venerdì, Novembre 15, 2024
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Ritorno alla Luna: Lockheed Martin sta costruendo l’habitat del Lunar Gateway

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La NASA, sotto la spinta del presidente Trump, sembra ormai decisa a tornare sulla Luna per installarvi una base permanente che possa essere un supporto cruciale per le successive spedizioni verso lo spazio profondo, a cominciare dai viaggi verso Marte.

Il primo passo per realizzare questo programma consisterà, a quanto sembra dalle più recenti dichiarazioni dei responsabili della NASA, sarà quello di realizzare il Lunar Gateway, una stazione spaziale posta in orbita lunare, più piccola della Stazione Spaziale Internazionale, che avrà la funzione di ospitare gli astronauti impegnati nelle missioni di esplorazione e studio della Luna.

Le recenti scoperte, in base alle quali è stata confermata la presenza di grandi quantità di acqua ghiacciata sul nostro satellite, particolarmente nelle zone polari, ha reso nuovamente la Luna un bersaglio molto interessante per le ambizioni esplorative e commerciali di molte agenzie spaziali nazionali e compagnie private.

Il lunar Gateway sarà una piccola base spaziale capace di ospitare un equipaggio di esseri umani, avrà un laboratorio scientifico e un hangar cui potranno agganciarsi le navette che trasporteranno astronauti, attrezzature e rifornimenti avanti e indietro tra la Terra e l’orbita lunare oltre ad uno o due moduli in grado di portare un equipaggio sulla superficie della vicina Luna e di riportarlo sul Gateway.

Un elemento cruciale dell’hardware necessario per realizzare il Lunar Gateway sarà, naturalmente, un habitat: uno spazio sixuro dove gli astronauti potranno fare ricerca, allenarsi per mantere in esercizio i muscoli e le ossa in assenza di peso, dormire e mangiare. Ma cosa serve esattamente per costruire un habitat per lo spazio profondo? La NASA ha incaricato sei società di capirlo, attraverso il programma NextSTEP dell’agenzia spaziale. Attraverso una partnership pubblico-privato, aziende come Boeing e Bigelow Aerospace stanno progettando e realizzando le proprie idee su come dovrebbero essere fatti i moduli che potrebbero ospitare astronauti nell’ambiente intorno alla Luna.

czapatka 180823 2814 0002Foto di Cory Zapatka / The Verge

Un’altra di queste società è la Lockheed Martin, come Boeing un appaltatore di lunga data della NASA. La Lockheed sta attualmente lavorando ad un habitat cilindrico per lo spazio profondo che avrà circa 270 metri cubi di spazio vivibile, all’incirca le dimensioni di un’ampia stanza in cui potranno muoversi fino a 4 astronauti.

Il progetto della Lockheed è particolarmente creativo nello sfruttamento degli spazi e delle funzionalità: ad esempio, la scorta d’acqua sarà immagazzinata all’interno di una intercapedine che circonda completamente lo scafo per fornire, oltre che l’acqua potabile, una schermatura alle radiazioni dello spazio profondo. L’habitat non spreca nessuno spazio, sul soffitto è disposto ha un tapis roulant per gli esercizi fisici e bisogna ricordarsi che, in orbita attorno alla Luna, non essendoci gravità, l’ambiente non avrà un alto e un basso, ogni parete, quindi, sarà un pavimento o una parete dove saranno fissati oggetti utili per le attività quotidiane. Ogni centimetro di parete sarà utilizzato per uno scopo diverso. L’habitat includerà anche una postazione di lavoro, così come alloggiamenti per dormire e strutture lo stoccaggio per il cibo e altri materiali di vita essenziali.

czapatka 180823 2814 0003Foto di Cory Zapatka / The Verge

Attualmente, Lockheed Martin sta costruendo il suo primo prototipo di habitat in Florida, in modo che la NASA possa analizzare il suo design e le sue funzionalità entro il 2019.

Intanto, la Lockheed sta andando avanti verso il completamento della nuova capsula spaziale della NASA, la capsula Orion che verrà lanciata nello spazio grazie al nuovo Space Launch System ma, a quanto sembra, la stazione Lunar Gateway sarà realizzata in modo di poter agganciare anche capsule di terze parti, come la Dragon 2 di SpaceX, già utilizzata per il trasporto di attrezzature scientifiche e rifornimenti da Terra verso la Stazione Spaziale Internazionale e viceversa. Un’evoluzione di questa capsula, la Dragon Crew, farà il primo dei due voli di test previsti per conseguire la licenza per trasportare astronauti a novembre di quest’anno, mentre il secondo volo avverrà, se non ci saranno problemi, nell’aprile del 2019 e, in caso di successo, la navetta di SpaceX comincerà a trasportare gli astronauti americani verso la Stazione Spaziale Internazionale al posto delle navette Soyuz della ROSCOSMOS, con la quale il contratto di convenzione della NASA per il trasporto degli astronauti scadrà a dicembre 2019.

Tutta la tecnologia in fase di sviluppo e realizzazione per il Lunar gateway si basa sul lavoro di progettazione svolto negli anni scorsi in vista della costruzione del Deep Space Gateway, una grande stazione spaziale in orbita cislunare progettata per fungere da base di assemblaggio e lancio per le future astronavi della NASA che dovranno raggiungere Marte. Il progetto Deep Space Gateway non è stato accantonato ma rinviato a dopo la realizzazione del Lunar Gateway, una fase successiva, insomma.

Il Lunar gateway potrà spostare alla bisogna la propria orbita, avvalendosi di motori ionici per la propulsione e di motori a razzi per il controllo dell’assetto, l’energia elettrica sarà garantita da pannelli fotovoltaici. Secondo i programmi resi noti, il primo modulo di questa base spaziale verrà posizionato in orbita lunare entro il 2024, giusto l’anno in cui SpaceX prevede di inviare la prima missione umana su Marte.

La NASA ha fretta, il 2024 sarà l’ultimo anno da presidente di Donald Trump, sempre che venga rieletto nel 2020, e agenzie spaziali importanti come quella cinese, quella indiana e quella europea hanno annunciato di voler scendere sulla Luna con equipaggi umani entro gli anni venti, l’ESA ha addirittura annunciato di avere il programma la realizzazione di una base lunare nel 2030 e l’America no intende perdere il proprio primato tecnologico nbello spazio.

Ci attendono anni interessanti ed eccitanti.

Iniziano i test per lo sviluppo necessario alla progettazione di un ascensore spaziale

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di Oliver Melis

Il Giappone sta per effettuare, nello spazio, una serie di test propedeutici alla progettazione di un ascensore spaziale.
La versione in miniatura comprende due “cubi”, un cavo e una mini-cabina motorizzata.

In un precedente articolo abbiamo visto quali sono le alternative attualmente immaginabili ai costosi e pericolosi lanci spaziali effettuati con i razzi. Sappiamo da sempre che i lanci spaziali sono complicati, rischiosi e comportano una spesa enorme in quanto richiedono enormi quantità di carburante per ogni chilo di peso da trasportare in orbita.

Per ovviare a tutto questo, nonostante a livello tecnologico e ingegneristico si tratti di un vero e proprio salto nel buio, si pensa da oltre cinquant’anni alla possibilità di realizzare un ascensore spaziale che colleghi la Terra ad una stazione spaziale in orbita geosincrona che funga da hub per la messa in orbita di satelliti ed il lancio di navicelle spaziali. Concettualmente, si tratterebbe di un vero e proprio ascensore, con una cabina collegata a cavi lunghi decine di migliaia di chilometri che avrebbero funzione di guida e di traino per raggiungere la stazione-hub e, da qui, basi scientiche orbitali, la Luna o posizionare in orbita satelliti o quant’altro fosse necessario.

A questo scopo,  un team giapponese dell’Università di Shizuoka sta per lanciare nello spazio un prototipo che somigli a una simile tecnologia: il modello realizzato in scala di un ascensore spaziale, sarà costituito da due satelliti di forma cubica di 10 cm di lato uniti alle estremità di un cavo di acciaio di 10 metri teso tra di essi. Una minicabina motorizzata si sposterà avanti e indietro lungo il cavo, monitorata dalle telecamere all’interno dei satelliti stessi. L’esperimento avrà lo scopo di capire bene il comportamento della cabina nello spazio.

220px Schema strutturale ascensore spaziale
Il lancio è stabilito per l’11 settembre e sarà il primo tentativo mai realizzato di testare una simile tecnologia finalizzato alla progettazione di un ascensore spaziale.
Il modello, comunque, è ancora molto lontano dall’ascensore spaziale immaginato nel romanzo di Arthur C. Clarke “Le fontane del Paradiso“(1979): nel libro si racconta di un ascensore spaziale agganciato alla cima di una montagna della immaginaria isola equatoriale di Taprobane, che grazie a un cavo in carbonio purissimo possa trasportare in orbita carichi di ogni genere, con una frazione dell’energia bruciata da un razzo vettore con uno o più stadi.

Per realizzare questo sogno, si pensa che si potranno usare cavi realizzati in nanotubi di carbonio, 20 volte più resistenti dell’acciaio che sarà usato nel test dei prossimi giorni, in grado di sopportare la trazione generata da un impianto del genere; alcuni studi, però, hanno sottolineato che cavi del genere sarebbero a forte rischio in quanto basterebbe anche solo un atomo fuori posto per far venir meno la resistenza di questo materiale innovativo e straordinario.

Nonostante tutta una serie di problemi da affrontare e risolvere, i ricercatori dell’azienda di costruzioni giapponese Obayashi, che ha collaborato al progetto dell’Università di Shizuoka, pensano sia solo una questione di tempo prima che venga affinata una tecnologia adeguata per realizzare i materiali necessari a supportare un simile progetto e puntano a costruire un ascensore spaziale che possa portare turisti nello Spazio entro il 2050.

L’idea è sfruttare i famosi nanotubi di carbonio per realizzaire una guida che copra una distanza nello Spazio, fino a 96.000 chilometri da Terra, un quarto della distanza che separa la Terra dalla Luna. Un sogno che forse i nostri pronipoti vedranno realizzato, proprio come racconta in “3001 odissea finaleArthur C. Clarke, immaginando un futuro dove i terrestri vivono in immense torri che svettano fino allì’orbita geostazionaria collegate da una gigantesca struttura che circonda la terra come un anello dal quale decollano decine di astronavi che percorrono il sistema solare in lungo e in largo a velocità fantastiche.

L’incidente di Delphos

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di Oliver Melis

Delphos, Kansas, USA,1971

Nei pressi di una fattoria nel territorio di Delphos, un UFO avvistato da un giovane avrebbe lasciato un’impronta circolare impressa sul terreno. Ufologi e scettici hanno discusso a lungo dell’accaduto.

Era il 2 novembre del 1971 quando, attorno alle 19, il sedicenne Ronald Johnson, mentre riportava un gregge di pecore nell’ovile di famiglia notò un oggetto a forma di fungo a breve distanza. L’oggetto era distante circa 25 metri e si librava a pochi centimetri dal terreno.

L’oggetto misterioso, secondo il racconto del testimone, aveva un diametro di 2,70 metri ed era alto circa tre metri. L’intera superficie era coperta di luci colorate.

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Ad un tratto, il misterioso fungo volante aumentò la sua luminosità abbagliando Johnson. Una volta ripreso Ronald corse a casa per avvertire i genitori ma, una volta sul posto, l’intera famiglia constatò che l’oggetto si era allontanato ed era ancora visibile nel cielo verso sud come una luce grande come la metà della luna piena. Di li a poco l’oggetto svani. La madre di Ronald toccò il cerchio lasciato impresso nel terreno dall’oggetto e avverti un intorpidimento alle dita.

Il padre di Roland il giorno seguente decise di avvisare lo sceriffo e chiamò la stampa locare per raccontare l’accaduto. Sul posto si presentò una giornalista, Thaddia Smith, inviata dal giornale locale. Sia lei che lo sceriffo Enlow poterono cosi constatare che al suolo era presente una traccia circolare di colore chiaro del diametro di 2,5 metri.

15 gierni dopo arrivò alla fattoria un ufologo, Ted Philips, che scatto numerose foto del misterioso cerchio sul terreno e raccolse dei campioni di suolo che inviò a diversi laboratori per le analisi. I Johnson raccontarono che Ronald per diversi giorni ebbe problemi agli occhi, irritati, e che anche la madre ebbe dei fastidi alle dita, ancora intorpidite. Gli animali, fecero notare i Johnson, manifestavano insoliti segni di nervosismo.

La famiglia presentò la storia al National Enquirer vincendo un premio in denaro.

Per lo sceriffo Enlow, i Johnson erano una famiglia stimata e rispettata e pertanto è difficile ritenere che avessero organizzato una frode.

C’è da notare che nessuna persona competente ha verificato le condizioni del giovane testimone e della madre che avrebbero accusato dei sintomi, stordimento, intorpidimento e nessun esperto ha verificato se effettivamente gli animali avessero subito qualche tipo di conseguenza.

Una spiegazione proposta per il caso fu quella di un fuoco di Sant’Elmo che avrebbe fatto scattare il panico nel giovane che avrebbe poi suggestionato anche i familiari.

Rimane il cerchio, come spiegarlo?

Il cerchio non è certo un prodotto della suggestione e deve trovare una collocazione nel complesso quadro degli avvenimenti. Dal cerchio, come detto, furono prelevati dei campioni, ma molti dei laboratori interpellati da Ted Philips non comunicarono nessun risultato, alcuni trovarono nei campioni trovarono il micelio di un fungo. Il noto ufologo e astronomo Jacques Vallée riferi che un biologo francese trovò un attinomicete, un organismo intermedio tra un fungo e un batterio che quando sviluppa il micelio ed è associato ai basidiomiceti che, in alcune condizioni, possono generare la bioluminescenza, questo spiegherebbe la luminosità dell’oggetto osservato dalla famiglia Johnson.

Questa spiegazione, però, non fu trovata soddisfacente dagli ufologi perché, secondo loro, se la traccia fosse stata causata da un fungo, l’anello sarebbe dovuto crescere con il passare del tempo, cosa che non accadde.

Qualche tempo dopo, Un chimico, Erol A. Faruk comunicò di aver trovato alti livelli di zinco e ossalato di calcio che non derivano dal metabolismo dei funghi, ma deriverebbero, secondo alcuni ufologi, dalla combustione di un propellente. Il cerchio, secondo la teoria degli ufologi, si sarebbe formato in presenza della combustione e di un’alta energia che avrebbe stimolato la crescita del fungo e causato la luminescenza.

Tutto spiegato? Niente affatto, infatti si è poi scoperto che il cerchio si trovava nel posto dove, in passato, era collocata una mangiatoia per polli in ferro zincato e, quindi, lo zinco rilevato dalle analisi potrebbe provenire dal rivestimento della mangiatoia e l’ossalato di calcio dagli escrementi dei polli stessi.

Forse per gli ufologi il caso non è del tutto chiuso e rimane negli annali ufologici come uno dei casi più interessanti, ma a ben vedere, le risposte terrestri sembrano sufficienti a smentire una natura aliena del fenomeno osservato.

SpaceX ha rivelato nuovi particolari del progetto per la colonizzazione di Marte ed è aperta a collaborazioni future (video)

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Come è noto, SpaceX vuole portare l’uomo su Marte e avviarne la colonizzazione.

Paul Wooster, ingegnere responsabile dello sviluppo del progetto Marte per SpaceX, è intervenuto alla 21a Convention annuale della Mars Society che si è tenuta lo scorso agosto. Wooster, durante il suo intervento ha spiegato in dettaglio come SpaceX sia alle prese con le grandi sfide relative alla realizzazione di uno dei più grandi progetti nella storia dell’umanità.

Secondo l’ingegnere, l’idea di SpaceX non si limita alla creazione di un avamposto ma prevede l’espansione degli essere umani sulla superficie di Marte attraverso la fondazione progressiva di diverse colonie. “L’idea sarebbe di espandersi, partire da subito non solo con un avamposto, ma fondare una vera e propria città e poi più città“, Ha spiegato Wooster, sostenitore di vecchia data del progetto Marte, membro fondatore della Mars Society e abituale partecipante alla convention annuale.

Il fondatore di SpaceX, Elon Musk, rivelò i piani dell’azienda per raggiungere Marte durante Congresso Astronautico Internazionale svoltosi ad Adelaide, in Australia, nel settembre 2017. Il razzo “BFR” di nuova concezione, spinto da 31 motori Raptor e in grado di portare cento tonnellate di carico oltre ad un numeroso equipaggio, sarà il protagonista di questa affascinante avventura. SpaceX lancerà due astronavi automatizzate verso Marte nel 2022, queste saranno prive di equipaggio ma trasporteranno materiali, attrezzature e rifornimenti per le successive missioni. Nel 2024 il programma della compagnia prevede il lancio di altre quattro astronavi verso Marte, due delle quali trasporteranno i primi esseri umani che sbarcheranno sulla sua superficie e cominceranno a mettere le basi per un avamposto abitabile e sicuro. Le altre due astronavi saranno automatizzate e trasporteranno, a loro volta, provviste, attrezzature e materiali per avviare l’opera.

Scivolo di muschiato di BFR nel suo complesso.
L’aspetto del BFR in configurazione per il viaggio verso Marte

Secondo quanto riferito da Wooster, ogni astronave trasporterà circa 100 tonnellate di materiali, il che significa che le sei navi, tutte insieme, porteranno su Marte una massa di roba grande circa il doppio della massa della Stazione Spaziale Internazionale. Le navicelle, una volta su Marte, serviranno da rifugio per gli astronauti durante i primi mesi, mentre questi installeranno gli impianti per l’estrazione di acqua, ossigeno, idrogeno e metano dal suolo e dall’atmosfera di Marte. Saranno installati anche una centrale elettrica fotovoltaica e una serra. Queste attività sono propedeutiche per l’autosufficienza della futura colonia e per produrre il combustibile che riporterà sulla terra razzi e astronauti.

Le sei navi saranno il primo passo per la fondazione di una città permanente di Marte. Gli umani, una volta sul posto, dovranno anche studiare le possibilità per realizzare piattaforme di atterraggio, habitat, serre, supporto vitale aggiuntivo e tutti gli altri servizi necessari allo sviluppo di un insediamento funzionante e duraturo.

Questo primo viaggio servirà a capire nel dettaglio “Tutte le capacità di cui avremo bisogno per avere una popolazione in crescita in superficie“, ha spiegato Wooster.

Il BFR su Marte
BFR sulle piattaforme di atterraggio nei pressi della colonia

Gli astronauti dovranno anche prendere in considerazione compiti come la creazione di un adeguato sistema di riciclaggio. Un altro problema futuro sarà la mobilità di superficie, per risolvere il quale si stanno progettando rover pressurizzati e una tuta spaziale adatta per spostarsi sulla superficie.

Alle domande su quali attività dovrebbero svolgere i futuri coloni su Marte, Wooster ha risposto spiegando che saranno innumerevoli come in qualsiasi società: ci saranno geologi, paleontologi che dovranno capire il più possibile della storia di Marte e scoprire se vi siano tracce di vita passata o presente, bisognerà individuare i depositi di materie prime ed avviarne l’estrazione per la produzione finalizzata alle necessità locali e all’esportazione verso la Terra, bisognerà progettare e realizzare le strade di collegamento tra i vari insediamenti e gli stabilimenti industriali, aree commerciali per i negozi e accoglienza per il turismo che un girono arriverà. Insomma, da fare non mancherà. “La nostra speranza è che, alla lunga, altri soggetti coglieranno l’opportunità e si faranno coinvolgere. Un giorno avremo voli dilinea e commerciali dalla Terra verso Marte e viceversa. Questo favorirà l’immigrazione e l’ampliamento della comunità su Marte. SpaceX è impegnato sull’ottimizzazione dell’architettura di trasporto il più rapidamente possibile, ma chiunque intravederà le possibilità di business e dimostrerà di eseere interessato sarà il benvenuto.”

Wooster, parlando del BFR, ha anche spiegato che la grande astronave di SpaceX verrà utilizzata non solo per i viaggi verso Marte ma anche per altre attività oltre l’orbita bassa. La sua utilizzazione è prevista anche per viaggiare fino alla Luna ed atterrarvi, per fungere da appoggio per le future stazioni spaziali in orbita lunare, per portare nell’alta orbita terrestre grandi satelliti e i nuovi grandi telescopi orbitali in via di costruzione e che, un giorno, porterà gli uomini anche oltre Marte.

Forse un medico ha risolto il mistero di Monna Lisa

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La “Gioconda“, conosciuta anche come “Monna Lisa“, è l’opera massima del genio rinascimentale italiano italiano Leonardo da Vinci. Si tratta, come recita Wikipedia, di un dipinto a olio su tavola di legno di pioppo realizzato da Leonardo da Vinci, dalle dimensioni di 77 cm d’altezza x 53 cm di base e 13 mm di spessore, databile al 1503-1504 circa e conservato nel Museo del Louvre di Parigi.

Opera iconica ed enigmatica della pittura mondiale, si tratta sicuramente del ritratto più celebre della storia nonché di una delle opere d’arte più note in assoluto. Il sorriso impercettibile del soggetto, col suo alone di mistero, ha ispirato tantissime pagine di critica, letteratura, opere di immaginazione e persino studi psicoanalitici; sfuggente, ironica e sensuale, la Monna Lisa è stata di volta in volta amata e idolatrata ma anche derisa o aggredita.

La Gioconda rappresenta una meta obbligata per le migliaia di persone che visitano il Louvre ogni giorno, tanto che nella grande sala in cui è esposta un cordone deve tenere a notevole distanza i visitatori; nella lunga storia del dipinto non sono infatti mancati i tentativi di vandalismo, nonché un furto rocambolesco che in un certo senso ne ha alimentato la leggenda.

Più di un anno fa, un medico di Boston, il dr. Mandeep R. Mehra, affascinato come tanti altri da quel ritratto appartenente ad una donna di 500 anni fa, esaminando con cura il suo aspetto è rimasto colpito da alcuni dettagli: la pelle ingiallita, i capelli radi, e, naturalmente, proprio il suo enigmatico sorriso, tanto da continuare a meditarci sopra nei giorni successivi fino a decidere di esaminare il ritratto dal punto di vista professionale.

 Il dr. Mehra è direttore medico al Heart & Vascular Center di Brigham and Women’s Hospital. “Non sono un artista. Non ho gli elementi per guardare all’arte con spirito critico ma so come fare una diagnosi clinica.”

Mehra ha scavato nella storia di Lisa Gherardini, la donna nel ritratto leggendario, così come nei registri di salute pubblica della Firenze storica e moderna, dove è stato creato il dipinto. In un articolo pubblicato nel diario Mayo Clinic Proceedings, Mehra afferma che Lisa Gherardini soffriva di u disturbo comune ancora oggi: l’ipotiroidismo.

Per esaminare nel dettaglio la Monna Lisa, Mehra è ricorso alla semeiotica medica e ad un vero e proprio esame obbiettivo:  nell’angolo interno dell’occhio sinistro la donna presenta una piccola protuberanza carnosa, il condotto lacrimale e il ponte del naso. I suoi capelli appaiono sottili e radi e la loro attaccatura sembra troppo alta. Non ha sopracciglia, un dettaglio importante.
Mona lisa linea sottile

Un attento esame degli occhi rivela una sclera giallastra.

occhi di mona lisa

Il lato destro del collo presenta un pronunciato rigonfiamento e lo stesso viso appare, nel suo complesso, gongio ed edematoso.

Colonna Mona Lisa

Sulla mano destra, piegata delicatamente sulla sua sinistra, si vede un notevole rigonfiamento tra il pollice e l’indice.

Mani della Monna Lisa

Leonardo Da Vinci non era solo uno dei pittori più famosi del suo tempo, ma anche un anatomista eccezionale. Il suo occhio riusciva a catturare i più piccoli dettagli e la sua mano riusciva a riprodurli con precisione, come in una moderna fotografia. Quindi quei piccoli segni non dovevano essere stati riprodotti per caso.

uomo vitruviano
L'”uomo vitruviano” dimostra le conoscenze anatomiche di Leonardo.
Uomo vitruviano

Come sottolinea Mehra nel suo articolo, ciascuna delle anomalie fisiche presenti sulla “Mona Lisa” ha un correlato medico noto.

Il rigonfiamento vicino al suo occhio, per esempio, è probabilmente uno xanthalesma, un deposito di colesterolo sotto la pelle, che si presenta spesso proprio nei pressi degli occhi. Anche il rigonfiamento della mano è, probabilmente, un tipo di tumore benigno,,noto come lipoma o xantoma, se ricco di colesterolo.

Il rigonfiamento al collo potrebbe essere l’inizio di un gozzo, un anormale rigonfiamente della ghiandola tiroidea.

Insomma, attaccatura dei capelli alta, perdita di sopracciglia, un gonfiore al collo, capelli grossolani e sottili, lo xanthalesma e il lipoma o xantoma. Aggiungiamo l’aspetto edematoso ed abbiamo un perfetto quadro clinico di ipotiroidismo.”

Monna Lisa
Questa patologia, un tempo comune nelle donne che avevano appena avuto un bambino, come Lisa Ghirardelli, spiegherebbe anche il misterioso sorriso della “Monna Lisa”. 

La diagnosi di ipotiroidismo spiega anche l’espressione imperscrutabile della donna e getta una certa tristezza sul ritratto.

Monna Lisa

Per sostenere la sua diagnosi, Mehra ha esaminato la vita nella Firenze del XVI secolo, alla ricerca di prove che l’ipotiroidismo potesse essere un disturbo comune.

L’alimentazione che si usava allora, in gran parte verdure, era fortemente carente di iodio, sostanza necessaria per mantenere la salute della tiroide. Inoltre, molte delle verdure che mangiavano i fiorentini del Rinascimento, il cavolfiore su tutte, sono note per essere gozzigene. Secondo Mehra, altri studi su dipinti di maestri del Rinascimento sostengono la sua teoria: circa un terzo dei dipinti dei contemporanei di Leonardo da Vinci, come Caravaggio o Raffaello, raffigurano persone con problemi alla tiroide.

La malattia di Lisa Ghirardelli non era un caso isolato nell’epoca in cui viveva. Scavando nei registri sanitari, Mehra ha scoperto che l’ipotiroidismo rimane a tuttora un problema in alcune parti dell’Italia moderna.

L’ipotiroidismo porta lentamente le persone che ne soffrono ad uno scadimento progressivo della qualità di vita: subentrano problemi nella regolazione del sonno e della temperatura corporea; diventano depressi e trovano difficile pensare, poi diventano sedentari e incapaci di lavorare. Il pericolo di vita subentra solo a lungo termine e, infatti, Lisa Ghirardelli visse fino all’età di 63 anni.

Forse Leonardo, uomo di scienza, era consapevole delle condizioni della sua modella, ma questo non lo sapremo mai. Ciò che è chiaro è che lui la ritrasse deliberatamente con tutte le sue strane e irresistibili imperfezioni, che sono, forse, la ragione per cui la “Monna Lisa” affascina tanta gente da oltre cinque secoli.

Lewonardo, secondo Mehra, “Era un artista forense. Quasi un artista scientifico. Non guardava solo l’arte e mostrava quello che pensava sarebbe stato piacevole per gli occhi. Voleva rappresentare la forma come si presenta naturalmente, e questa era la sua grandezza.”

Un micro satellite cinese in orbita lunare sta inviando immagini scaricabili dai radioamatori di tutto il mondo

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La missione lunare cinese Chang’e-4 è schedulata per il prossimo dicembre ed è previsto che porti un lander ed un rover ad allunare nei pressi del polo sud della Luna sulla faccia nascosta. Ci sono, però, delle missioni secondarie collegate alla missione Chang’e-4 che sono già operative e stanno compiendo attività molto interessanti.

Nello scorso mese di maggio fu lanciato dalla Cina il satellite Queqiao che si è posizionato in orbita stazionaria sul punto di Lagrange-2 per fungere da relais per le comunicazioni tra la Terra ed il lato nascosto della Luna. Lo stesso lancio ha portato in orbita lunare il microsatellite Longjiang-2, che, dotato di una speciale fotocamera sta scattando, dalla sua orbita ellittica, una quantità notevole di immagini che, prestate attenzione, sono scaricabili quasi da chiunque.

Il Longjiang-2, noto anche come DSLWP-B, è stato sviluppato dagli studenti dell’Istituto di tecnologia di Harbin (HIT) nella provincia di Heilongjiang, nel nord-est della Cina. Nonostante abbia una massa di soli 47 kg, il minuscolo satellite è riuscito, grazie al proprio sistema autonomo di propulsione, a rallentare ed inserirsi in orbita lunare, mentre il satellite relais proseguiva verso la propria destinazione.

Da allora, Longjiang-2 ha utilizzato la sua fotocamera, sviluppata in Arabia Saudita, per scattare immagini della Luna, di Marte, del Sole e di altri oggetti. I test di trasmisisone UHF hanno permesso praticamente a qualunque radio operatore in ascolto di scaricare e decodificare i dati trasmessi a Terra, in questo caso delle spettacolari immagini.

Sono molti gli appassionati di tracking via radio e via satellite in tutto il mondo che hanno potuto scaricare le immagini trasmesse dal piccolo Longjiang-2. Si ha notizia del download avvenuto dalla Florida, dal Brasile, dalla Cina, dai Paesi Bassi e dall’Italia.

Il piccolo satellite è il precursore di una nuova generazione di sonde spaziali di piccole dimensioni, come le ancora più piccole sonde MarCO della NASA, attualmente in viaggio verso Marte trasportate dalla missione InSight.

Per informazioni dettagliate circa i requisiti tecnici e le modalità per captare i segnali dal satellite e decodificarli consultare la pagina https://amsat-uk.org/tag/lunar/ e questo topic nel forum di ARI Fidenza.

La cometa  21P/Giacobini-Zinner, in questi giorni sta passando vicino alla Terra. Ecco come vederla

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La cometa  21P/Giacobini-Zinner  sta per passare nel punto più vicino al nostro pianeta del suo percorso. Questa comete ricorrente è il punto d’origine delle draconidi, le stelle cadenti che tutti gli anni, verso ottobre, si irradiano dalla direzione della costellazione Draco il Drago.

La cometa 21P completa la sua orbita attorno al sole ogni 6,6 anni e quest’anno toccherà il punto più vicino alla Terra da 72 anni a questa parte, passando a 58,6 milioni di chilometri, più o meno la stessa distanza a cui abbiamo visto Marte quest’anno.

La cometa 21P sarà visibile solo in questi giorni, fino a metà settembre, in zone con poco inquinamento luminoso, per distinguerla può bastare un binocolo e toccherà il punto di massima luminosità tra il 10 e l’11 settembre.

Per individuare la cometa occorre puntare il binocolo o il telescopio in direzione della costellazione dell’Auriga. L’astronomo e ambasciatore della NASA Eddie Irizarry spiega, nel dettaglio, come vederla a questo link..

cometa

Il nucleo roccioso della cometa è largo circa 2 chilometri e la codae molto sofcata ma ampia e visibile.

Ogni volta che questa cometa attraverso il sistema solare interno, lascia dietro di sé piccoli piccoli frammenti e detriti. Questi vanno a formare la nuvola di polvere che il nostro pianeta attraversa ogni ottobre, periodo in cui è possibile assistere alla pioggia di stelle cadenti dette draconidi.

Il mistero dell’Adriatico

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di Oliver Melis

Il triangolo dell’Adriatico è una zona di mare compresa tra Ancona, il Gran Sasso e Pescara. Di quella zona, nell’ottobre del 1978, ne parlò il mondo intero tra fantasia e realtà, mistero ed esagerazione. I protagonisti, i pescatori della zona, raccontavano di immense colonne d’acqua, di oggetti luminosi che si immergevano o emergevano dal mare, di bussole impazzite, nebbie impenetrabili e segnali inspiegabili captati dai radar di bordo.

La stampa non tardò a parlare di invasione UFO, quello fu un anno caldo per il numero delle segnalazioni, infatti il 1978 è stato l’anno con il maggior numero di segnalazioni UFO con il 1950, il 1954, il 1962 e il 1973.

Tutto cominciò nella notte tra il 14 e il 15 ottobre del 1978, quando si consumò una grave tragedia al largo di San Benedetto del Tronto. Due pescatori persero la vita in un naufragio, erano due fratelli di Martinsicuro. La morte, a detta di alcuni marittimi, avvenne in circostanze misteriose. Nella zona di mare tra l’Adriatico, Pescara, il Gran Sasso e Martinsicuro si contarono decine di avvistamenti, alcuni raccontarono anche di un’onda anomala che mise in fuga i turisti avanzando fino all’arenile di Pescara. Non sappiamo quanto esagerate furono queste voci o quanta suggestione condizionò i tanti racconti ma, a un certo punto, la paura fu tanta e venne chiesta la presenza delle Forze dell’Ordine e della Capitaneria di porto.

pescara

Partirono le perlustrazioni del tratto di Adriatico dove si manifestavano i presunti avvistamenti, televisioni e giornalisti documentavano quanto accadeva e, a quanto si racconta, anche squadre di scienziati studiarono la casistica riportata dai testimoni. Nonostante questo, non ci furono risposte definitive. Ci fu chi negò del tutto quanto accadeva imputandolo a suggestione, altri proposero delle teorie per spiegare quanto accadeva in mare chiamando in causa la formazione di enormi bolle di gas proveniente dai fondali marini in grado di rovesciare barche o creare fenomeni luminosi; gli ufologi, immancabilmente, parlarono apertamente di una rotta degli UFO che sorvolava il Gran Sasso dirigendosi verso l’Adriatico.

Il caso del triangolo dell’Adriatico ha affascinato moltissime persone, soprattutto gli appassionati di Ufologia che, in quegli anni d’oro, parlavano di “flap”, serie di avvistamenti concentrati in poco tempo nella stessa area, e avevano la convinzione che qualcosa di extraterrestre fosse presente nei nostri cieli e non si dovevano accontentare unicamente dei casi raccontati nei libri e nelle riviste dedicate al tema che giungevano da oltre oceano. Anche la nostra nazione, secondo alcuni ben informati, aveva i suoi contatti, come nel misterioso caso “Amicizia”.

Chi, all’epoca, non era troppo giovane, ricorderà certamente la diretta da Pescara con Emilio Fede, allora giornalista Rai, che segui e documentò la vicenda. I pescatori avevano paura a uscire in mare, il clamore attorno a quanto succedeva era enorme. Il 9 novembre del 1978 l’ammiraglio Gallerano, all’epoca dei fatti comandante della Capitaneria di porto, decise di inviare una motovedetta in perlustrazione. Tra gli uomini a bordo era presente l’ufficiale Vitale Bellomo che, 40 anni dopo le dichiarazioni che aveva rilasciato a “Il Messaggero di Roma” ha aggiunto un piccolo tassello, forse quello definitivo ai fatti dell’Adriatico.

Non ho mai creduto agli Ufo – ci dice Bellomo, oggi 80enne – anche se quella notte un razzo strano lo abbiamo visto anche noi, ma ciò che ci apparve davvero strano fu il black out di almeno 30 minuti dei radar di bordo. Fummo presi per pazzi dalla Capitaneria di Porto di Ancona, mentre a Pescara qualcuno, la mattina seguente, fece uscire la notizia e nel giro di qualche giorno tutta la stampa internazionale si riversò sulla costa abruzzese.

La dichiarazione è stata rilasciata durante la trasmissione serale “In Cronaca” trasmessa su Rete8.

Un episodio, forse determinante, venne svelato dall’ufficiale Bellomo: “Una settimana dopo, all’altezza della Madonnina – racconta Bellomo – e me lo ricordo bene perché ero io di pattuglia, si spiaggiò un siluro con scritte in cirillico e la testata piena d’acqua. Ci venne ordinato di avvisare le autorità preposte e di non perdere mai di vista il siluro e nel giro di poche ore militari provenienti forse da Ancona, vennero, lo caricarono e lo fecero sparire in tutta fretta. Questo, a mio avviso, significa che in quei giorni erano in atto, all’insaputa di tutti, esercitazioni militari da parte di truppe alleate all’ex Unione Sovietica, o manovre militari di altra natura, coperte da un assoluto segreto.

Le ipotesi sul tavolo restano, però, tutte aperte: scosse sismiche, emissioni di gas metano, meteo tsunami, UFO o simulazione di scontri navali: per alcuni il mistero rimane inspiegato.

Il progetto Dedalus

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Fra il 1973 e il 1978 venne condotto uno studio dalla società interplanetaria britannica (British Interplanetary Society) per progettare una sonda spaziale automatica in grado di intraprendere un viaggio interstellare. Gli scienziati e ingegneri, guidati da Alan Bond, che lavorarono al progetto decisero di proporre un sistema di propulsione basato su un razzo a fusione nucleare.

Il progetto si basava sul criterio di utilizzare tecnologie già sviluppate, o di prossima realizzazione, per inviare una sonda automatica che avrebbe dovuto raggiungere il suo obiettivo in un tempo di volo stabilito in 50 anni.

Il bersaglio scelto era la Stella di Barnard, una nana rossa situata a una distanza di circa 5 anni luce dalla terra. La scelta era caduta proprio su quella stella perché si riteneva che in orbita attorno alla nana rossa ci fossero due pianeti, un’ipotesi parzialmente confermata dalla scoperta di un esopianeta, una superterra, avvenuta nel novembre 2018. Il progetto aveva una flessibilità tale che la sonda, secondo i suoi progettisti, avrebbe potuto raggiungere anche altre stelle.

La sonda spaziale automatica Dedalus avrebbe dovuto essere assemblata in orbita terrestre e possedere una massa iniziale di 54.000 tonnellate, di cui 50.000 solo di propellente, una parte della massa restante, 500 tonnellate, sarebbe stata costituita da carico scientifico.

L’astronave si sarebbe composta di due stadi, il primo dei quali avrebbe operato per due anni portando l’astronave ad una velocità pari al 7,1% di quella della luce, alla fine dei quali il primo stadio sarebbe stato sganciato e si sarebbe attivato il secondo per altri 1,8 anni, aumentando la velocità a circa il 12% di quella della luce, prima di spegnersi. L’astronave, una volta raggiunta questa velocità, avrebbe proseguito per 46 anni verso la sua destinazione finale.

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nella foto, le proporzioni tra la Dedalus e il razzo Saturn dell’Apollo 11

I propulsori, viste le temperature estreme, avrebbero dovuto essere realizzati in berillio e funzionare con reazioni termonucleari a impulso. Il combustibile per la propulsione, stivato in pastiglie composte da una miscela di deuterio ed elio 3, avrebbe dovuto alimentare la reazione di fusione. Quest’ultima sarebbe dovuta avvenire all’interno di una camera di reazione, attraverso un meccanismo di confinamento inerziale. L’innesco delle reazioni termonucleari sarebbe stato avviato da un fascio di elettroni.

Per accelerare la sonda sarebbero state fatte detonare 250 pastiglie di deuterio-elio 3 al secondo e il plasma ottenuto sarebbe stato incanalato  attraverso un ugello a contenimento magnetico. Il problema dell’elio 3, elemento molto raro, sarebbe stato risolto raccogliendolo o dall’atmosfera di Giove o dalla superficie Lunare, che sembra esserne ricca.

Il secondo stadio, quello che avrebbe dovuto portare la sonda fino all’obiettivo, sarebbe stato equipaggiato con due telescopi ottici da 5 metri di apertura e due radio telescopi da 20 metri di apertura. Passati 35 anni, gli strumenti avrebbero iniziato a scandagliare le zona attorno alla stella di Barnard tentando di individuare i pianeti. Le comunicazioni tra la sonda e la Terra sarebbero avvenute utilizzando la campana magnetica del propulsore della sonda. La sonda avrebbe anche portato 18 sonde autonome, da lanciare nei pressi del sistema di Barnard. Queste sonde sarebbero state lanciate tra 7,2 e 2,8 anni prima di raggiungere il bersaglio. Anche queste sonde sarebbero state equipaggiate di tutto punto, con  generatori elettronucleari autonomi, telecamere, sensori e motori ionici.

Tutta l’attrezzatura, durante il viaggio, sarebbe stata immagazzinata nella stiva di carico della Dedalus, per proteggerla dalle radiazioni con un disco di berillio spesso 7mm. La scelta del berillio per la realizzazione dello scudo ablativo dipendeva dalla sua leggerezza e dall’elevato calore latente di vaporizzazione.

Eventuali ostacoli di grandi dimensioni che l’astronave avesse incontrato durante il passaggio attraverso il sistema stellare sarebbero stati dispersi tramite una nuvola di particelle generate da velivoli di supporto che avrebbero circondato l’astronave.

La Dedalus sarebbe stata dotata anche di una serie di robot in grado di intervenire, in caso di danni, per procedere alle riparazioni.

Fantascienza pura.

Il nuovo propulsore a ioni della NASA è quasi pronto, nel 2022 sarà installato sul Lunar Gateway

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Per andare dalla Terra alla Luna abbiamo fatto ricorso ai missili a propellente chimico e, ancora oggi, utilizziamo lo stesso tipo di propulsione per portare i satelliti in orbita e per rinnovare attrezzature, merci ed equipaggio della Stazione Spaziale Internazionale. Il sistema che utilizziamo è anche abbastanza costoso e pericoloso ed assai poco efficiente per i viaggi nello spazio profondo, non basterà costruire razzi più grandi e potenti per avventurarci oltre la Luna, lo spazio necessario per serbatoi abbastanza grandi da portare gli enormi quantitativi di carburante necessari sarebbe proibitivo da realizzare.

È molto semplice: per raggiungere gli altri pianeti abbiamo bisogno di un sistema di propulsione più sofisticato. La NASA ha preso sul serio questa sfida e ha iniziato a studiare nuovi approcci. Uno di questi, l’Advanced Electric Propulsion System (AEPS) ha appena superato un test importante.

Sviluppato in collaborazione con Aerojet Rocketdyne, AEPS è considerato un componente chiave per la propulsione di future missioni scientifiche su larga scala e per il trasporto merci. A quanto sembra, AEPS sarà il sistema di propulsione adottato sulla piattaforma orbitale Lunar Gateway, che sarà posizionata in orbita lunare a partire dal 2022.

L’AEPS è un propulsore di tipo ionico di nuova generazioneGenera la propulsione accelerando gli atomi ionizzati con un campo elettrico. La sua azione genera una quantità modesta di spinta rispetto ai tradizionali razzi chimici ma ha il vantaggio di poterlo fare a lungo, consumando inoltre poco carburante. Meno carburante significa meno peso da portare in orbita e oltre.

Il test cui è stato sottoposto con successo il nuovo tipo di propulsore doveva valutare l’efficienza dell’unità di alimentazione di scarico del sistema di propulsione e l’unità di elaborazione di potenza. Il team di ingegneri ha dimostrato che l’AEPS può convertire la potenza a un livello di alta efficienza, producendo un calore di scarto minimo. Il test è stato eseguito nella camera a vuoto termico presso il Glenn Research Center della NASA in Ohio.

Attualmente, il propulsore a ioni più potente in orbita lavora a 4,5 kilowatt di potenza. Ogni AEPS sarà oltre 10 volte più potente, raggiungendo i 50 kilowatt.

La nostra unità di alimentazione di scarico per l’AEPS ha eseguito il test con ottimi risultati, ottenendo significativi miglioramenti nell’efficienza della conversione. Si tratta di un risultato importante per le future missioni.” ha commentato Eileen Drake, CEO e presidente di Aerojet Rocketdyne in un comunicato . “Questi risultati testimoniano il focus e la dedizione del team di Aerojet Rocketdyne nel far avanzare lo stato dell’arte in questa area critica della tecnologia spaziale“.

Il prossimo passo sarà testare l’integrazione iniziale dei sistemi. Il team passerà quindi alla fase di finalizzazione del design e infine alla revisione critica del design. Una volta messo a punto il progetto, si passerà alla produzione effettiva.

A quanto si pensa, il Lunar Gateway disporrà di quattro propulsori AEPS e razzi di richiamo chimici.

Restando all’avanguardia nel settore della propulsione, ci siamo posizionati per un ruolo importante non solo nel tornare sulla Luna, ma anche in vista delle future iniziative per mandare astronauti su Marte“, ha continuato la Drake. “L’AEPS rappresenterà lo standard per la prossima generazione di esplorazioni dello spazio profondo e siamo entusiasti di essere all’altezza“.