebbe come un castello di carte. Ciò di cui abbiamo realmente bisogno sono esperimenti controllati per osservare questo processo e determinarne le scale temporali. La sfida risiede nella natura intrinsecamente teorica e nella difficoltà di osservare direttamente un fenomeno di tale portata. La simulazione quantistica rappresenta quindi un potente strumento per esplorare scenari altrimenti inaccessibili.
Questa ricerca rappresenta un avanzamento significativo nell’esplorazione della dinamica quantistica, ovvero lo studio di come i sistemi evolvono seguendo le controintuitive ma fondamentali regole della meccanica quantistica. La capacità di simulare processi quantistici complessi come il decadimento del falso vuoto non solo arricchisce la nostra comprensione dell’Universo, ma potrebbe anche avere implicazioni pratiche di vasta portata per il progresso dell’informatica quantistica. Si spera che, in futuro, computer quantistici sempre più potenti possano aiutare gli scienziati ad affrontare gli enigmi più profondi e complessi sulla natura ultima della realtà stessa.
Simulazione quantistica della nucleazione di bolle nel Falso Vuoto
La ricerca pionieristica condotta congiuntamente dall’Università di Leeds, dal Forschungszentrum Jülich e dall’Istituto di Scienza e Tecnologia Austria (ISTA) si è focalizzata sulla delucidazione del meccanismo fondamentale che sottende uno dei misteri più elusivi della cosmologia: il decadimento del falso vuoto. Per affrontare questa complessa sfida, il team di scienziati ha impiegato un avanzato quantum annealer da 5564 qubit, un tipo specifico di computer quantistico progettato dalla D-Wave Quantum Inc. Questa potente macchina è ottimizzata per la risoluzione di problemi di ottimizzazione complessi, che richiedono l’identificazione della soluzione ottimale all’interno di un vasto spazio di possibilità, sfruttando le peculiari proprietà dei sistemi quantistici.
Il team di ricerca descrive in dettaglio come ha sfruttato le capacità del quantum annealer per simulare il comportamento delle “bolle” che si formano all’interno di uno stato di falso vuoto. Queste bolle possiedono un’analogia concettuale con le bollicine di liquido che si condensano nel vapore acqueo raffreddato al di sotto del suo punto di rugiada. L’ipotesi scientifica prevalente suggerisce che la formazione, l’interazione dinamica e la successiva diffusione di queste bolle rappresentino il meccanismo innescante del decadimento del falso vuoto, il processo attraverso il quale l’universo potrebbe transitare verso uno stato di energia più stabile.
Il dottor Jean-Yves Desaules, coautore dello studio, ricercatore post-dottorato presso l’ISTA e dottorando presso l’Università di Leeds, offre un’illuminante analogia per comprendere la natura del falso vuoto: “Questo fenomeno è paragonabile a delle montagne russe che presentano diverse valli lungo la loro traiettoria, ma un solo ‘vero’ stato più basso, a livello del suolo“. Seguendo questa metafora, la meccanica quantistica permetterebbe all’Universo di “tunnelare” attraverso le barriere energetiche e raggiungere, prima o poi, lo stato di energia più basso, o “vero” vuoto. Un tale evento, tuttavia, darebbe luogo a un catastrofico evento globale, con conseguenze inimmaginabili per la struttura stessa della realtà.
La potenza del quantum annealing ha consentito agli scienziati di osservare l’intricata e dinamica “danza” delle bolle di vuoto, tracciando in tempo reale i processi di loro formazione, crescita e interazione reciproca. Queste osservazioni hanno rivelato che le dinamiche di decadimento del falso vuoto non sono eventi isolati e indipendenti, ma implicano complesse interazioni tra le bolle, inclusa la modalità con cui bolle di dimensioni minori possono influenzare il comportamento e l’evoluzione di quelle più grandi. Il team di ricerca sottolinea che le loro scoperte forniscono nuove e preziose informazioni su come transizioni di fase di questo tipo potrebbero essersi verificate nelle primissime fasi dell’evoluzione cosmica, subito dopo il Big Bang, plasmando la struttura fondamentale dell’universo che osserviamo oggi.
Il dottor Jaka Vodeb, primo autore dell’articolo e ricercatore post-dottorato presso il Forschungszentrum Jülich, evidenzia il potenziale trasformativo del quantum annealing per la ricerca scientifica di frontiera: “Sfruttando le capacità di un grande quantum annealer, il nostro team ha aperto le porte allo studio di sistemi quantistici non in equilibrio e transizioni di fase altrimenti difficili da esplorare con i metodi di calcolo tradizionali“. Questa ricerca dimostra come l’informatica quantistica stia emergendo come uno strumento potente e innovativo per affrontare alcune delle domande più profonde e complesse sulla natura fondamentale dell’universo e delle leggi che lo governano.
Una nuova era per la cosmologia
I fisici si sono a lungo confrontati con la profonda questione della possibilità e della tempistica del decadimento del falso vuoto. La natura intrinsecamente complessa e spesso intrattabile dal punto di vista matematico della teoria quantistica dei campi ha rappresentato un ostacolo significativo al progresso nella ricerca di risposte definitive.
Invece di affrontare direttamente le intricate equazioni della teoria quantistica dei campi, il team di ricerca ha adottato un approccio pragmatico e innovativo. Si è concentrato sulla formulazione di problemi più semplici, ma concettualmente rilevanti, che potessero essere studiati utilizzando le capacità all’avanguardia dei dispositivi e dell’hardware quantistico di nuova generazione. Si ritiene che questa ricerca rappresenti una delle prime volte in cui gli scienziati sono stati in grado di simulare e osservare direttamente la dinamica del decadimento del falso vuoto su una scala così ampia e controllata.
L’esperimento ha comportato il posizionamento preciso di 5564 qubit – i mattoni elementari del calcolo quantistico – in configurazioni specifiche progettate per rappresentare lo stato di falso vuoto. Attraverso un controllo meticoloso e accurato del sistema quantistico, i ricercatori sono stati in grado di innescare la transizione dal falso vuoto allo stato di vuoto reale, replicando in tempo reale il processo di nucleazione e crescita delle bolle descritto dalla teoria del decadimento del falso vuoto.
la simulazione, il team ritiene che l’architettura dello stesso quantum annealer offra la possibilità di estendere queste simulazioni a modelli tridimensionali più realistici. La macchina quantistica D-Wave utilizzata in questa ricerca è integrata all’interno di JUNIQ, la Jülich UNified Infrastructure for Quantum Computing presso il Centro di Supercalcolo di Jülich, una piattaforma che fornisce alla comunità scientifica e industriale l’accesso a dispositivi di calcolo quantistico all’avanguardia.
Il professor Papic sottolinea la portata innovativa del loro approccio: “Stiamo cercando di sviluppare sistemi in cui possiamo condurre semplici esperimenti per studiare questo tipo di fenomeni. Le scale temporali per questi processi che avvengono nell’universo sono enormi, ma l’utilizzo del ricottura ci permette di osservarli in tempo reale, quindi possiamo effettivamente vedere cosa sta succedendo“. Questa entusiasmante sinergia tra la simulazione quantistica all’avanguardia e la fisica teorica più profonda dimostra il potenziale trasformativo di queste nuove tecnologie nell’avvicinarci alla soluzione di alcuni dei misteri più reconditi dell’Universo.
La ricerca è stata resa possibile dal generoso sostegno finanziario dell’UKRI Engineering and Physical Sciences Research Council (EPSRC) e del Leverhulme Trust. I risultati ottenuti dimostrano un’importante implicazione: la comprensione dell’origine e del destino ultimo dell’Universo non richiede necessariamente esperimenti multimilionari condotti in strutture dedicate alle alte energie, come il Large Hadron Collider (LHC) del CERN. Il professor Papic aggiunge con entusiasmo: “È entusiasmante avere a disposizione questi nuovi strumenti che potrebbero fungere efficacemente da ‘laboratorio’ da tavolo per comprendere i processi dinamici fondamentali dell’Universo“.
I ricercatori sottolineano con forza come i loro risultati evidenzino il notevole potenziale dei quantum annealer nel risolvere problemi pratici che si estendono ben oltre i confini della fisica teorica e della cosmologia. Oltre alla sua intrinseca importanza per la nostra comprensione dell’Universo, lo studio possiede implicazioni pratiche significative per il progresso e l’ottimizzazione dell’informatica quantistica stessa. I ricercatori ritengono che la comprensione dettagliata delle interazioni tra le bolle nel contesto del falso vuoto potrebbe condurre a miglioramenti sostanziali nel modo in cui i sistemi quantistici gestiscono gli errori intrinseci e eseguono calcoli complessi, contribuendo in modo cruciale a rendere l’informatica quantistica una tecnologia più efficiente e affidabile.
Il dottor Vodeb conclude con una visione lungimirante: “Queste scoperte non solo ampliano i confini della conoscenza scientifica, ma aprono anche la strada a tecnologie future che potrebbero rivoluzionare campi come la crittografia, la scienza dei materiali e l’informatica efficiente dal punto di vista energetico“. Il Dottor Kedar Pandya, Direttore Esecutivo per la Strategia dell’EPSRC, ha commentato: “La ricerca guidata dalla curiosità è una parte fondamentale del lavoro sostenuto dall’EPSRC. Questo progetto ne è un’eccellente dimostrazione, con idee provenienti dalla fisica quantistica fondamentale che si uniscono ai progressi tecnologici dell’informatica quantistica per contribuire a rispondere a domande profonde sulla natura dell’Universo“.
Coscienza umana: verso la comprensione dei meccanismi neurali della consapevolezza
Un’interessante e collaborativa impresa scientifica, avviata nel 2019, ha intrapreso un confronto diretto tra due teorie contrastanti che cercano di svelare il mistero fondamentale della nascita della coscienza umana. I risultati di questo studio innovativo rappresentano una pietra miliare significativa nel campo della ricerca sulla coscienza e sulla sua emergere nel cervello.
Coscienza umana: verso la comprensione dei meccanismi neurali della consapevolezza
La nascita della coscienza umana: un confronto sperimentale tra teorie rivali
L’analisi dei dati raccolti durante l’esperimento ha rivelato l’esistenza di connessioni funzionali cruciali tra i neuroni situati nelle aree visive precoci del cervello, localizzate nella parte posteriore della corteccia cerebrale, e le regioni frontali, tradizionalmente associate alle funzioni cognitive di alto livello. Questa scoperta suggerisce un legame intrinseco e robusto tra i processi di percezione sensoriale e le funzioni cognitive, ma sposta anche l’attenzione dalla corteccia prefrontale come sede primaria e unica dell’esperienza cosciente.
I risultati implicano che, sebbene la corteccia prefrontale rimanga essenziale per il ragionamento astratto, la pianificazione complessa e il processo decisionale, l’esperienza cosciente in sé potrebbe dipendere in misura maggiore dall’elaborazione sensoriale primaria e, in particolare, dalla percezione visiva. In sintesi, si potrebbe affermare che l’intelligenza è prevalentemente orientata all’azione e al “fare”, mentre la coscienza è più profondamente radicata nell’esperienza soggettiva dell'”essere”.
L’indagine sperimentale ha inoltre evidenziato il ruolo cruciale svolto dalla parte posteriore del cervello nella ritenzione di informazioni visive dettagliate, come ad esempio l’orientamento specifico di un oggetto percepito. Sebbene le aree frontali contribuiscano anch’esse all’elaborazione visiva, il loro ruolo sembra essere più orientato all’identificazione di categorie generali e astratte, come il riconoscimento di un oggetto come appartenente alla classe dei “volti” o delle “sedie”.
Questa scoperta mette in discussione l’idea, a lungo consolidata nella neuroscienza cognitiva, secondo cui la parte anteriore del cervello conterrebbe la rappresentazione completa e dettagliata del contenuto delle nostre esperienze visive. I risultati suggeriscono invece che le regioni sensoriali posteriori del cervello potrebbero essere più centrali nella codifica e nella ritenzione della ricchezza e della granularità di ciò che effettivamente vediamo e percepiamo a livello cosciente.
Una nuova prospettiva neuroscientifica
Queste significative scoperte non solo ampliano la nostra comprensione dei meccanismi neurali sottostanti alla coscienza umana, ma possiedono anche importanti implicazioni per far luce sui disturbi della coscienza, come il coma e lo stato vegetativo persistente. L’identificazione precisa delle regioni cerebrali che custodiscono le tracce neurali della coscienza potrebbe rappresentare un passo avanti cruciale nella diagnosi e nella rilevazione della cosiddetta “coscienza occulta” in pazienti non responsivi con gravi lesioni cerebrali, una condizione subdola che si stima si verifichi in circa un quarto di tali casi clinici.
La Teoria dell’Informazione Integrata (IIT) postula che la coscienza emerga dall’interazione complessa e dalla cooperazione di diverse aree cerebrali che lavorano sinergicamente per integrare l’informazione, analogamente al funzionamento efficiente di un team affiatato. Tuttavia, i risultati di questo studio non hanno evidenziato connessioni funzionali sufficientemente stabili nella parte posteriore del cervello per fornire un supporto empirico robusto a questa idea teorica. D’altra parte, la Teoria Globale dello Spazio di Lavoro (GNWT) sostiene l’ipotesi che la coscienza risieda prevalentemente nelle regioni anteriori del cervello; anche in questo caso, i risultati dello studio non hanno fornito prove conclusive a sostegno di questa prospettiva teorica.
Il professor Anil Seth, esperto di neuroscienze cognitive e computazionali presso l’Università del Sussex, riconosce la complessità intrinseca del problema della coscienza e le limitazioni metodologiche attuali: “Era chiaro che nessun singolo esperimento avrebbe confutato in modo definitivo nessuna delle due teorie. Le teorie sono semplicemente troppo diverse nei loro presupposti e obiettivi esplicativi, e i metodi sperimentali disponibili troppo grossolani, per consentire a una teoria di prevalere definitivamente sull’altra“.
Egli sottolinea il valore intrinseco dei risultati ottenuti dalla collaborazione internazionale: “Detto questo, i risultati della collaborazione rimangono estremamente preziosi: si è imparato molto su entrambe le teorie e su dove e quando nel cervello si possano decodificare le informazioni sull’esperienza visiva“. La portata di questo studio è stata notevole, coinvolgendo un campione di 256 soggetti umani, un numero senza precedenti per questo tipo di indagine sperimentale sulla coscienza. I ricercatori hanno presentato ai partecipanti una varietà di stimoli visivi controllati e hanno simultaneamente monitorato l’attività cerebrale utilizzando tre consolidate tecniche di neuroimaging.
La risonanza magnetica funzionale (fMRI), che misura le variazioni nel flusso sanguigno cerebrale correlate all’attività neuronale; la magnetoencefalografia (MEG), che rileva i campi magnetici prodotti dall’attività elettrica del cervello; e l’elettroencefalografia (EEG), che misura l’attività elettrica cerebrale attraverso elettrodi posizionati sul cuoio capelluto. L’integrazione dei dati provenienti da queste tre diverse modalità di misurazione cerebrale ha fornito un quadro più completo e robusto dell’attività neurale correlata all’esperienza visiva e alla coscienza.
Un nuovo modello per la ricerca sulla coscienza umana
L’esperimento di portata eccezionale descritto rappresenta il culmine di un’iniziativa scientifica aperta e collaborativa su vasta scala, la cui genesi risale a un workshop tenutosi presso l’Allen Institute nel 2018. Questo approccio innovativo ha sapientemente riunito ricercatori provenienti da diverse scuole di pensiero e con prospettive scientifiche distinte, con l’obiettivo specifico di sottoporre a verifica sperimentale diretta due teorie contrastanti sulla coscienza all’interno di un ambiente collaborativo ma al contempo rigorosamente critico.
L’intento primario di questa struttura di ricerca era quello di minimizzare il rischio di bias di conferma, un fenomeno psicologico che può influenzare l’interpretazione dei risultati scientifici, e di accelerare in modo significativo il progresso nella comprensione di uno dei misteri più elusivi della scienza. Christof Koch, figura di spicco nel campo della ricerca sulla coscienza e uno degli artefici di questa collaborazione, sottolinea il potenziale trasformativo di questo modello di ricerca.
“Le collaborazioni antagoniste sono un potente processo sociale, poco utilizzato a causa della loro natura complessa, che mira a coordinare la ricerca e i protocolli associati tra numerosi laboratori indipendenti e individui in competizione tra loro“. Egli argomenta con convinzione che “il settore biomedico potrebbe trarre enormi benefici da una maggiore competizione ‘amichevole’ tra teorie, neurobiologiche o di altro tipo”.
Koch riconosce che l’implementazione efficace di tali collaborazioni antagoniste richiede un elevato grado di cooperazione tra i partecipanti e un impegno costante per mantenere tutti i ricercatori allineati sugli obiettivi comuni e sui protocolli sperimentali condivisi. La sfida risiede nel bilanciare lo spirito competitivo, intrinseco al progresso scientifico, con la necessità di una stretta collaborazione per garantire la validità e la riproducibilità dei risultati.
I gatti, tradizionali amici felini che accompagnano l’umanità ormai da migliaia di anni, spesso ci stupiscono con la loro intelligenza: possono prendere cose, aprire porte, superare ostacoli apparentemente impossibili e persino comprendere le istruzioni di base (quando ne hanno voglia, comunque).
Altre volte, possono essere esilaranti e sciocchi.
Ogni amante dei gatti ha familiarità con le loro stranezze, come la gioia apparentemente infinita che provano nel far cadere le cose dai tavoli e l’innata passione che dimostrano nel rifugiarsi in stretti spazi chiusi. Quest’ultima si manifesta anche nel contorno bidimensionale di un quadrato sul pavimento.
In un interessante studio di citizen science condotto durante la pandemia di COVID-19, i ricercatori hanno utilizzato l’impulso dei gatti di sedersi in spazi chiusi per testare come le loro menti percepiscono un’illusione visiva. Lo studio è stato affettuosamente etichettato … aspetta … “Se mi va bene, mi siedo“.
Lo strumento fornito per l’illusione era il quadrato di Kanizsa: quattro forme simili a un pacman orientate in modo da sembrare che siano i quattro angoli di un quadrato, inducendo lo spettatore a percepire un quadrato che in realtà non è lì.
Tali illusioni si verificano quando il nostro cervello adatta le informazioni visive a preconcetti (pareidolia), probabilmente per riempire le informazioni mancanti. Sono abbastanza utili per individuare forme predatorie o di cibo oscurate dal fogliame.
Un gatto seduto in un quadrato regolare (l) e l’illusione del quadrato Kanizsa (r). (Smith et al., Applied Animal Behaviour Science 2021)
L’etologa cognitiva Gabriella Smith della City University di New York e colleghi hanno reclutato esseri umani per allestire oggetti sul pavimento per i loro signori felini tra cui scegliere: un quadrato registrato, un’illusione visiva di un quadrato e gli stessi componenti dell’illusione visiva, ma non disposti in modo da formare un quadrato (il controllo).
I proprietari di gatti dovevano filmare la risposta dei gatti in condizioni ragionevolmente controllate per evitare di influenzare le scelte degli animali (ciò comportava anche l’uso di occhiali da sole). Mentre originariamente erano stati arruolati oltre 500 gatti domestici, il set di dati finale si è ridotto a 30 scienziati cittadini che sono riusciti a completare tutte le prove necessarie.
“I gatti in questo studio stavano o sedevano negli stimoli Kanizsa e quadrati più spesso del controllo Kanizsa, rivelando la suscettibilità a contorni illusori e supportando la nostra ipotesi che i gatti trattino un quadrato illusorio come fanno un quadrato reale“.
Naturalmente, non tutti i gatti vogliono essere prevedibili in questo modo.
I ricercatori osservano che i risultati dello studio sono limitati dalla piccola dimensione del campione finale, ma il loro lavoro si aggiunge ad una ricerca precedente che ha scoperto che i gatti rispondono alle illusioni visive dei contorni; inoltre, è la prima volta che viene testato su gatti in un ambiente a loro familiare.
Questo potrebbe essere un dettaglio importante, perché i gatti generalmente detestano trovarsi in nuovi ambienti, come un laboratorio, quindi è più probabile che mostrino i loro comportamenti naturali a casa.
Capire come gli animali percepiscono illusioni visive come questa potrebbe aiutarci a confrontare la visione tra specie diverse senza richiedere un linguaggio che non possiedono.
Per quanto riguarda il motivo per cui questi enigmi fluttuanti si trovano se si adattano, deve ancora essere completamente studiato scientificamente. Smith e il team suggeriscono di utilizzare quadrati Kanizsa tridimensionali per esplorare ulteriormente questo aspetto.
Gli studi hanno dimostrato che stare seduti nelle scatole riduce lo stress nei gatti, quindi non sarebbe un salto eccessivo suggerire l’idea che i gatti si sentano più a loro agio quando sono chiusi.
“La loro visione è costruita per la distanza e la velocità, guardando un topo correre attraverso il campo. Da vicino sono praticamente ciechi da 8 a 12 pollici dal loro muso“, ha detto Ingrid Johnson, comportamentista felina.
“Immagino che probabilmente si sentano come se fossero ‘dentro’ qualcosa … come sdraiati su un vassoio di cibo in scatola di cartone. Anche se superficiale, ancora confortante, offre parametri o almeno la percezione dei lati“.
“Questa scatola virtuale può fornire un senso di sicurezza e comfort psicosomatico fuori luogo“, ha scritto l’etologo della Tufts University Nicholas Dodman dopo che il meme #catbox è decollato nel 2017.
E non sono solo i gatti piccoli che amano le scatole, anche i grandi felini le adorano.
https://youtu.be/J11uu8L8FTY
“La ricerca sulla cognizione del gatto è certamente carente rispetto ai cani domestici e, sebbene la ragione di ciò non sia chiara, l’uso della scienza dei cittadini come precursore delle indagini in laboratorio sulla cognizione del gatto potrebbe aiutare notevolmente a colmare questo divario“, ha scritto il team.
Durante la gravidanza il corpo femminile attraversa una serie di cambiamenti significativi che non riguardano solo l’apparato riproduttivo ma coinvolgono anche altri aspetti della salute, tra cui quella della bocca. Le modifiche ormonali tipiche di questo periodo possono infatti influire sullo stato delle gengive e dei denti, rendendoli più sensibili e predisposti a fastidi che in altre fasi della vita potrebbero essere meno frequenti o accentuati.
Non è raro, ad esempio, che compaiano infiammazioni gengivali, sanguinamenti o un senso di maggiore fastidio durante la masticazione e la pulizia quotidiana. Alcuni disturbi, come la gengivite gravidica, tendono a manifestarsi proprio a causa dell’aumento di ormoni che può favorire una risposta infiammatoria più accentuata alla placca batterica. Anche la nausea e il reflusso gastrico, comuni nei primi mesi, possono influire sull’equilibrio del cavo orale, rendendo utile un’attenzione in più all’igiene quotidiana e a eventuali controlli specialistici.
Come prendersi cura del cavo orale in gravidanza
Prendersi cura della propria igiene orale durante la gravidanza richiede, quindi, attenzione costante e la consapevolezza che tale periodo, proprio per le sue caratteristiche uniche, rende la bocca più vulnerabile a infezioni e infiammazioni. Si raccomanda pertanto, di adottare misure preventive sin dall’inizio della gestazione.
È buona prassi mantenere una routine quotidiana di igiene meticolosa che preveda l’uso regolare di spazzolino a setole morbide e dentifricio al fluoro nonché il ricorso al filo interdentale per rimuovere la placca negli spazi più difficili da raggiungere ma, soprattutto, è fondamentale sottoporsi a controlli periodici da uno specialista durante tutta la gravidanza al fine di intercettare tempestivamente eventuali problematiche e ridurre il rischio di complicanze.
In quest’ottica, realtà presenti con più sedi sul il territorio nazionale possono rappresentare un valido supporto. Ad esempio, rivolgersi a un dentista del Gruppo DentalPro può essere pratico: l’appuntamento è facilmente prenotabile online e i centri sono disponibili in sedici regioni italiane. La flessibilità nella gestione degli appuntamenti contribuisce all’organizzazione delle cure, soprattutto in una fase della vita in cui le esigenze sanitarie tendono ad aumentare.
I rischi di una cattiva igiene orale nel periodo perinatale
Trascurare la salute della bocca durante la gravidanza può portare a piccoli disturbi che, se ignorati, rischiano di diventare più difficili da gestire col passare del tempo. Anche semplici infiammazioni gengivali, se non trattate, possono peggiorare e causare fastidi che compromettono il benessere quotidiano. In alcuni casi, è stato osservato che condizioni orali non ottimali potrebbero associarsi a complicanze come parti anticipati o neonati di basso peso, anche se la ricerca è ancora in corso per comprendere fino in fondo tutti i legami tra salute orale e salute generale in gravidanza.
È comunque consigliabile, nel dubbio, adottare un atteggiamento prudente e includere la salute dentale tra le priorità da seguire in questi nove mesi, anche perché un’infezione non curata può diventare più difficile da trattare, soprattutto in un momento delicato come quello dell’attesa. Un approccio preventivo, fatto di buone abitudini e controlli regolari, può aiutare a vivere la gravidanza con maggiore serenità, riducendo il rischio di dover affrontare trattamenti complessi in un periodo in cui il comfort e la sicurezza vengono prima di tutto.
Esiste un pesce in grado di vedere tramite la pelle
I biologi hanno fatto una scoperta sensazionale: alcuni pesci sono in grado di percepire l’ambiente circostate non solo tramite la vista, come noi esseri umani o altre specie animali, ma anche tramite la propria pelle.
Il Lachnolaimus maximus, conosciuto anche col bizzarro nome di “pesce porco”, è in grado infatti di reagire alla luce e ai colori come se la sua pelle fosse formata da piccolissimi occhi: un’abilità che permette di riscrivere la storia e il comportamento di questo pesce, nei confronti del mondo che lo circonda.
A studiare il caso del pesce porco è stata la giovane biologa americana Lorian Schweikert solo qualche anno fa. Schweikert ha esaminato le capacità mimetiche e visive dell’animale mentre stava mutando la pelle, notando uno strano comportamento da parte della creatura.
Gli studi di Schweikert sul pesce
Nelle incantevoli Florida Keys, la scienziata si è recentemente trovata a pescare un esemplare unico, in prossimità della rinomata barriera corallina sita a pochi chilometri da Miami. Quest’area, ambita da turisti provenienti da ogni angolo del globo, rappresenta una tappa imperdibile per gli amanti della natura marina.
La biologa, stupita di fronte al fatto che il pesce avesse assunto una tonalità biancastra simile a quella del ponte della nave lì vicino, si è trovata ancor più sbalordita nel realizzare che questa incredibile trasformazione fosse avvenuta post mortem. Un evento così straordinario ha sollevato l’interrogativo su cosa abbia innescato il cambiamento di colore in risposta alla presenza della nave, visto che il sistema nervoso dell’animale aveva già cessato di funzionare.
L’entusiamo della studiosa
Schweikert è professoressa assistente presso l’Università della Carolina del Nord Wilmington; nel corso del tempo la giovane studiosa è divenuta esperta del fenomeno che lei chiama “visione cutanea”. Schweikert ha affermato entusiasta tramite una dichiarazione riportata da Kodami: “Questo incontro con il L. maximus mi ha aperto a un nuovo mondo di vedere i pesci”.
Come spiegare un tale fenomeno?
Per sondare ulteriormente questo straordinario fenomeno, Schweikert e Sönke Johnsen, un altro studioso proveniente dalla Duke University, hanno avviato un’indagine sulla struttura delle cellule epiteliali di questa particolare specie.
Queste cellule sono dotate di un gene singolare, responsabile della produzione di una proteina fotosensibile denominata opsina, che reagisce alla luce. Ciò che rende questa variante di opsina unica è che essa è attiva esclusivamente sulla pelle di questi pesci, svolgendo la funzione di un vero e proprio sensore luminoso. Questa variante differisce dall’opsina presente nella retina dei pesci.
Schweikert ha condiviso un aneddoto legato a questa scoperta: “Quando abbiamo trovato questo gene nelle cellule di questa specie, ho guardato il mio collega Sönke e ho detto, con una faccia probabilmente stupita: quale utilizzo poteva avere?”.
Inizialmente, l’ipotesi predominante suggeriva che la pelle sensibile alla luce avesse una funzione nell’aiutare questi animali a percepire l’ambiente circostante. Tuttavia, con il passare del tempo, gli studiosi hanno sviluppato un nuovo concetto: l’opsina potrebbe avere un’utilità anche nel “vedere se stessi”, come ha spiegato Schweikert.
Nella più recente ricerca, condivisa attraverso un articolo su Nature Communications e realizzata in collaborazione con altri colleghi studiosi, Johnsen e Schweikert hanno compiuto sforzi per convalidare questa nuova prospettiva. Hanno intrapreso la sfida fotografando la superficie di varie cellule epiteliali ottenute da diverse parti del corpo.
Cellule uniche!
La scoperta chiave di questa indagine è che la pelle del pesce porco è dotata di cellule specializzate, denominate cromatofori, che svolgono un ruolo cruciale. Queste cellule contengono granuli di pigmento che possono variare tra tonalità rosse, gialle o nere.
Quello che ha catturato l’attenzione dei ricercatori è che questi pigmenti, in risposta ai segnali inviati dalle opsine presenti in altre cellule, situate proprio sotto i cromatofori, consentono a questi animali di cambiare il proprio colore. Un aspetto particolarmente sorprendente è che questa capacità persiste anche poco dopo la loro morte.