mercoledì, Maggio 14, 2025
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UFO 1957: La Roswell Britannica – Il disco di Silpho

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Tre uomini a bordo di un’auto di notte, nella brughiera di Silpho Moor vicino Scarborough, nel Regno Unito, videro un oggetto luminoso, un UFO, schiantarsi a terra.

Scesi dall’auto, trovarono quello che appariva come un disco volante di 45 cm di diametro appena precipitato. “Un vero UFO”, come scrissero i giornali a caratteri cubitali.

Il villaggio di Silpho è diventato un punto focale per un esercito di cacciatori di oggetti non identificati e investigatori paranormali alla ricerca di prove definitive della presenza aliena sulla Terra.

Sono trascorsi 50 anni da quando il misterioso oggetto è stato trovato fumante tra i cespugli vicino al villaggio del North Yorkshire e gli esperti di UFO sperano ancora di riuscire a rispondere alla domanda se la scoperta fosse una prova di contatto o solo un complicato scherzo.

Il British Flying Saucer Bureau, che è stato istituito oltre mezzo secolo fa, ha condotto le indagini per stabilire se il disco di Silpho provenisse dallo spazio. Russ Kellett,  che ha svolto ricerche per oltre dieci anni ha raccontato: “Questo è davvero uno degli X Files originali, ed è l’equivalente britannico dell’incidente di Roswell in America (dove un UFO è stato presumibilmente trovato nel New Mexico nel luglio 1947).”

Il caso Silpho venne alla luce dopo che lo Yorkshire Post pubblicò un articolo il 9 dicembre 1957, con il titolo “Lo Yorkshire ha un disco volante? Oggetto misterioso trovato sulle brughiere di Scarborough“. Poco più di due settimane prima, la sera del 21 novembre 1957, nella brughiera tra i villaggi di Silpho e Hackness era stato trovato un disco metallico da 18 pollici del peso di 35 libbre. Una volta aperto, al suo interno furono rinvenuti 17 sottili fogli di rame incisi con un lungo messaggio in caratteri geroglifici.

Con il passare del tempo il mistero sull’oggetto finì per infittirsi, vennero fuori delle voci, il disco pare fosse stato venduto e perduto per sempre. Harry Challenger è l’editore della Flying Saucer Review, fondata nel 1955 che è la più antica pubblicazione in lingua inglese del suo genere. Challenger ha dichiarato: “Il disco di Silpho, come l’incidente di Roswell, sembra essere un segnale o una chiamata, anche se non possiamo essere certi da parte di chi provenga.”

L’enigma, però, dopo mezzo secolo pare sciogliersi come neve al sole, alcuni frammenti metallici dell’oggetto sono stati ritrovati, dopo 50 anni di oblio, negli archivi del London Science Museum. Insomma, si trattava di una bufala, effettivamente la versione inglese di Roswell. Ma a tre settimane dal lancio dello Sputnik, il primo satellite mandato in orbita attorno alla Terra, la burla funzionò.

Il fondo di rame del disco era ricoperto di geroglifici, come il suo analogo statunitense di un decennio prima. Anche il piccolo libro nascosto al suo interno era colmo di geroglifici, nei quali un negoziante di Scarborough disse di aver decifrato il messaggio di un alieno di nome Ullo all’umanità, a proposito di una futura guerra atomica: “Migliorerete o sparirete“.

Gli esperti di metallurgia e altri scienziati che esaminarono l’oggetto decretarono fin da subito che il materiale non aveva proprietà particolari, né aveva mai varcato l’atmosfera terrestre. Il disco fu comunque sezionato in varie parti e spedito a più ricercatori per essere studiato.

Alcune parti furono poste in una scatola e conservate nel London Science Museum, dove un addetto le ritrovò mentre conduceva ricerche sullo storico dell’aviazione Charles Harvard Gibbs-Smith, un convinto sostenitore di avvistamenti alieni.

I frammenti sono proprio quelli autentici del famoso scherzo di oltre 60 anni fa come afferma David Clarke, docente della Sheffield Hallam University e consulente del National Archives UFO project del Ministero della Difesa britannico.

Peperoncini verdi dolci fritti al pomodoro e basilico

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I protagonisti di questa ricetta, tipica partenopea, sono i “friggitelli”, peperoncini verdi dolci di forma allungata e attorcigliata. L’unica nota dolente nella preparazione è che vanno prima fritti nell’olio bollente, quindi schizzano parecchio tutta la cucina! Si può però ovviare adoperando un paraspuzzi durante la cottura (una sorta di coperchio forato) che limita parecchio il problema. Un contorno dal gusto inimitabile, ricco, con cui si può condire anche la pasta nel formato preferito.

Peperoncini dolci fritti

Ingredienti per 4 – 5 persone

  • 1 kg e mezzo di friggitelli
  • 500 g di pomodorini ciliegino
  • 2 spicchi d’aglio.
  • Olio extravergine d’oliva
  • Olio di semi di arachide per friggere
  • Un abbondante mazzetto di basilico.
  • Sale q/b

Peperoncini verdi dolci fritti: preparazione

Prima di iniziare pulisci i peperoncini verdi dolci in questo modo: lavali sotto acqua corrente, togli il rametto legnoso alla base ma lascia intero il picciolo verde, che fa da “tappo” ai semini (gustosissimi, non vanno quindi eliminati). Ricorda che vanno asciugati il più possibile con uno strofinaccio o con carta assorbente da cucina, una precauzione ulteriore per limitare gli schizzi d’olio al momento della frittura.

In una larga padella (perfetta ad esempio questa, in vendita su Amazon) fai scaldare abbondante olio di semi di arachide, poi friggi i peperoncini verdi dolci pochi alla volta: saranno pronti quando esternamente avranno assunto una colorazione marroncina, ma occhio a non bruciarli! Scolali mano a mano su carta assorbente, spolverizzali con il sale e tienili da parte in una scodella.

Al termine elimina l’olio di semi rimasto e strofina la padella con carta assorbente per togliere l’eccesso d’unto (questo passaggio serve a mantenere più intenso all’interno il sapore dei peperoncini). Ora aggiungi nel tegame una dose generosa di olio extravergine d’oliva, dove farai imbiondire a fuoco medio i due spicchi d’aglio privati della pellicina esterna e schiacciati. Versa nel soffritto i pomodorini ciliegino lavati e tagliati a metà, mescola e fai cuocere a fiamma moderata per circa 5 minuti.

Lava e spezzetta il basilico grossolanamente con le mani, uniscilo al sugo, mescola e lascia cuocere il tutto a fiamma medio – alta per non più di 10 minuti, in modo che mantenga il sapore di “fresco”.  I peperoncini dolci vanno aggiunti negli ultimi due minuti, rimescolando ancora in modo che si impregnino bene nel sugo, poi spegni il fuoco e servili in tavola come contorno, oppure come condimento per la pasta nel formato che preferisci, insieme ad abbondante parmigiano grattugiato.

Tutto il gusto partenopeo dei peperoncini verdi dolci

In campania vengono chiamati in dialetto “puparunciell ‘e ciumm“, ovvero peperoncini di fiume, visto che crescono rigogliosamente lungo i canali campani utilizzati per irrigare gli orti. Ottimi anche per farcire un panino, o aggiunti a una fresca insalata di pasta in estate insieme a mozzarella tagliata a cubetti.

I peperoncini verdi dolci al pomodoro, insomma, sono un contorno ricco e gustoso da provare, meglio ancora se accompagnato da un bicchiere di buon vino. Ma quale accostare a questo piatto? Ottimo un bianco di carattere, come il Vermentino di Toscana. Perfetto l’abbinamento anche con il Lambrusco di Sorbara frizzante, o un buon Grignolino d’Asti.

Come le analogie matematiche possono fare luce sulla realtà

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La matematica, in qualche modo, può essere paragonata alla letteratura. Ha le sue definizioni e le sue regole grammaticali – sebbene, sfortunatamente, queste siano la rovina per le vite di molti studenti. Ed è un vero peccato, perché quando il linguaggio matematico è usato con eleganza e chiarezza, può aiutare il lettore a vedere le cose secondo delle prospettive completamente nuove. Si considerino per esempio le analogie. In letteratura le analogie hanno un potere enorme – chi non rimane emozionato di fronte a una metafora ben mirata? Anche nel campo della fisica matematica le analogie svolgono un ruolo fondamentale.

La costruzione di analogie fisiche è un processo fondamentale della fisica, perché aiuta i fisici a immaginare nuovi fenomeni. Si utilizza ancora l’espressione “fluido” di una “corrente” elettrica, utilizzando la metafora del liquido coniata dai fisici ancora prima della scoperta degli elettroni. Così come, il vecchio concetto dell’”etere” – un ipotetico mezzo di trasmissione della luce simile all’acqua o all’aria – ormai è da tanto tempo superato. Le analogie fisiche possono essere molto creative e utili, ma qualche volta possono anche condurre fuori strada.

Lo stesso discorso vale per le analogie matematiche applicate alla realtà fisica e per l’interazione tra le analogie matematiche e quelle fisiche. Un’analogia che ha incuriosito matematici e fisici per un secolo, e che rimane ancora un argomento di discussione, è quella tra le equazioni della gravità di Einstein e le equazioni dell’elettromagnetismo di Maxwell. L’interazione tra questi due sistemi di equazioni ha portato a un nuovo campo di ricerca – il gravito-elettromagnetismo – e, di conseguenza, alla previsione di una nuova forza, gravito-magnetica.

L’idea di mettere in relazione la gravità e l’elettromagnetismo – due tipologie di fenomeni completamente diversi – ha avuto origine dall’analogia matematica tra le equazioni della gravità di Newton e le leggi dell’elettrostatica di Coulomb. In entrambe le equazioni vie è una dipendenza dall’inverso del quadrato di una distanza.

Nel 1913, Einstein iniziò a maturare un’idea più complessa, relativa alla possibile analogia tra la gravitazione relativistica e l’induzione elettromagnetica – un’idea che fu successivamente sviluppata da Josef Lense e Hans Thirring nel 1918. Per elaborare i loro calcoli i due scienziati utilizzarono la forma finale della teoria della relatività generale di Einstein, che era stata pubblicata nel 1916.

Oggi, il cosiddetto gravito-elettromagnetismo, o GEM, viene studiato, da un punto di vista matematico, attraverso l’approssimazione di campo debole alle equazioni della relatività generale; si tratta di una forma più semplice delle equazioni che sembra funzionare bene nei campi deboli, come quello terrestre.

Si è scoperto che la matematica dei campi deboli include delle quantità che soddisfano equazioni che assomigliano tanto alle equazioni di Maxwell. La componente gravito-elettrica può essere benissimo identificata con la forza di attrazione gravitazionale di Newton che ci tiene ancorati a terra. La componente gravito-magnetica, invece, sembra essere qualcosa di ancora sconosciuto – una nuova forza apparentemente dovuta alla rotazione della terra (o di qualunque altra massa di grandi dimensioni).

Questa situazione è analoga a quella in cui un elettrone, ruotando su se stesso, genera un campo magnetico per effetto della induzione magnetica, eccetto che da un punto di vista matematico.

Un oggetto di grandi dimensioni che ruota su se stesso induce un trascinamento dello stesso spazio-tempo – come se lo spazio-tempo si comportasse come un fluido che viene trascinato attorno a una palla in rotazione (il primo a individuare questo trascinamento è stato Einstein, come conseguenza della relatività generale elaborata da Lense e Thirring).

Ma fino a che punto è possibile spingersi con queste analogie matematiche? Può considerarsi reale la gravito-induzione magnetica?

Se così fosse, dovrebbe apparire come una piccola oscillazione nell’orbita dei satelliti, e – grazie anche all’effetto geodetico, la curvatura dello spazio-tempo dovuta alla presenza della materia – come una variazione nella direzione dell’asse di un giroscopio orbitante (Quest’ultima situazione è assimilabile al modo in cui un campo magnetico generato da una corrente elettrica modifica l’orientamento di un dipolo magnetico).

Quindi, dopo un secolo di speculazioni, ecco che le risposte stanno venendo a galla. I risultati che provengono da diverse, e indipendenti, missioni satellitari – fra tutte ricordiamo il Gravity Probe B, LAGEOS, LARES, GRACEhanno confermato gli effetti della geodetica terrestre e del trascinamento con vari gradi di precisione. Per quanto riguarda il trascinamento, la migliore compatibilità con la teoria della relatività generale è stata dello 0,2% con un’accuratezza del 5%, ma gli astronomi si aspettano che il satellite LARES 2, lanciato lo scorso anno, fornisca dei dati con un’accuratezza dello 0,2%.

Con risultati più accurati è possibile effettuare dei test più precisi sulla relatività generale, ma gli astrofisici hanno già fatto proprio il gravito-magnetismo. Per esempio, esso suggerisce un meccanismo per spiegare i misteriosi getti di gas che sono stati osservati fuoriuscire dalle stelle quasar e dai nuclei galattici attivi. Buchi neri ruotanti di grandi dimensioni, nel cuore di queste centrali elettriche cosmiche, produrrebbero enormi effetti sia di trascinamento che geodetici. Il risultante campo gravito-magnetico, analogo al campo magnetico che circonda i due poli di un magnete, spiegherebbe l’allineamento di questi getti con l’asse di rotazione nord-sud della sorgente.

Fare delle analogie è comunque complicato, e ci sono alcune anomalie interpretative che devono essere svelate. Per fare un esempio, rimangono in sospeso delle domande sul significato di termini simili come densità di energia e densità di corrente di energia gravitazionali. Le cose forse sono ancora più problematiche – o più interessanti – da un punto di vista matematico.

Per esempio, vi è un’altra analogia puramente matematica tra le equazioni di Einstein e quelle di Maxwell, che dà origine a un’analogia molto diversa dalle equazioni del gravito-elettromagnetismo.

L’esistenza di due (o anche più di due) analogie matematiche così differenti tra le equazioni di questi due fenomeni fisici porta fortemente a pensare all’esistenza di una connessione più profonda. A oggi, comunque, vi sono delle apparenti inconsistenze fisiche tra le componenti elettrica e magnetica in ogni approccio matematico.

Inoltre, le analogie formali aiutano i matematici a trovare, in maniera intuitiva, delle strade semplici per ragionare sulle equazioni della relatività generale. E vi è sempre l’allettante possibilità che questo approccio si dimostrerà fisicamente consistente come la previsione del gravito-magnetismo.

Fonte: Cosmos

Osservato un raro tipo di quartetto formato da “top quark”

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Il Large Hadron Collider ha “dato vita” a un aggregato di quattro particelle ultra-pesanti, chiamate top quark.

Il large Hadron Collider (LHC) o “Grande Collisore di Adroni” è il più grande acceleratore di particelle del mondo, situato presso il CERN di Ginevra in Svizzera, viene utilizzato per ricerche sperimentali nel campo della fisica delle particelle.

Il LHC sviluppa una energia di circa 14 teraelettronvolt, è stato realizzato all’interno di un tunnel sotterraneo alla profondità di 100 metri e ha una circonferenza di circa 27 km. Si trova nello stesso tunnel realizzato in precedenza per l’acceleratore LEP.

La macchina accelera due fasci che circolano in direzioni opposte, all’interno di tubi a vuoto. I fasci collidono in quattro punti lungo il percorso, dove il tunnel si allarga per lasciare spazio a grandi caverne che ospitano i rivelatori. I quattro principali rivelatori di particelle sono ATLAS, di forma toroidale, il Solenoide compatto per muoni, LHCb, e ALICE, un collisore di ioni.

I rivelatori utilizzano tecnologie diverse e operano intorno al punto in cui i fasci entrano in collisione. Nelle collisioni vengono prodotte un grande numero di particelle, le cui proprietà vengono misurate dai rivelatori e inviate al centro di calcolo. Tra gli scopi principali degli studi vi è la ricerca di tracce dell’esistenza di nuove particelle che potrebbero essere il segno di una nuova fisica.

Proprio l’insieme di particelle ultra-pesanti scoperte da LHC è stata a lungo predetta dal Modello Standard, la teoria fisica che descrive tre delle quattro interazioni fondamentali note: le interazioni forte, elettromagnetica e debole (le ultime due unificate nell’interazione elettro-debole) e tutte le particelle elementari ad esse collegate.

Tuttavia le nuove teorie della fisica suggeriscono che le particelle elementari potrebbero essere create molto più spesso di quanto previsto dal Modello standard. Il primo passo per testare nuove teorie è quello di trovare molti altri quartetti di quark top. I risultati sono stati annunciati alla conferenza LHCP 2020.

I primi quark top sono stati creati in numero enorme durante i primi istanti dopo il Big Bang, hanno una vita molto breve, pari a circa un trilionesimo di trilionesimo di secondo.

Secondo uno studio pubblicato nel 2019 sulla rivista Physical Review D i quark top sono i più pesanti conosciuti tra le particelle subatomiche fondamentali. Il quark top scoperto nel 1995 dagli esperimenti CDF e DØ al laboratorio Fermilab Tevatron a Chicago, negli USA è grosso modo pesante quanto un atomo d’oro. Tuttavia, ogni quark top è molto più piccolo di un protone, il che significa che non solo i quark top detengono il record per le particelle più pesanti, ma sono anche la forma di materia più densa conosciuta. All’epoca venivano prodotte poche rare coppie di particelle.

Oggi i quark top possono essere prodotti e osservati negli acceleratori di particelle come LHC che grazie a una maggiore energia e al più alto tasso di collisione rispetto al Tevatron del Fermilab crea coppie di quark top circa una volta al secondo.

Nei recenti esperimenti, i ricercatori stavano cercando la produzione simultanea di due serie di coppie di quark / antiquark top. Secondo il team ATLAS il modello standard prevede che queste collisioni più complesse dovrebbero verificarsi circa 70.000 volte meno frequentemente delle collisioni che creano una singola coppia. Quando si cercano nuove particelle, è importante sapere quanto è probabile che il numero di collisioni osservato si sia verificato per caso, che può essere quantificato dal “sigma” di un risultato.

Nella fisica delle particelle, il gold standard per dichiarare una scoperta è un sigma di 5 o superiore, il che significa che c’è circa 1 su 3,5 milioni di probabilità che l’osservazione attuale si sia verificata a causa di fluttuazioni casuali. Un sigma di 3 significa che il segnale osservato dovrebbe accadere per caso in 1 su 740 esperimenti, ed è considerato “prova” di un’osservazione, secondo Fermilab. Le prove per la produzione di quartetti di top-quark non sono ancora abbastanza forti da rivendicare una nuova scoperta.

I fisici hanno cercato i quartetti di quark top nei dati raccolti da ATLAS e CMS tra il 2015 e il 2018. Il team dell’esperimento ATLAS ha annunciato di aver osservato la produzione di quattro quark top con un sigma di 4.3. Nel frattempo, in un articolo pubblicato sull’European Physical Journal C, i ricercatori dell’esperimento CMS hanno riportato un sigma osservato di soli 2,6 per i loro quartetto di quark top. Prima di condurre l’esperimento, sia ATLAS che CMS si aspettavano un sigma di circa 2,6 sigma.

L’alto sigma visto da ATLAS potrebbe essere una semplice possibilità. Oppure, potrebbe essere un’indicazione che la produzione di quattro top quark è più comune delle previsioni del Modello standard, il che potrebbe significare che questa misurazione è il primo suggerimento di una fisica nuova e inaspettata. “Ulteriori dati della prossima serie di LHC – insieme a ulteriori sviluppi delle tecniche di analisi impiegate – miglioreranno la precisione di questa misurazione stimolante“, hanno affermato i ricercatori in una nota.

L’LHC è stato temporaneamente chiuso dalla fine del 2018 per lavori di ristrutturazione, aggiornamento e manutenzione. Si prevede che riprenderà a funzionare nel 2021, anche se non è chiaro quanto la pandemia di COVID-19 influenzerà il programma.

Fonte: Live Science

MIT: scoperta una strana particella ibrida

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I fisici del MIT hanno rilevato un tipo di particella ibrida in un insolito materiale magnetico bidimensionale. Hanno determinato che la particella ibrida è un mashup di un elettrone e un fonone (una quasiparticella prodotta dagli atomi vibranti di un materiale).

Quando hanno misurato la forza tra l’elettrone e il fonone, hanno scoperto che la colla, o legame, era 10 volte più forte di qualsiasi altro ibrido elettrone-fonone conosciuto fino ad oggi.

La scoperta potrebbe offrire un percorso verso dispositivi elettronici più piccoli e veloci

L’eccezionale legame della particella suggerisce che il suo elettrone e fonone potrebbero essere sintonizzati in tandem; per esempio, qualsiasi modifica all’elettrone dovrebbe influenzare il fonone e viceversa. In linea di principio, un’eccitazione elettronica, come la tensione o la luce, applicata alla particella ibrida potrebbe stimolare l’elettrone come farebbe normalmente e influenzare anche il fonone, che influenza le proprietà strutturali o magnetiche di un materiale. Tale doppio controllo potrebbe consentire agli scienziati di applicare tensione o luce a un materiale per ottimizzare non solo le sue proprietà elettriche ma anche il suo magnetismo.

I risultati sono particolarmente rilevanti, poiché il team ha identificato la particella ibrida nel trisolfuro di nichel fosforo (NiPS 3), un materiale bidimensionale che ha recentemente attirato l’interesse per le sue proprietà magnetiche. Se queste proprietà potessero essere manipolate, ad esempio attraverso le particelle ibride appena rilevate, gli scienziati ritengono che un giorno il materiale potrebbe essere utile come un nuovo tipo di semiconduttore magnetico, che potrebbe essere trasformato in un’elettronica più piccola, più veloce e più efficiente dal punto di vista energetico.

“Immagina di poter stimolare un elettrone e fare in modo che il magnetismo risponda”, ha affermato Nuh Gedik, professore di fisica al MIT. “Quindi potresti creare dispositivi molto più avanzati rispetto ad oggi”.

Gedik e i suoi colleghi hanno pubblicato i loro risultati sulla rivista Nature Communications.

Fogli di particelle

Il campo della moderna fisica della materia condensata è focalizzato, in parte, sulla ricerca di interazioni nella materia su scala nanometrica. Tali interazioni, tra atomi, elettroni e altre particelle subatomiche di un materiale, possono portare a risultati sorprendenti, come la superconduttività e altri fenomeni esotici. I fisici cercano queste interazioni condensando sostanze chimiche sulle superfici per sintetizzare fogli di materiali bidimensionali, che potrebbero essere sottili come uno strato atomico.

Nel 2018, un gruppo di ricerca in Corea ha scoperto alcune interazioni inaspettate nei fogli sintetizzati di NiPS 3, un materiale bidimensionale che diventa un antiferromagnete a temperature molto basse di circa 150 kelvin, o -123 gradi Celsius. La microstruttura di un antiferromagnete ricorda un reticolo a nido d’ape di atomi i cui spin sono opposti a quello del loro vicino. Al contrario, un materiale ferromagnetico è costituito da atomi con spin allineati nella stessa direzione.

Sondando NiPS 3, quel gruppo ha scoperto che un’eccitazione esotica è diventata visibile quando il materiale è stato raffreddato al di sotto della sua transizione antiferromagnetica, sebbene l’esatta natura delle interazioni responsabili di ciò non fosse chiara. Un altro gruppo ha trovato segni di una particella ibrida, ma anche i suoi costituenti esatti e la sua relazione con questa eccitazione esotica non erano chiari.

Gedik e i suoi colleghi si sono chiesti se avrebbero potuto rilevare la particella ibrida e stuzzicare le due particelle che compongono il tutto, catturando i loro movimenti caratteristici con un laser super veloce.

Magneticamente visibile

Normalmente, il movimento degli elettroni e di altre particelle subatomiche è troppo veloce per essere ripreso, anche con la fotocamera più veloce del mondo. La sfida, sostiene Gedik, è simile a quella di scattare una foto di una persona che corre. L’immagine risultante è sfocata perché l’otturatore della fotocamera, che lascia entrare la luce per catturare l’immagine, non è abbastanza veloce e la persona sta ancora correndo nell’inquadratura prima che l’otturatore possa scattare una foto nitida.

Per aggirare questo problema, il team ha utilizzato un laser ultraveloce che emette impulsi luminosi della durata di soli 25 femtosecondi (un femtosecondo è 1 milionesimo di 1 miliardesimo di secondo). Hanno diviso l’impulso laser in due impulsi separati e li hanno puntati su un campione di NiPS 3. I due impulsi sono stati impostati con un leggero ritardo l’uno dall’altro in modo che il primo stimolasse, o “scalciasse”, il campione, mentre il secondo catturava la risposta del campione, con una risoluzione temporale di 25 femtosecondi. In questo modo, sono stati in grado di creare “filmati” ultraveloci da cui si potevano dedurre le interazioni di diverse particelle all’interno del materiale.

In particolare, hanno misurato l’esatta quantità di luce riflessa dal campione in funzione del tempo tra i due impulsi. Questa riflessione dovrebbe cambiare in un certo modo se sono presenti particelle ibride. Questo si è verificato quando il campione è stato raffreddato al di sotto di 150 kelvin, quando il materiale diventa antiferromagnetico.

“Abbiamo scoperto che questa particella ibrida era visibile solo al di sotto di una certa temperatura, quando il magnetismo è attivo”, ha affermato Ergeçen.

Per identificare i costituenti specifici della particella, il team ha variato il colore, o frequenza, del primo laser e ha scoperto che la particella ibrida era visibile quando la frequenza della luce riflessa era attorno a un particolare tipo di transizione nota per verificarsi quando un elettrone si muove tra due orbitali d.

Hanno anche esaminato la spaziatura del pattern periodico visibile all’interno dello spettro della luce riflessa e hanno scoperto che corrispondeva all’energia di un tipo specifico di fonone. Ciò ha chiarito che la particella ibrida è costituita da eccitazioni di elettroni orbitali d e questo fonone specifico.

Hanno eseguito ulteriori modelli in base alle loro misurazioni e hanno scoperto che la forza che lega l’elettrone al fonone è circa 10 volte più forte di quella stimata in altri noti ibridi elettrone-fonone.

“Un potenziale modo per sfruttare questa particella ibrida è che potrebbe consentire di accoppiarsi a uno dei componenti e sintonizzare indirettamente l’altro”, ha affermato Ilyas.

“In questo modo, potresti modificare le proprietà di un materiale, come lo stato magnetico del sistema”.

Regno Unito-Giappone: accordo per sviluppare motore per jet da combattimento di sesta generazione

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I governi del Giappone e del Regno Unito si sono uniti per collaborare e sviluppare il motore a reazione dell’aereo da combattimento di sesta generazione e hanno firmato un memorandum di cooperazione in tal senso, si legge in un comunicato stampa del governo britannico.

Regno Unito e Giappone stanno cercando di contrastare la crescente influenza della Cina

I due paesi stanno esplorando da tempo opportunità di collaborazione e sono investiti nello sviluppo di futuri sistemi aerei da combattimento, afferma il comunicato stampa.

All’inizio di quest’anno, la più recente portaerei del Regno Unito, la HMS Queen Elizabeth, ha intrapreso il suo viaggio inaugurale che includeva un viaggio in Giappone. Il Regno Unito intende approfondire le relazioni industriali nel settore della difesa nella regione indo-pacifica, dove i due paesi stanno cercando di contrastare la crescente influenza della Cina.

Sia il Regno Unito che il Giappone hanno attualmente in corso i loro programmi di caccia di sesta generazione, ha riferito Defense News. L’aereo proposto dal Giappone, designato FX, inizierà a sostituire i formidabili F-2 nell’aeronautica giapponese a metà degli anni ’30. All’inizio di quest’anno, abbiamo riferito che un consorzio di società aveva unito le forze per fornire gli aerei di sei generazioni del Regno Unito e i sistemi associati.

La firma dell’accordo consentirà ai due paesi di sviluppare congiuntamente il motore per questi velivoli. Sebbene firmato dai governi, il lavoro sarà lasciato dalle industrie delle due nazioni, come Rolls Royce e BAE Systems nel Regno Unito e Mitsubishi Heavy Industries (MHI) e IHI in Giappone. Gli F-2 saranno costruiti da Mitsubishi mentre fino al 70 percento dei motori degli aerei utilizzati in Giappone provengono da IHI, secondo quanto riportato da Defense News.

“Progettare un nuovissimo sistema aereo da combattimento con al centro un aereo da combattimento è un progetto molto ambizioso, quindi lavorare con nazioni che la pensano allo stesso modo è vitale”, ha affermato Ben Wallace, Segretario alla Difesa per il Regno Unito.

“Costruiremo sui punti di forza tecnologici e industriali dei nostri due paesi, esploreremo una partnership ad ampio raggio tra le tecnologie aeree da combattimento di prossima generazione”.

Secondo il comunicato stampa, il Ministero della Difesa del Regno Unito aiuterà anche il Giappone nella consegna del loro programma Joint New Air-to-Air Missile (JNAAM).

Il Regno Unito prevede di investire 40,24 milioni di dollari (30 milioni di sterline) in pianificazione, design digitale e innovazioni nella produzione nelle fasi iniziali del progetto, seguiti da altri 268,26 milioni di dollari (200 milioni di sterline) per la costruzione del dimostratore. Nei prossimi quattro anni, prevede di investire oltre 2,68 miliardi di dollari (2 miliardi di sterline) nello sviluppo del Future Combat Air System (FCAS), leader mondiale, afferma il comunicato stampa.

La fisica oceanica spiega gli incredibili cicloni su Giove

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A sfrecciare intorno a Giove e alle sue 79 lune c’è la navicella spaziale Juno, un satellite della NASA che invia le immagini del pianeta più grande del nostro sistema solare ai ricercatori sulla Terra.

Le immagini dei cicloni polari su Giove consentono agli scienziati di studiare le forze che li guidano

Queste fotografie hanno fornito agli oceanografi materiale di prima mano per un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature Physics che descrive la ricca turbolenza ai poli di Giove e le forze fisiche che guidano i grandi cicloni.

L’autrice principale Lia Siegelman, oceanografa fisica e studiosa post-dottorato presso la Scripps Institution of Oceanography dell’Università della California a San Diego, ha deciso di proseguire la ricerca dopo aver notato che i cicloni al polo di Giove sembrano condividere somiglianze con i vortici oceanici che ha studiato durante il suo periodo come studentessa di dottorato. Utilizzando una serie di queste immagini e principi utilizzati nella fluidodinamica geofisica, Siegelman e colleghi hanno fornito prove di un’ipotesi di lunga data che la convezione umida – quando si alza aria più calda e meno densa – guida questi cicloni.

“Quando ho visto la ricchezza della turbolenza attorno ai cicloni gioviani con tutti i filamenti e i vortici più piccoli, mi ha ricordato la turbolenza che si vede nell’oceano attorno ai vortici”, ha detto Siegelman. “Questi sono particolarmente evidenti sulle immagini satellitari ad alta risoluzione delle fioriture di plancton, ad esempio”.

Siegelman afferma che la comprensione del sistema energetico di Giove, una scala molto più grande di quella terrestre, potrebbe anche aiutarci a comprendere i meccanismi fisici in gioco sul nostro pianeta, evidenziando alcune rotte energetiche che potrebbero esistere anche sulla Terra.

“Essere in grado di studiare un pianeta così lontano e trovare la fisica che si applica lì è affascinante”, ha detto. “Si pone la domanda, questi processi valgono anche per il nostro punto blu?”

Juno è la prima navicella spaziale a catturare immagini dei poli di Giove; i satelliti precedenti orbitavano attorno alla regione equatoriale del pianeta, fornendo vedute della famosa Macchia Rossa del pianeta.

Juno è dotato di due sistemi di telecamere, uno per le immagini in luce visibile e un altro che cattura le firme di calore utilizzando il Jovian Infrared Auroral Mapper (JIRAM), uno strumento sulla navicella spaziale Juno supportato dall’Agenzia Spaziale Italiana.

Siegelman e colleghi hanno analizzato una serie di immagini a infrarossi che hanno catturato la regione polare nord di Giove, e in particolare l’ammasso di vortici polari. Dalle immagini, i ricercatori potrebbero calcolare la velocità e la direzione del vento monitorando il movimento delle nuvole tra le immagini.

Successivamente, il team ha interpretato le immagini a infrarossi in termini di spessore delle nuvole. Le regioni calde corrispondono a nuvole sottili, dove è possibile vedere più in profondità nell’atmosfera di Giove. Le regioni fredde rappresentano una fitta copertura nuvolosa, che ricopre l’atmosfera di Giove.

Questi risultati hanno fornito ai ricercatori indizi sull’energia del sistema. Poiché le nuvole gioviane si formano quando l’aria più calda e meno densa sale, i ricercatori hanno scoperto che l’aria che sale rapidamente all’interno delle nuvole agisce come una fonte di energia che alimenta scale più grandi fino ai grandi cicloni circumpolari e polari.

Giunone è arrivata per la prima volta al sistema gioviano nel 2016, fornendo agli scienziati il ​​primo sguardo a questi grandi cicloni polari, che hanno un raggio di circa 1.000 chilometri o 620 miglia. Ci sono otto di questi cicloni che si verificano al polo nord di Giove e cinque al suo polo sud. Queste tempeste sono presenti da quella prima vista cinque anni fa. Gli scienziati non sono sicuri di come abbiano avuto origine o per quanto tempo abbiano circolato, ma ora sanno che la convezione umida è ciò che li sostiene. I ricercatori hanno ipotizzato per la prima volta questo trasferimento di energia dopo aver osservato i fulmini nelle tempeste su Giove.

Giunone continuerà a orbitare attorno a Giove fino al 2025, fornendo ai ricercatori e al pubblico nuove immagini del pianeta e del suo vasto sistema lunare.

Uomo riceve trapianto con un cuore di maiale geneticamente modificato

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Negli Stati Uniti, un uomo statunitense è diventato la prima persona al mondo a ricevere un trapianto di cuore da un maiale geneticamente modificato.

David Bennett, 57 anni, sta bene tre giorni dopo l’intervento chirurgico sperimentale durato sette ore, dicono i medici.

Il trapianto è stato considerato l’ultima speranza di salvare la vita del signor Bennett, anche se non è ancora chiaro quali siano le sue possibilità di sopravvivenza a lungo termine.

O morire o fare questo trapianto“, ha spiegato il signor Bennett un giorno prima dell’intervento.

So che è un salto nel buio, ma è la mia ultima scelta“, ha detto.

Ai medici dell’University of Maryland Medical Center è stata concessa una dispensa speciale dall’autorità medica statunitense per eseguire la procedura, sulla base del fatto che il signor Bennett – affetto da una malattia cardiaca terminale – sarebbe altrimenti morto. Il paziente era stato ritenuto non idoneo per un trapianto di cuore umano, una decisione che spesso viene presa dai medici quando il paziente è in pessime condizioni di salute.

Il maiale utilizzato nel trapianto era stato geneticamente modificato per eliminare diversi geni che avrebbero portato al rigetto dell’organo dal corpo del signor Bennett, riporta l’agenzia di stampa AFP.

Per l’équipe medica che ha effettuato il trapianto, questo intervento segna il culmine di anni di ricerca e potrebbe annunciare una rivoluzione nella scienza dei trapianti. Il chirurgo Bartley Griffith ha affermato che questo intervento chirurgico potrebbe costituire “un passo avanti verso la soluzione della crisi della carenza di organi da trapiantare“. Attualmente 17 persone muoiono ogni giorno solo negli Stati Uniti in attesa di un trapianto, con più di 100.000 in lista d’attesa.

La dottoressa Christine Lau, presidente del Dipartimento di Chirurgia presso la University of Maryland School of Medicine, era in sala operatoria durante l’intervento chirurgico. “Si tratta di un paziente più a rischio perché servirà una maggiore immunosoppressione, leggermente diversa da quella che faremmo normalmente in un trapianto da uomo a uomo. Quanto bene il paziente starà da ora non possiamo dirlo perché questo tipo di intervento non è mai stato fatto prima“, ha dichiarato alla BBC.

“Ogni giorno muoiono persone iscritte alla lista d’attesa in attesa di organi a causa della carenza di donatori. Se potessimo usare organi di maiale geneticamente modificati non ci sarebbero più liste di attesa, praticamente ogni paziente potrebbe ottenere un organo quando ne ha bisogno”.

La possibilità di utilizzare organi animali per i cosiddetti xenotrapianti per soddisfare la domanda è stata a lungo considerata e l’utilizzo di valvole cardiache di maiale è già comune .

Nell’ottobre 2021, i chirurghi di New York hanno annunciato di aver trapiantato con successo il rene di un maiale in una persona. All’epoca, l’operazione era l’esperimento più avanzato sul campo finora.

Tuttavia, il soggetto ricevente in quell’occasione era cerebralmente morto senza alcuna speranza di guarigione.

Un barlume di speranza insieme a enormi rischi

Questo momento spartiacque offre la speranza di una soluzione alla cronica carenza di donatori di organi umani. Ma c’è ancora molta strada da fare per determinare se dare alle persone organi animali sia la via da seguire. I cuori di maiale sono anatomicamente simili ai cuori umani ma, comprensibilmente, non identici. Non è l’ideale, rispetto allo scambio del cuore di un donatore umano. Ma è possibile inserirli e farli funzionare.

Il problema più grande è il rigetto dell’organo. Questi maiali sono allevati per non avere geni che possono causare rigetto. Vengono clonati con alcuni geni “eliminati” e allevati fino a raggiungere un’età in cui i loro organi sono abbastanza grandi da poter essere prelevati per il trapianto.

È troppo presto per sapere come se la caverà il signor Bennett con il suo cuore di maiale. I suoi medici sono stati chiari sul fatto che l’intervento chirurgico cui è stato sottoposto era un azzardo. I rischi sono enormi, ma lo sono anche i potenziali guadagni.

Bennett, tuttavia, spera comprensibilmente che il trapianto gli permetta di continuare la sua vita. È stato costretto a letto per sei settimane prima dell’intervento chirurgico e attaccato a una macchina che lo ha tenuto in vita dopo che gli è stata diagnosticata una malattia cardiaca terminale.

Non vedo l’ora di alzarmi dal letto dopo che mi sarò ripreso“, ha detto la scorsa settimana.

Lunedì, è stato riferito che il signor Bennett respirava da solo mentre veniva attentamente monitorato. Ma cosa accadrà dopo non è chiaro.

Il dottor Griffith ha detto che si sta procedendo con cautela tenendo sotto attento monitoraggio il signor Bennett, mentre suo figlio David Bennett Jr ha detto all’Associated Press che la famiglia è “nell’ignoto a questo punto“. Ma ha aggiunto che: “ci rendiamo conto della grandezza di ciò che è stato fatto e ne comprendiamo davvero l’importanza“.

“Non era mai stato fatto in un essere umano e mi piace pensare che gli abbiamo dato una speranza”, ha detto Griffith. “Ma se [vivrà per] un giorno, una settimana, un mese, un anno, non lo so“.

Trovati fossili di una nuova specie di pangolino in Europa

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Un’analisi più approfondita dei fossili di uno dei siti paleontologici più significativi dell’Europa orientale, ha portato alla scoperta di una nuova specie di pangolino, che in precedenza si pensava esistesse in Europa durante il Pleistocene inferiore ma la cui effettiva esistenza non era mai stata confermata fino ad ora.

Il pangolino più giovane

“Non è un fossile di fantasia”, ha detto Claire Terhune, professore associato di antropologia all’Università dell’Arkansas. “È solo un singolo osso, ma è una nuova specie di animale strano. Ne siamo orgogliosi perché la documentazione fossile di pangolini è estremamente scarsa. Questo è il pangolino più giovane mai scoperto in Europa e l’unico fossile di pangolino dell’Europa del Pleistocene.”

L’osso, un omero, o osso del braccio, proveniva da Grăunceanu, un ricco giacimento di fossili nella valle del fiume Olteţ in Romania. Per quasi un decennio, Terhune e un team internazionale di ricercatori hanno concentrato la loro attenzione su Grăunceanu e altri siti dell’Olteţ. Questi siti, inizialmente scoperti a causa delle frane negli anni ’60, hanno prodotto fossili di un’ampia varietà di specie animali, tra cui una grande scimmia terrestre, una giraffa dal collo corto, rinoceronti e gatti dai denti a sciabola, oltre alle nuove specie di pangolino.

“Ciò che è particolarmente eccitante è che, sebbene alcuni lavori negli anni ’30 suggerissero la presenza di pangolini in Europa durante il Pleistocene, quei fossili erano andati perduti, e altri ricercatori dubitano della loro validità”, ha detto Terhune. “Ora sappiamo per certo che i pangolini erano presenti in Europa almeno 2 milioni di anni fa”.

I pangolini moderni esistono in Asia e in Africa. Spesso indicati come formichieri squamosi, assomigliano in qualche modo agli armadilli che vagano per gli Stati Uniti meridionali. Con le squame dalla testa alla coda, a volte vengono scambiati per rettili, ma i pangolini moderni sono in realtà mammiferi e sono più strettamente imparentati con i carnivori. Sono anche tra gli animali più trafficati illegalmente al mondo. Secondo il World Wildlife Fund, le otto specie di pangolini viventi in due continenti vanno da “vulnerabili” a “in pericolo critico”.

Il nuovo fossile di pangolino ha un’età compresa tra circa 1,9 e 2,2 milioni di anni, collocandolo all’interno dell’intervallo dell’epoca del Pleistocene, che va da circa 2,6 milioni di anni fa a circa 11.700 anni fa. L’identificazione di questo fossile come un pangolino è stata significativa, poiché ricerche precedenti suggerivano che i pangolini fossero scomparsi dalla documentazione paleontologica europea durante il Miocene medio, più vicino a 10 milioni di anni fa. Il lavoro precedente ipotizzava che i pangolini fossero spinti verso ambienti equatoriali più tropicali e subtropicali a causa delle tendenze di raffreddamento globale.

Essendo il pangolino fossile più giovane e meglio documentato d’Europa e l’unico fossile dell’Europa del Pleistocene, la nuova specie rivede una precedente comprensione dell’evoluzione e della biogeografia del pangolino. Smutsia olteniensis, come viene chiamata la nuova specie , condivide diversi tratti unici con altri membri viventi del genere Smutsia, che attualmente si trovano solo in Africa.

La scoperta è stata pubblicata nella rivista Journal of Vertebrate Paleontology.

I collaboratori di Terhune erano Sabrina Curran dell’Università dell’Ohio, Timothy Gaudin dell’Università del Tennessee a Chattanooga e Alexandru Petculescu dell’Istituto di Speleologia Emil Racoviţă di Bucarest.

Alcuni manufatti in pietra ritrovati in Algeria potrebbero anticipare l’inizio della storia dell’umanità

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L’Africa orientale è notoriamente il luogo di nascita dell’umanità e il luogo in cui gli ominidi nostri antenati, inventarono, per la prima volta, sofisticati manufatti di pietra.

Questa tecnologia, risalente a 2,6 milioni di anni fa, si è poi diffusa in Africa e, successivamente, nel resto del mondo.

Una ricerca pubblicata su Science, ha portato alla luce un sito archeologico in Algeria contenente manufatti simili che sono stati datati all’incirca vecchi di 2,44 milioni di anni. Il team, guidato dall’archeologo Mohamed Sahnouni, ha rinvenuto in uno scavo  situato ad Ain Boucherit, in Algeria, una serie di strumenti in pietra databili tra tra 1,92 milioni e 2,44 milioni di anni fa.

Ciò suggerisce che i primi ominidi si diffusero nella regione molto prima di quanto si pensasse in precedenza o che la tecnologia per realizzare strumenti in pietra fosse stata simultaneamente inventata da specie di ominidi diversi che vivevano al di fuori dell’Africa orientale.

I manufatti appartengono all'”Oldowan“, la più antica tecnica di realizzazione di utensili in pietra conosciuta. I ciottoli di fiume arrotondati, usati a mo’ di martello, erano usati per sfaldare altri ciottoli, trasformandoli in semplici nuclei. I fiocchi venivano poi trasformati in raschietti e coltelli di vario genere riaffilando i loro bordi.

Essenzialmente, questi strumenti venivano utilizzati per la lavorazione di tessuto animale, come midollo osseo e tessuto cerebrale, ma anche materiale vegetale. Tuttavia, non si sa per certo quale specie di ominide abbia creato per prima gli strumenti Oldowan tra l’ Australopiteco e l’Homo habilis .

Gli strumenti di pietra sono molto simili a quelli rinvenuti nei siti Oldowan nell’Africa orientale. Le ossa rinvenute nel sito presentano segni di intaccature dove, evidentemente, uno strumento di pietra è stato utilizzato per scavare l’osso durante la macellazione. I segni sulle ossa potrebbero indicare che questi ominidi già praticavano attivamente la caccia.

immagine del corpo degli strumenti oldowan

Alcuni strumenti Oldowan trovati nel sito, inclusi nuclei e scaglie (Shanouni et al., Science , 2018)

Finora, strumenti di tipo Oldowan così precoci erano stati trovati solo nella Rift Valley in Africa orientale, a più di 4.000 chilometri di distanza Ain Boucherit. Gli archeologi hanno sempre pensato che l’utilizzo di tecnologie sofisticate fosse iniziato lì, circa 2,6 milioni di anni fa, e questo ritrovamento così lontano da quella che si riteneva essere la casa ancestrale dell’uomo sembra dimostrare che manca ancora qualche tassello nella ricostruzione della storia evolutiva dell’uomo.

Cominciano, però, ad essere molti i ritrovamenti che sembrano dimostrare che qualcosa è stato ignorato o non riconosciuto nel ricostruirela storia dei nostri antenati più antichi. Sono stati scoperti siti apparentemente anticamente occupati da ominidi a sud, nel Ciad, che suggeriscono che alcuni dei nostri antichi antenati vivessero ben lontano dall’Africa orientale.

Siti simili, con reperti di tipo Oldowan sono stati trovati anche fuori dall’Africa, in Georgia, e datati a partire da 1,8 milioni di anni fa, il che sembra sorprendentemente precoce.

Cambio di gioco

Questa nuova scoperta ci dice che il nostro focus sull’Africa orientale come luogo di nascita dei primi umani è, forse, un po’ limitato e limitante: sarà necessario riconsiderare diversamente molte delle prove rinvenute altrove che, finora, sono state ignorate o minimizzate.

Lo stesso team di Mohamed Sahnouni aveva, di recente, pubblicato i risultati degli scavi fatti in un altro sito di tipo Oldowan in Algeria, databile circa 1,75 milioni di anni, ma trovare strumenti Oldowan anticipabili di oltre mezzo milione di anni è un po’ un punto di svolta. Molto dipende da quanto sia affidabile questa datazione di 2,44 milioni di anni. Secondo il documento, sono state utilizzate quattro diverse tecniche.

La datazione paleomagnetica che misura la direzione e l’intensità del campo magnetico terrestre nei sedimenti ci aiuta ad identificare l’età degli oggetti che ritroviamo intrappolati nei sedimenti stessi. Il livello superiore del sito di scavo era stato datato tra 1,77 e 1,94 milioni di anni mentre i sedimenti del livello inferiore sono stati stimati, con questa tecnica, tra 1,94 milioni e 2,58 milioni di anni fa.

Per ottenere date più precise, si è utilizzata una tecnica di datazione chiamata datazione di risonanza con spin elettronico, che misura il decadimento radioattivo nei grani di quarzo ma la versione di questa tecnica che è stata usata operava vicino al limite massimo di affidabilità in questa fascia di età. La misurazione ha consegnato un’età di 1,92 milioni di anni, più giovane di quanto suggerito dal paleomagnetismo. Ci sono alcuni dubbi su quanto sia adatto questo ultimo metodo, ma il gruppo è stato onesto al riguardo. Hanno anche confrontato le date con i tempi di estinzione degli animali presenti nel sito, il che ha permesso di riscontrare compatibilità tra le date..

Per ottenere un’approssimazione più affidabile dell’età massima degli strumenti, è stata usata una tecnica per stimare i tassi di sedimentazione – in pratica per quanto tempo i diversi strati del sito si sono accumulati. Per fare questo, è stato necessario introdurre alcune elaborazioni statistiche che sono state poi mappate sui risultati paleomagnetici. In seguito a questa stima, l’estrapolazione finale della data di origine degli strumenti è stata di  2,44 milioni di anni.

Mistero ominide?

Le attrezzature più antiche mai trovate al di fuori dell’Africa sono quelle rinvenute in Georgia risalenti a 1,8 milioni di anni fa. C’è un piccolo sito in stile Oldowan in Pakistan più o meno nello stesso periodo e altri siti molto simili databili a 1,66 milioni di anni fa.

Se il sito rinvenuto in Georgia rappresentasse il primo insediamento di ominidi al di fuori dell’Africa, il fatto che questi primi migranti africani siuano arrivati in pakistan e in Cina così rapidamente lascia davvero interdetti.

Strumento di pietra segna sullo scheletro animale. (I. Caceres)

Segni di strumento di pietra su osso. (I. Caceres)

In Georgia, gli strumenti potrebbero essere stati creati dal primo Homo erectus, che, per quanto ne sappiamo, ha vissuto circa 1,8 milioni di anni fa. Il fatto che esista un esemplare di Homo erectus rinvenuto dalla Cina e risalente a 1,6 milioni di anni fa, lascia presumere che l’ Homo erectus debba essere stata la specie che ha diffuso la tecnologia di costruzione di strumenti in pietra in tutto il mondo,  e molto più rapidamente di quanto si pensasse.

Ma non possiamo esserne sicuri.

Ormai nella storia antica dei nostri anetnati ancestrali si è aggiunto il fantasma di un altro ominide misterioso che potrebebe ssere uscito dall’Africa prima dell’Homo Erectus. Potrebbe essere stato l’Homo Habilis?

Forse la tecnologia Oldowan ebbe inizio prima di 2,6 milioni di anni fa, e 2,4 milioni di anni fa si era già diffusa in tutta l’Africa.

Forse il nostro misterioso ominide ha iniziato a migrare dall’Africa ben prima di 1,8 milioni di anni fa, e ha portato con sè la sua tecnologia di lavorazione della pietra verso oriente. Se fosse così, avrebbe sicuramente, avuto il tempo di coprire quelle enormi distanze. Forse, l’Homo erectus è emigrato solo verso l’Africa orientale solo successivamente, sulle orme di un viaggiatore precedente di cui non sappiamo ancora nulla.

Certo, ci sono tanti “forse“, ma è necessario tenere rpesente che nessuno si aspettava che ci fossero strumenti Oldowan in Georgia quando furono trovati per la prima volta.

Restiamo in attesa di nuove scoperte che ci illuminino ulteriormente sui nostri antenati.