Demenza e declino cognitivo nella vecchiaia

Uno studio del 2020 ha trovato una molecola che potrebbe servire come biomarcatore per identificare le persone con maggior rischio di sviluppare demenza in età avanzata. Potrebbe anche aiutare gli scienziati a sviluppare trattamenti preventivi.

La demenza è una condizione debilitante, che comporta il progressivo declino della memoria, della comunicazione e del pensiero. A livello globale, il numero di persone affette da questa condizione è più che raddoppiato. Passando da 20,2 milioni nel 1990 a 43,8 milioni nel 2016.

La forma più comune di demenza è il morbo di Alzheimer, che rappresenta il 60-70% di tutti i casi. Con l’invecchiamento della popolazione, la prevalenza del morbo di Alzheimer e di altre forme di demenza dovrebbe continuare ad aumentare.

Attualmente, una volta che i sintomi si manifestano, non si possono invertire.

Con tali presupposti, i ricercatori stanno esplorando modi per diagnosticare la condizione anni o, addirittura decenni prima, che si sviluppi. Lo scopo è di trovare farmaci per prevenire il suo progresso.

Un promettente biomarcatore dell’Alzheimer, è una molecola che circola nel sangue, nota come dimetilarginina simmetrica (SDMA).

Inibendo un enzima chiamato ossido nitrico sintasi (NOS – neuronale, endoteliale e inducibile), l’SDMA riduce la quantità di ossido nitrico sintetizzato dalle cellule endoteliali che allineano i vasi sanguigni.

Il ruolo dell’ossido nitrico è quello di dilatare i vasi sanguigni, aumentando il flusso stesso. Quando i livelli sono anormalmente bassi, limita il flusso ai tessuti. Mancando il nutrimento ai vasi sanguigni, si scatena la risposta.

Demenza e declino cognitivo nella vecchiaia: l’importanza dell’intelligenza infantile

Bassi livelli di ossido di azoto sono legati allo sviluppo di aterosclerosi, malattie cardiovascolari e Alzheimer. Alcuni piccoli studi hanno anche trovato un legame tra le alte concentrazioni di SDMA e il declino cognitivo nelle persone anziane, tuttavia, nessuno di questi studi si è adeguato all’effetto della bassa intelligenza nell’infanzia, che rappresenta fino al 50% del declino cognitivo nella vecchiaia. La svolta arriva dai ricercatori dell’Università di Aberdeen e dell’Università di Oxford – Regno Unito e dalla Flinders University di Melbourne – Australia.

Analizzando i dati di tutti 63enni, che avevano fatto lo stesso test di abilità mentale nelle scuole scozzesi nel 1947, quando avevano 11 anni, hanno riscontrato un aspetto particolare: tra il 2000 e il 2004, 93 di loro hanno partecipato a un progetto di ricerca per studiare l’invecchiamento cognitivo e la salute.

Nel 2000 sono stati prelevati campioni di sangue e i partecipanti sono stati sottoposti a una serie di test cognitivi a intervalli regolari per i successivi 4 anni. Dopo aver adeguato i punteggi dei loro test d’intelligenza infantile, gli autori del nuovo studio hanno trovato un collegamento tra l’aumento delle concentrazioni di SDMA nel sangue e il calo delle prestazioni cognitive quattro anni dopo.

I ricercatori ora riportano questi risultati in uno studio pubblicato sull’International Journal of Geriatric Psychiatry.

Un segnale d’allarme?

Le scarse prestazioni cognitive tardive nella mezza età sono un fattore di rischio accertato per lo sviluppo della demenza.

Pertanto i risultati di questo studio suggeriscono che l’SDMA, un marcatore facilmente misurabile dell’aterosclerosi e del rischio cardiovascolare, potrebbe essere un indicatore precoce del declino cognitivo in età avanzata – ed eventualmente della demenza“, dice l’autore dello studio il Prof. Arduino Mangoni, responsabile della farmacologia clinica presso la Flinders University.

Tuttavia, l’analisi condotta, spiega che i partecipanti sono troppo pochi per trarre conclusioni definitive.

Dovremmo essere cauti nell’enfatizzare i risultati con gli esiti dei 93 partecipanti“. Aggiunge l’autore principale, la Dottoressa Deborah Malden, del Nuffield Department of Population Health dell’Università di Oxford. “Ne sapremmo molto di più dopo aver ripetuto questo studio in una coorte su larga scala; ovvero – potenzialmente – su decine di migliaia d’individui“.

La ricerca futura potrebbe includere informazioni genetiche sui partecipanti e comportare misurazioni ripetute dell’SDMA a intervalli regolari, piuttosto che la singola analisi utilizzata in questo studio. Idealmente, ci sarebbe anche una proposta di ricerca con i partecipanti per più di 4 anni.

Inoltre, la presente indagine non potrebbe escludere la possibilità di una causalità inversa. In altre parole, gli individui affetti da demenza precoce potrebbero aver modificato il loro comportamento, che a sua volta potrebbe aver influito sui loro livelli di SDMA.

Percorso condiviso

Se le ricerche future confermeranno i risultati di questo studio preliminare, tuttavia, i farmaci esistenti potrebbero essere utilizzati come trattamenti preventivi.
Gli studiosi scrivono: “È importante notare che le concentrazioni di SDMA possono essere modulate con interventi farmacologici, e quindi l’SDMA può rivelarsi preziosa come strategia di prevenzione futura per la demenza e il [morbo di Alzheimer]. Sono affascinanti gli studi precedenti che suggeriscono come alti livelli di SDMA nel sangue sono un fattore comune nello sviluppo di una vasta gamma di malattie”.

Alte concentrazioni sono legate al diabete di tipo 2, alla BroncoPneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) e alla depressione, così come alle malattie cardiovascolari e alla demenza.

Questo suggerisce che un singolo farmaco potrebbe aiutare ad affrontare la vasta gamma di condizioni mediche che si sviluppano da questa via metabolica condivisa.

Fonte: https://www.medicalnewstoday.com/articles/molecule-in-blood-linked-to-cognitive-decline-in-old-age#The-importance-of-childhood-intelligence

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