sabato, Novembre 16, 2024
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“La penna spaziale” della NASA

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di Oliver Melis

La corsa alla conquista dello Spazio ha generato molte leggende e una di esse sostiene che la NASA abbia speso milioni di dollari per sviluppare una “penna spaziale” i grado di funzionare in assenza di gravità, mentre i sovietici risolsero lo stesso problema in un modo molto più semplice ed economico: usando le matite.

Quando la NASA died il via al programma di conquista dello spazio, gli astronauti si resero rapidamente conto che le penne a sfera a zero G non funzionavano. Per eliminare questo problema, gli scienziati della NASA avrebbero speso in dieci anni una cifra astronomica, circa 12 miliardi di dollari sviluppando una penna che scrive a zero G, sottosopra, e su quasi tutte le superfici incluso il vetro, perfino a temperature che vanno da sotto lo zero a oltre 300° C.

I russi pare siano stati più furbi e soprattutto parsimoniosi, infatti hanno usato delle matite.

Questa, almeno, è la leggenda che viene raccontata su quando, al culmine della corsa allo spazio, i due blocchi contrapposti risolsero il problema in maniera totalmente differente, gli americani lo fecero spendendo un patrimonio e i russi optarono per un rimedio semplice e funzionale.

Leggende ovviamente, il famigerato aneddoto della “penna spaziale” raccontato in precedenza può sembrare una buona storia che nasconde anche un insegnamento morale ma è appunto solo una leggenda.

Sia gli astronauti statunitensi che i cosmonauti sovietici inizialmente usavano matite nel corso dei voli spaziali, ma quegli strumenti di scrittura non erano ideali: le punte di matita potevano sfaldarsi e staccarsi, e avere oggetti di quel tipo che galleggiavano dentro o intorno alle capsule spaziali con bassa gravità rappresentava un potenziale pericolo per gli astronauti e le attrezzature (Inoltre, dopo il fatale incendio dell’Apollo 1 nel 1967, la NASA era ansiosa di evitare che gli astronauti trasportassero oggetti infiammabili come le matite a bordo con loro).

La soluzione di fornire agli astronauti una penna a sfera che avrebbe funzionato in condizioni di assenza di peso e temperature estreme, però, non avrebbe funzionato perché la NASA aveva speso centinaia di migliaia di dollari (arrivando a $ 12 miliardi nelle ultime versioni di questo racconto) in ricerca e sviluppo.
La “penna spaziale” diventata famosa attraverso l’uso da parte degli astronauti è stata in realtà sviluppata in modo indipendente da Paul C. Fisher della Fisher Pen Co., che ha speso di tasca sua per il progetto e, una volta perfezionato il suo AG-7 “Anti- Gravity “Space Pen, lo ha offerto alla NASA. Dopo che l’agenzia testò e approvò l’idoneità della penna per l’uso nei voli spaziali, acquistarono un certo numero di pezzi da Fisher a un prezzo modesto.

Ecco come Fisher stesso descrisse lo sviluppo della penna spaziale

La NASA non ha mai chiesto a Paul C. Fisher di produrre una penna. Quando gli astronauti cominciarono a volare, come i russi, usavano le matite, ma a volte si rompevano diventando un pericolo nell’atmosfera della capsula a zero G. Avrebbero potuto ferire un occhio o penetrare nel naso o causare un cortocircuito in un dispositivo elettrico. Inoltre, sia il piombo che il legno della matita avrebbero potuto bruciare rapidamente nell’atmosfera di ossigeno puro.

Paul Fisher si rese conto che gli astronauti avevano bisogno di uno strumento di scrittura più sicuro e affidabile, così nel luglio del 1965 sviluppò la penna a sfera pressurizzata, con il suo inchiostro racchiuso in una cartuccia sigillata.

Fisher inviò i primi campioni al dottor Robert Gilruth, direttore dello Houston Space Center. Le penne erano tutte di metallo tranne l’inchiostro, che aveva un punto di infiammabilità superiore a 200° C. I prototipi delle penne spaziali vennero accuratamente testate dalla NASA. Tutti i test furono superati e queste penne vennero da allora utilizzate su tutti i voli spaziali con equipaggio, americani e russi compresi. Tutti i costi di ricerca e sviluppo furono sostenuti da Paul Fisher. Nessun costo di sviluppo è mai stato addebitato al governo.

Le specifiche richieste dalla NASA prevedevano che una penna dovesse essere in grado di scrivere e resistere nelle condizioni estreme dello spazio, più precisamente:

Nel vuoto;
In assenza di gravità;
A temperature di + 150 ° C alla luce del sole e anche nelle fredde ombre dello spazio in cui le temperature scendono a -120 ° C
(La NASA ha testato le penne spaziali pressurizzate a -50 ° C, ma a causa del calore residuo, la penna scrive anche per molti minuti nelle fredde ombre.);

Fisher spese oltre un milione di dollari nel tentativo di perfezionare la penna a sfera prima di realizzare le sue prime penne pressurizzate. Nel dicembre 1967 Fisher vendette 400 penne spaziali Fisher alla NASA per $ 2,95 ciascuna.

Le matite di piombo sono state utilizzate su tutti i voli spaziali Mercury e Gemini e su tutti i voli spaziali russi prima del 1968. Le penne Space Fisher sono più affidabili delle matite di piombo e non possono creare il rischio di una scheggia di piombo che galleggia nell’atmosfera della navicella spaziale.

Paul Fisher continua a commercializzare le sue penne spaziali come strumento di scrittura utilizzata anche sulla luna e ha trasformato il lavoro da lui sostenuto in una società separata, la Fisher Space Pen Co.

Presto in commercio materiali plastici in grado di autoripararsi, se danneggiati

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Avere plastica, vernici e rivestimenti in grado di riparare se stessi rivoluzionerebbe la tecnologia, il design e la produzione sostenibile. I ricercatori lavorano su materiali con queste proprietà da molto tempo e ora un team della Clemson University pensa di essere a pochi passi dalla produzione industriale su vasta scala.

Le materie plastiche sono costituite da lunghe catene molecolari chiamate polimeri bloccati durante il processo di produzione. Altre tipologie di materiali plastici autorigeneranti sviluppati in precedenza utilizzavano approcci di legame più complessi per riportare le molecole insieme dopo che hanno subito danni o richiedono reagenti aggiuntivi che entrano in gioco nel caso la continuità delle catene venga interrotta.

Secodo quanto riportato da Science, il nuovo materiale utilizza le naturali forze intermolecolari tra i polimeri non solo per renderli più forti ma anche per spingerli a riunirsi in caso di danno. Se i polimeri sono posizionati nel modo giusto, queste forze, note come forze di van der Waals, agiscono come un meccanismo di blocco e chiave. I polimeri sono incollati insieme.

Allo stesso tempo, si piacciono a vicenda“, ha spiegato in un comunicato l’autore principale dello studio, il professor Marek Urban. “Così, quando sottoponi a trazione e li spezzi, tornano insieme, il materiale diventa auto-riparante. Per quanto semplice possa sembrare, questi studi hanno anche rivelato che le interazioni di van der Waals, onnipresenti e tipicamente deboli nelle materie plastiche, quando sono correttamente orientate, provocherano ua sorta di auto-guarigione, questa scoperta avrà un impatto importante sullo sviluppo di materiali sostenibili, i quato utilizzano un legame debole che diventa collettivamente molto forte quando orientato “.

Una spiegazione complicata per un approccio, in realtà, semplice. Produrre materiali a base di polimeri come questo non richiederebbe lo sviluppo di una linea di produzione completamente nuova. Potrebbe essere fatto nelle fabbriche esistenti. Il team stima che l’aumento della produzione per raggiungere centinaia di litri di polimeri potrebbe essere otteuto in un periodo variabile tra i sei mesi ed un anno.

Chiunque vorrà produrre questi tipi di materiali auto-riparati, essenzialmente, dovrà progettare un processo sintetico e scalarlo“, ha detto Urban. “La chiave è che il processo di scalabilità dovrebbe essere controllato con precisione. Chiaramente, c’è una grande differenza tra fare qualcosa in laboratorio e passare alla produzione su vasta scala. La tecologia per farlo, in questo caso, è, però, già disponibile“.

OOPart: la Fuente Magna

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di Oliver Melis

La Fuente Magna è vaso apparentemente antico scoperto in Bolivia. Il vaso è ricco di incisioni misteriose, e viene spesso citato come la Stele di Rosetta del sudamerica, viene da alcuni considerato uno degli OOPArt più famosi.

Secondo quanto si racconta, a ritrovare il Fuente Magna fu un contadino boliviano, che la ritrovò casualmente all’interno delle proprietà della Hacienda Chua, la fattoria dove lavorava sita a pochi chilometri dal lago Titicaca.

Il proprietario della hacienda per scoprire l’origine del vaso decise di interpellare un suo vecchio amico archeologo Max Portugal Zamora che rimase affascinato dall’oggetto, simile a tanti recipienti per uso cerimoniale che aveva esaminato e catalogato in carriera eppure così diverso da essi. Secondo l’archeologo le incisioni meritavano uno studio approfondito. Zamora decise di portare il vaso al museo di La Paz e dopo averlo restaurato cercò invano di capire il significato delle incisioni ma alla fine si arrese.

Il Vaso Fuente finì in uno dei magazzini del museo, dimenticato per molti anni.

Solo 35 anni dopo, nel 1995, dopo un inventario dei reperti presenti nel magazzino e nell’intera struttura, il vaso tornò alla luce entrando a far parte di quegli oggetti misteriosi chiamati Oopart.

Da dove viene il vaso? Che cosa significano le incisioni e le decorazioni che lo adornano?

Qualche anno più tardi Freddy Arce e Bernardo Biados iniziarono a investigare il misterioso manufatto. Ai due, durante le idagini sull’origine del vaso, un vecchio raccontò che in passato di vasi del genere ve ne erano parecchi, utilizzati in anche come mangiatoie per animali. Lentamente, però, i vasi erano misteriosamente svaniti nel nulla.

Arce e Biados, certi che il vaso fosse realmente antico, dopo alcune analisidi giunsero alla conclusione che esso risalisse a circa il 3.500 a.C. e che allora servisse per cerimonie religiose di purificazione. I due scoprirono che le scritte all’interno della Fuente Magna erano incise in due lingue differenti, una molto antica ma sconosciuta e una, conosciuta, simile a quella usata presso le popolazioni di Pukara.

I due interpellarono Clyde Ahmed Winters noto epigrafista nordamericano, che fu lieto di collaborare.

Winters stabili che la lingua sconosciuta era un idioma proto-sumerico, affermando di averla vista utilizzata su oggetti e manufatti prodotti in Mesopotamia, che accostò alla scrittura proto-elamita, poi la confrontò con altri sistemi di scrittura utilizzati nel 3000-2000 a.C., in particolare all’idioma Libico-berbero utilizzato nel Sahara 5.000 anni fa. Partendo da queste considerazioni e da un complesso sistema di comparazioni linguistiche, Winters decifrò l’iscrizione utilizzando la lingua sumera.

Le ricerche sul vaso non si fermarono producendo nuove teorie, una riguarda il bassorilievo zoomorfo all’interno del vaso, simile nella forma a un simbolo di fertilità, la rana, che secondo alcuni rappresenterebbe la dea sumera Ni-ash, la divinità dalla quale presero forma il Cielo e la Terra.
La seconda ha a che vedere con i simboli posizionati ai lati di questo bassorilievo e vicini alle scritte proto-sumeriche: decifrarli è stato impossibile ma si è potuto attribuirli con certezza alla lingua quellca, un idioma usato nella civiltà Pukara.
La terza riguarda i bassorilievi zoomorfi scolpiti nella parte esterna della Fuente Magna: simili a un pesce misto a serpente richiamerebbero la cultura di Tiwuanaku.

Il Vaso Fuente veniva utilizzato probabilmente come oggetto sacro per cerimonie legate al culto della fertilità. Il vaso quindi dovrebbe essere considerato un vero e proprio Oopart perché, secondo i ricercatori, sarebbe di fattura Sumera, un popolo lontano dal contesto del ritrovamento, migliaia di chilometri.

C’è chi attribuisce il ritrovamento al fatto che i Sumeri fossero un popolo di grandi navigatori.

Le critiche

Ma la storia ha molti punti oscuri, non sappiamo con precisione dove il vaso sia stato ritrovato, e soprattutto quando. La data che viene fornita varia, passando dal 1950, al 1958 o al 1960. Inoltre, alcuni scrittori sostengono che è di pietra, altri che è in ceramica.

Apparentemente la ciotola apparve per la prima volta all’archeologo Max Portugal Zamora (1907-1984) qualche tempo dopo la sua scoperta. Zamora è stato direttore del Museo Nacional de Arqueologia Tiwanaku a La Paz dal 1936, dove è diventato un esperto dell’archeologia dell’altiplano andino e dell’arte parietale precolombiana. I suoi lavori non mostrano alcuna prova di interesse per la ciotola fino al 1975 (pubblicato come “La Fuente Magna“, Hoy (Suplemento LP 6 – VII), 8), alcuni siti scrivono che Zamora ha “restaurato” la ciotola nel 1960.

I due ricercatori Freddy Arce e Bernardo Biados non sono archeologi professionisti, ma ricercatori indipendenti “Bernardo Biados (un “Professionista indipendente della gestione dell’istruzione”) e Freddy Arce Helguero (un eminente pseudoarcheologo boliviano, morto nel 2011)” come vengono nominati sul sito: “Bad archeology.wordpress”.

Il riconoscimento della scrittura cuneiforme è attribuito a Mario Montaño Aragón (nato nel 1931), che ha pubblicato su Raíces semíticas en la religiosidad aymará y kichua (Biblioteca Popolare di Ultima Hora, 1979). I dettagli della scoperta sembrano provenire direttamente dall’account di Aragón (a meno che non provengano dal giornale di Zamora, che non ho visto).

Anche il vecchio testimone, un novantaduenne di nome Maximiliano, affermò che la ciotola veniva usata per dar da mangiare ai maiali. Da annotare che del vecchio non si sa nulla più che il nome. Sulla storia aleggiano molti misteri, anche sull’esistenza della famiglia Manjòn, proprietaria dell’hacienda dove sarebeb stato ritrovato il vaso, non si hanno certezze, e questo succede quando ci si affida solo ed esclusivamente a testimonianze verbali vecchie di 40 anni.

L’ interesse nella ciotola sembra derivare dal lavoro di Hugh Bernard Fox (1932-2011), antropologo presso la Michigan State University e poeta, e Clyde Ahmad Winters, uno studioso che crede che gli Olmechi erano discendenti degli Atlantidei che in passato vivevano nell’antica Libia.

Nessun Sumerologo ha accettato che i simboli all’interno della ciotola siano “proto-sumerici” come vorrebbero i ricercatori che hano azzardato l’ipotesi.

Questi simboli sembrano far parte dell’iconografia generale delle culture altiplano precolombiane e riportano solo una vaga somiglianza con i geroglifici sumeri. Nonostante la convinzione di Hugh Fox che le iscrizioni siano fenicie, nessun esempio di cuneiforme fenicio è stato trovato più a ovest di Malta.

Quando i Fenici stabilirono colonie nel bacino del Mediterraneo occidentale, avevano abbandonato il cuneiforme e stavano usando un alfabeto ancestrale a tutte le moderne scritture occidentali.

Fonti: La Tela nera; Badarcheology.wordpress.com

Una nuova frontiera per l’ortopedia: ora è possibile stampare in 3D legamenti e tendini

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Con lo svilupparsi della tecnologia di stampa 3D, ci stiamo abituando all’idea di creare oggetti come protesi dentarie, sculture, armi o persino cibo tramite una stampante 3D. Un team di ingegneri biomedici dell’Università dello Utah ha voluto andare oltre, e ha sviluppato una tecnica di stampa di cellule 3D per la riproduzione di tessuti umani quali tendini e legamenti. A fronte di un paziente con un legamento danneggiato o un disco fratturato, questa tecnica consentirà di “stampare” il tessuto da riprodurre e impiantarlo al posto di quello danneggiato, secondo quanto pubblicato nel Journal of Tissue Engineering, Part C: Methods.

Questa tecnica consentirà ai pazienti di ricevere i nuovi tessuti da impiantare eliminando ricoveri aggiuntivi e, soprattutto, evitando l’innesto di tessuti provenienti da altre parti del proprio corpo, tecnica che porta sempre parecchi problemi” sostiene l’assistente di Ingegneria Biomedica dell’Università dello Utah, il professor Robby Bowles, co-autore dello studio assieme al Dr. David Ede, docente in Ingegneria Biomedica.

Questo metodo di stampa 3-D, che ha richiesto due anni di ricerca, consiste nel prelievo di cellule staminali dal grasso corporeo del paziente, che vengono poi stampate su uno strato di idrogel: il tendine o legamento così “stampato” viene poi posto in vitro, in apposita coltura, prima di essere impiantato. Ma è un processo estremamente complicato perché il tessuto connettivo è costituito da cellule diverse combinate secondo patterns complessi. Ad esempio, le cellule del tendine o del legamento che deve aderire ad un osso, devono essere progressivamente combinate con le cellule ossee, cosi da che le cellule acquiscano tale funzione.

Questa tecnica consente di creare, in modo controllato, un modello e un’organizzazione di cellule come non era possibile con le tecnologie precedenti“, afferma Bowles, parlando del processo di stampa. “Ci permette di creare cellule specifiche da posizionare esattamente dove vogliamo.”
Per ottenere questi risultati, Bowles ed il tuo team hanno collaborato con l’azienda Carterra Inc., con sede a Salt Lake City, specializzata nella produzione di dispositivi microfluidici per la medicina.

I ricercatori hanno utilizzato una stampante 3-D Carterra, normalmente utilizzata per applicazioni di screening del cancro. Ma il team di Bowles ha sviluppato una speciale testina di stampa per la stampante, in grado di riprodurre cellule umane in modo controllato. Per dimostrare il concetto, il team ha stampato cellule geneticamente modificate che si illuminano di un colore fluorescente, in modo da visualizzare il prodotto finale.

Attualmente, il tessuto “di ricambio” per un paziente viene essere prelevato o dal corpo dello stesso paziente o, a volte, da un cadavere. Ma la qualità del tessuto non sempre è ottimale. I dischi vertebrali sono strutture complesse, con giunti ossei che devono essere esattamente ricreati, per un trapianto corretto. Questa tecnica di stampa 3D può risolvere questi problemi.

Bowles, specializzato nella ricerca muscolo-scheletrica, sostiene che al momento questa tecnologia è pensata per la creazione di legamenti, tendini e dischi della colonna vertebrale, ma “potrebbe essere utilizzata letteralmente per qualsiasi altro tipo di applicazione di ingegneria dei tessuti“. Quindi potrebbe essere applicata alla stampa 3D di interi organi, un’idea su cui i ricercatori lavorano da per anni.

Bowles sostiene inoltre che la tecnologia della testina di stampa potrebbe essere adattata a qualsiasi tipo di stampante 3D.

Fonti: University of UTAH

David Ede, Nikki Davidoff, Alejandro Blitch, Niloofar Farhang, Robby D. Bowles. Microfluidic Flow Cell Array for Controlled Cell Deposition in Engineered Musculoskeletal Tissues. Tissue Engineering Part C: Methods, 2018; 24 (9): 546 DOI: 10.1089/ten.TEC.2018.0184

Jean Hilliard: L’ibernata

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di Oliver Melis

Jean Hilliard ha recuperato completamente dopo essere stata trovata completamente congelata nel Minnesota.

La storia di Jean Hilliard, una donna ristabilitasi completamente dopo essere stata trovata congelata nella neve del Minnesota, è stata condivisa in varie forme da quando è stata pubblicata per la prima volta nel 1980. E, dopo ogni nuova condivisione, la storia ha assunto contorni sempre più sorprendenti, fino a sfociare nel mistico.

Uno dei primi resoconti dell’incidente, pubblicato dalla Montreal Gazette il 30 dicembre 1980, raccontava come Hilliard fosse collassata in una notte passando dai 22 gradi a temperature sotto lo zero mentre cercava un riparo dopo un incidente automobilistico. Venne recuperata come una vera e propria statua di ghiaccio dopo sei ore e portata in ospedale: respirava appena due o tre volte al minuto e il suo cuore batteva solo otto volte al minuto.

Secondo il giornale canadese, il Dr. George Sather, uno dei primi a prestare soccorso alla donna, avrebbe detto: “Pensavo che fosse morta, ma poi abbiamo percepito un gemito estremamente debole. Allora abbiamo capito che quella persona aveva ancora un barlume di vita“.

Le possibilità di sopravvivenza di Jean furono comuqnue giudicate scarse, la sua temperatura corporea non veniva registrata dal termometro e questo significava che era inferiore ai 26,5 gradi.

Non c’erano prove di un polso o di una pressione sanguigna“, ha detto al fratello di Jean, il dottor Edgar Sather. “Il suo corpo era troppo congelato per trovare una vena per ottenere un impulso cardiaco.

La maggior parte delle storie pubblicate su Jean Hilliard subito dopo l’incidente hanno raccontato dell’utilizzo di tappetini elettrici per scaldare il corpo e di bombole di ossigeno per il suo recupero, ma a ogni nuova condivisione la storia è diventata sempre più sensazionale.

Quando Weekly World News (la stessa pubblicazione ha raccontato al pubblico fantastiche storie di finzione sul “Bat Boy” mezzo-pipistrello e sugli UFO di Hitler) ha pubblicato una versione del racconto nel gennaio 1981, alle citazioni dei genitori della Hilliard sono state aggiunte la guarigione dovuta al potere della preghiera. Guide Post Magazine ha portato questo tema ancora oltre, sostenendo che una catena di preghiera aveva salvato la vita di Jean Hilliard.

Durante le prime ore in cui la catena di preghiera era in corso, le mie gambe e i miei piedi, invece di diventare più scuri come previsto dal Dr. Sather, iniziarono a schiarire e riguadagnare il loro colore naturale. Uno dopo l’altro, i dottori e le infermiere si presentarono per ammirare la sfumatura rosata che appariva sulla linea di demarcazione in cui l’oscurità iniziava sulla mia parte superiore delle cosce, il punto in cui il dottor Sather disse che pensava di dover amputare“. Questo il racconto della vittima del congelamento stando alle storie messe in circolo in seguito.

Ben presto centinaia e migliaia di persone furono consapevoli che una giovane donna era stata portata all’ospedale di Fosston congelata e aveva un disperato bisogno della miracolosa guarigione di Dio.

Mentre alcuni potrebbero considerare il recupero di Hilliard un “miracolo” (il New York Times ha persino citato il dottor Sather che considera la sopravvivenza della giovane donna come tale), la sua esperienza non è stata, però, unica.

In un articolo pubblicato dallo Spartanburg Herald nel gennaio del 1981, il dott. Richard Iseke dichiarò che non era insolito per il congelamento delle vittime ottenere dei recuperi completi:

Come per il recupero della donna del Minnesota congelata dopo un calvario notturno in condizioni meteorologiche estreme è stata descritta come un miracolo dal suo medico. Ma altri medici dicono che tali “miracoli” non sono così rari: altre vittime di episodi di congelamento sembrano essersi riprese completamente anche dopo periodi prolungati senza battito del cuore.

Anche se Hilliard è stata innegabilmente fortunata a sopravvivere, Iseke ha affermato che “ci sono numerosi casi clinici nella letteratura medica di persone che sono sopravvissute (con temperature corporee interne) a 26 o 27 gradi”.

Il corpo umano reagisce al freddo estremo proprio come un animale in letargo: l’attività interna rallenta, il che riduce drasticamente la richiesta di ossigeno delle cellule dal sangue.

insomma, il recupero di Jean Hilliard è stato incredibile ma non è un “mistero medico irrisolto“.

Nessun miracolo.

Fonte: Snopes.com

Vaccini e libertà di scelta, perchè limitare il libero arbitrio è necessario per il bene della società

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Un vaccino è un preparato studiato per indurre una certa reazione nel nostro organismo, nella fattispecie per presentare all’apparato immunitario una serie di antigeni, cioè piccole particelle proteiche “leggibili” dalle cellule dell’apparato immunitario, tipiche di determinati batteri e virus, atti a stimolare la produzione di anticorpi specifici contro quegli stessi antigeni.

Questa stimolazione sfrutta la normale reazione immunitaria prodotta dalle cellule a ciò deputate all’interno del nostro organismo per ottenere la cosiddetta immunità verso quei batteri o virus e salvaguardare, quindi, l’organismo stesso da future infezioni.

La reazione immunitaria è un processo fisiologico del nostro organismo.

Come ogni altro preparato medico o farmacologico, i vaccini, in alcuni, rari, casi, possono indurre una reazione esagerata o addirittura avversa, con conseguenze a volte solo fastidiose, a volte gravi o molto gravi e, in qualche caso, ancora più raro, anche mortali. Sia chiaro che si parla di un caso su decine di migliaia per reazioni fastidiose (ad esempio febbretta o un piccolo eczema) e un caso su svariati milioni per complicanze gravi o mortali.

Vogliamo rinunciare ai vaccini e ricominciare con epidemie dove il tasso di mortalità va dal 30 all’80 per cento, invece che uno su milioni? Volendo si può ma, prima, bisogna fermarsi a ragionare e a rendersi conto che qualsiasi preparato medico o farmacologico, ingerito, inoculato o applicato topicamente, può avere effetti collaterali anche molto gravi se non mortali.

Per esempio, la comune Aspirina che quasi tutti assumiamo, un farmaco quasi miracoloso, il cui pricipio attivo si chiama acido acetilsalicilico, può essere pericolosissima, può indurre reazioni allergiche gravi o provocare emorragie con conseguenze immaginabili. Eppure l’aspirina è un farmaco fondamentale nella terapia e nella prevenzione dell’infarto, ad esempio, ha azione antiinfiammatoria, antipiretica e antinevralgica, addirittura, secondo diversi studi, avrebbe anche un’azione preventiva nei confornti di alcuni tipi di tumore.

Eppure, non ho ancora visto nascere un movimento No-Aspirina, pur trattandosi di un farmaco che può essere pericoloso, perfino più pericoloso di un vaccino. È chiaro che il rapporto danno – beneficio dell’Aspirina è decisamente a favore di quest’ultimo.

Lo stesso vale praticamente per qualsiasi farmaco possiamo assumere, anche quello che riteniamo più innocuo e che ci autoprescriviamo, magari per il mal di testa o i dolori mestruali.

Quindi cosa facciamo? Aboliamo i farmaci? Aboliamo la medicina tous court? Movimenti antifarmaci specifici, a parte i vaccini, non esistono perchè chi ha interesse a diffondere le balle sui vaccini al massimo sfrutta l’ipotesi di complotto generica su Big Pharma.

Ricordiamo che lo stesso movimento contro i vaccini nasce su una balla diffusa attraverso uno studio, avvalorato da dati falsificati, prodotto nel 1998 da un certo dottor Wakefield, un medico inglese che tentò di utilizzare questo studio per una truffa e che, in seguito, reo confesso, fu condannato e inibito dall’esercitare la pratica medica.

Il punto è che poi, quando stiamo male, andiamo di corsa al pronto soccorso o dal medico di base, non dai guru no vax o cospirazionisti. Certo, c’è una piccola minoranza che crede nelle pratiche medica alternative o in quelle tradizionali (che non sono la stessa cosa), ma quando sta male sul serio, la maggior parte delel persone  sempre da un medico vero finisce per andare.

La verità è che oggi queste idee malsane attecchiscono perchè abbiamo cresciuto generazioni di ignoranti che poco o nulla sanno di metodo scientifico e poco o nulla sanno o ricordano di storia, dei tempi in cui le malattie infettive erano davvero diffuse. Oggi, almeno nella nostra parte del mondo, si parla di focolai d’infezione che, bene o male, si riesce a tenere sotto controllo prchè la maggior parte della popolazione è vaccinata e quindi immune ma, quando io sono nato, i miei nonni ricordavano molto bene l’epidemia di influenza spagnola, ed io stesso sono abbastanza grande da ricordare i bambini focomelici che mia madre definiva “sfortunati” e che invece erano i più fortunati perchè almeno riuscivano, in qualche modo, a girare per le strade.

Meningite e tubercolosi erano malattie gravissime e se la maggior parte di noi sopravviveva al morbillo, alla varicella, alla rosolia e non ricordiamo che c’era anche chi moriva o che si portava per tutta la vita segni devastanti di queste malattie, è perchè quelle persone non possono essere qui a testimoniare cosa è successo loro.

I vaccini, come ogni prodotto medico o farmaceutico, sono un’assicurazione per la società, sono la garanzia che il bene dei molti venga salvaguardato, anche, purtroppo a discapito del bene dei pochissimi.

Non è cinismo, è realismo. Meglio un morto ogni tanti milioni o meglio un morto ogni poche centinaia?

Ovviamente dispiace per chi subusce effetti negativi ma la medicina, la scienza, la ricerca, migliorano ogni giorno le proprie conoscenze e ciò che ci propongono per il nostro benessere e sono sempre pronte a rimettersi in discussione. Sono molti i vaccini, ed i farmaci, ritirati dal commercio a causa di un rapporto danno beneficio non accettabile e sostituiti con prodotti migliori.

I vaccini sono necessari e devono essere utilizzati secondo le tabelle previste che, al momento, sono le migliori possibili.

Qualcuno mi ha scritto sostenendo di essere per la libertà di scelta.

A parte che si tratta di una forma ipocrita per dire “sono contro“, purtroppo, di fronte al bene e alla salute generale, la società non può permettere che esistano casi particolari (a parte chi per specifici problemi di salute non può proprio essere vaccinato) nè libertà di scelta.

Nessuno si sogna di mettere in dubbio la necessità di usare le cinture di salvataggio in macchina o il casco in moto, eppure sono obbligatorie.

A volte, uno stato deve limitare il libero arbitrio, quando è per il bene della stragrande maggioranza dei cittadini.

La maglietta “intelligente”

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E’ in piena fase di test la nuova maglietta che consente, grazie ad un’innovativa applicazione tecnologica di un sofisticato sistema di sensori, di acquisire un serie di parametri cardiaci e respiratori della persona che la indossa. La maglietta è realizzata in tessuto elasticizzato, arricchito da sensori in fibra ottica. La tecnologia e’ stata sviluppata dalla collaborazione tra ENEA (Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente) e l‘Università Campus Bio-Medico di Roma.

I sensori a fibra ottica incorporati nella maglietta” spiega il ricercatore ENEA Michele Caponerosono quelli attualmente in commercio. Li abbiamo però incapsulati all’interno di specifici materiali polimerici. In questo modo, i sensori sono particolarmente utili nella medicina sportiva, poiché consentono di rilevare una serie di parametri medici lasciando libero il paziente nel movimento di quanto non avvenga coi metodi tradizionali, che prevedono l’uso di cinghie sul corpo“.

I vantaggi di queste magliette vanno oltre il campo specifico della medicina sportiva. Sono infatti potenzialmente utilizzabili per le generiche indagini cliniche. Un esempio? Far indossare una maglietta “intelligente” ad un paziente da sottoporre a Risonanza Magnetica, consente di monitorare i parametri legati alla respirazione, là dove l’uso di metodi tradizionali di rilevazione sarebbe disturbata dal forte campo magnetico prodotto dalla macchinario stesso.

In generale, la maglietta offre al paziente il confort di essere monitorato senza alcun tipo di costrizione.

Monitorare la frequenza respiratoria sotto risonanza può essere importante, per esempio, per chi soffre di ansia o attacchi di panico. Se il paziente ha crisi di questo tipo durante la procedura, la maglietta le rileva precocemente, favorendo l’intervento del medico. Inoltre, la nostra idea è quella di usare queste magliette per rimuovere dalle immagini della risonanza gli artefatti da movimento dovuti alla respirazione del paziente, che peggiorano la qualità delle immagini”, sostiene Daniela Lo Presti, coinvolta nel progetto come tesista presso ENEA e attualmente dottoranda presso l’Università Campus Bio-Medico.

E’ interessante ipotizzare altre possibili applicazioni di questa tecnologia. “Possiamo usare questi sensori per il monitoraggio della temperatura nelle procedure di ablazione laser per la rimozione dei tumori, in modo da salvaguardare i tessuti sani. Inoltre, stiamo investigando la possibilità di utilizzare questa tecnologia per monitorare il livello di umidità nell’aria erogata dal ventilatore polmonare prima che questa raggiunga le vie aeree del paziente”, aggiunge Lo Presti.

Avvolgendo i sensori in un materiale idroscopico, questi diventano sensibili alle variazioni di umidità e in questo modo possono essere utilizzati per testare la qualità dell’aria erogata durante ventilazione artificiale”, conclude Caponero.

Il progetto è stato interamente auto-finanziato da ENEA e dall’Università Campus Bio-Medico di Roma.

Fonte: ENEA

La gara delle zucche giganti – video

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C’è chi prepara appetitosi risotti alla zucca, orgoglio gastronomico della bassa Mantovana. C’è chi le intaglia e le riempie di candele in vista di Halloween, festa ormai di risonanza mondiale.

E c’è chi invece, nelle zucche, ci naviga!

Siamo alla terza edizione della Krewelshofer Kürbis-Regatta, simpaticissima quanto impegnativa gara che si è svolta il 3 ottobre scorso sulle acque de lago di Krewelshofer, nella Germania occidentale. Il percorso acquatico è relativamente breve, solo 35 metri, ma richiede una certa maestria nel navigare all’interno dei biondi ortaggi appositamente intagliati per l’occasione. Maestria non solo dovuta alla necessità di mantenere un buon equilibrio nell’acqua, al fine di non capovolgercisi. Ma anche dovuta alla velocità con cui coprire la distanza, onde evitare che l’acqua, alla lunga, ammorbidisca troppo il “natante” e lo rompa.

È stato difficile lottare contro il vento per arrivare da qualche parte, ma se prendi il ritmo, funziona. Pensavo che sarebbe stato più difficile“, ha dichiarato il concorrente Mailin Matuschek.

Il peso minimo delle zucche, per essere ammesse alla competizione, è di 250 chilogrammi, ma per ridurre al minimo la possibilità di ribaltamento del “mezzo” in acqua, è preferibile un peso ancora maggiore. E’ possibile partecipare con proprie zucche e con proprie pagaie ed e’ consigliato un cambio di abbigliamento completo, in caso di ribaltamento del “natante”. La competizione è aperta a chiunque, purché sia in grado di nuotare.

I corridori più veloci, distinti in sei categorie, ottengono 200 euro in premi in denaro se gareggiano con zucche offerte dagli organizzatori, 300 euro se gareggiano con proprie zucche, abbastanza per comprare una barca per il prossimo anno.

Fonte: https://www.krewelshof.de/eifel/kuerbis-regatta_eifel.php

Stazione Spaziale Internazionale, e adesso?

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Tra qualche mese, la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) potrebbe rimanere priva di equipaggio, per la prima volta in oltre due decenni.

Il fallimento del lancio della navicella Soyuz avvenuto oggi mette in discussione la possibilità di inviare un nuovo equipaggio quando i tre astronauti attualmente a bordo dovranno rientrare sulla Terra.

L’incidente occorso in fase di lancio dovrà essere analizzato e, probabilmente, l’investigazione non sarà breve. La stessa NASA non si sbilancia sul futuro a breve termine delle missioni spaziali verso la ISS.

I tre astronauti attualmente a bordo della ISS dovrebbero rientrare sulla Terra a dicembre e si pensa che le provviste attualmente a bordo della Stazione Spaziale saranno sufficienti almeno fino a quel momento. Il problema grave è che, fino ad ora, solo le navette della ROSCOSMOS Soyuz garantivano il trasporto di astronauti verso e dalla ISS. Si tratta di razzi e navicelle super collaudati e affidabili ma un incidente come l’attuale non si era mai verificato e sarà quindi necessario investigare in maniera approfondita prima di rimetterci sopra un essere umano. La NASA, dal canto suo, non possiede più un proprio mezzo in grado di trasportare uomini in orbita fin dal 2011, quando il programma Shuttle fu pensionato.

Questo significa che, se la prossima Soyuz non sarà in grado di volare entro due mesi, gli astronauti attualmente in orbita rientreranno con la navicella di sicurezza attualmente ormeggiata alla Stazione Spaziale Internazionale e rientreranno sulla Terra, lasciando la ISS disabitata

Sarebbe davvero strano. La ISS è stata costantemente occupata da equipaggi che si sono dati il cambio l’un l’altro, con turni di cinque o sei mesi, dal novembre del 2000.

Non sarà nemmeno possibile estendere la missione dell’attuale equipaggio per più di qualche settimana, perchè la navicella Soyuz attualmente agganciata alla ISS è licenziata e garantita per un massimo di 200 giorni nello spazio, periodo che si compirà ai primi del mese di gennaio del 2019.

Diciamo subito che, anche priva di equipaggio la ISS potrà essere tenuta attiva e funzionante attraverso i controlli da Terra, almeno per un certo tempo ma tutte le attività scientifiche in corso dovrebbero essere sospese.

La navicella spaziale russa Soyuz MS-09 è esposta alla Stazione Spaziale Internazionale (ISS).  L'MS-09 ha trasportato l'astronauta NASA Serena M. Auñón-Chancellor, l'Alexander Gerst dell'Agenzia spaziale europea e il cosmonauta Sergey Prokopyev all'ISS nel giugno 2018.
Esistono alternative?
In realtà no, la Dragon Crew di SpaceX effettuerà il suo primo volo di test con equipaggio verso la ISS solo a giugno 2019 e, anche se l’azienda di Elon Musk sostiene di poter essere pronta per aprile, come da programma originale, difficilmente la NASA derogherà dal suo iter burocratico. Dello Starliner di Boeing non parliamo nemmeno, visto che difficilmente sarà pronto per un volo con equipaggio umano prima dell’autunno 2019.
in ogni caso, questo incidente ha evidenziato una volta di più la necessità di avere più navicelle Crew disponibili per essere pronti, in futuro, ad affrontare qualsiasi eventualità.

Insomma, questo incidente complica moltissimo le cose. Il prossimo volo programmato della Soyuz avrebbe dovuto trasportare sulla Stazione Spaziale internazionale, in qualità di comandante, il nostro Luca Parmitano.

Un’interessante ipotesi potrebbe spiegare il mistero dei Moai dell’isola di Pasqua

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La storia dei primi abitanti della piccola isola vulcanica di Rapa Nui, Situata al largo della costa del Cile, ormai da molto tempo incuriosisce archeologi. Rapa Nui, nota anche come l’isola di Pasqua, è un’isola lontaissima dalla terraferma, dotata di pochissime risorse naturali e, da sempre, ci si chiede come abbia fatto a svilupparsi e prosperarvi una popolazione che, al suo apice, doveva contare tra le 15 e le 20 mila anime. Ora, un team di ricercatori ritiene di aver scoperto come l’antica popolazione insulare sia stata in grado di mantenere la propria società per secoli in assenza di un’adeguata fornitura di acqua dolce, e perchè costruirono centinaia delle gradi statue note come moai.

Un resoconto del 18° secolo racconta del primo contatto europeo con gli abitanti delle isole del Pacifico e, secondo quei primi esploratori, gli abitanti di queste isole erano in grado di bere l’acqua di mare, non risucivano a spiegarsi altrimenti il fatto che risucissero a sopravivere su un’isola priva di fonti di acqua dolce. Oggi sappiamo che la fisiologia umana non è in grado di elaborare alte concentrazioni di acqua di mare che, alla lunga, porta alla morte per disidratazione. Nel 1887, gli abitanti dell’isola di Pasqua erano solo 110 prsone, in gran parte a causa degli europei che, tra commercio degli schiavi e malattie importate, li aveano decimati.

Questo drastico calo della popolazione portò anche alla perdita di quasi tutta la tradizione orale e la storia di quella gente.

Un team di ricercatori ha condotto due sondaggi sul campo in tutta l’isola. Con l’eccezione di due laghi di difficile accesso e un corso d’acqua che spesso si trasforma in una palude, scoprendo che l’isola di Pasqua non ha una fonte sostanziale di acqua dolce.

Il terreno vulcanico poroso dell’isola assorbe rapidamente la pioggia, causando una mancanza di ruscelli e fiumi“, ha spiegato in un comunicato l’autore dello studio Carl Lipo.

Il gruppo di ricercatori ha analizzato le grandi statue situate lungo la costa.

Quando piove, l’acqua, filtrata sottoterra attraerso il terreno poroso, scorre in profondità riemergendo dove la roccia incontra l’oceano. Quando le maree sono basse, si genera “un flusso di acqua dolce che si riversa direttamente in mare“. La miscela di acqua dolce e salata crea un'”acqua salmastra ma potabile lungo la costa” che contiene livelli di sale abbastanza bassi da essere consumati in modo sicuro dagli esseri umani, cosa che, secondo i ricercatori, gli isolano devono avere fatto per secoli.

Sebbene le fonti di acque sotterranee costiere siano di scarsa qualità, sono apparentemente sufficienti per sostenere la popolazione e consentire loro di costruire le magnifiche statue per cui l’isola di Pasqua è famosa“, hanno scritto gli autori nel loro studio pubblicato in Hydrogeology .

Secondo i risultati dello studio, le grandi statue venivano erette per segnalare le zone dove sfociavano le acque sotterranee, consentendo agli abitanti di raccogliere l’acqua dolce, costruire canali e realizzare depositi d’acqua costieri. Queste riserve avrebbero permesso agli abitanti di Rapa Nui a sopravvivere ai periodi di siccità diversificando le loro fonti d’acqua.

Restano, tuttavia, altre ipotesi che sostengono che le piccole cisterne che si trovano sull’isola potrebbero essere state utilizzate per la raccolta delle precipitazioni. Lipo, dal canto suo, sostiene che se la raccolta delle precipitazioni fosse stata così fondamentale per la cultura di Rapa Nui, le cisterne sarebbero state molto più grandi, mentre, invece, hanno una capacità limitata al massimo a 4 litri di acqua. Inoltre, Rapa Nui riceve mediamente solo 1.240 millimetri di pioggia l’anno. Associando questi dati al tasso di evaporazione riscontrato su Rapa Nui, le cisterne, se basate sulle precipitazioni, sarebbero state sufficienti per meno di quattro mesi l’anno.

Prossimamente, errà effettuata una uova campagna per accertare la correlazione tra i Moai e la disponibilità di acqua dolce nelle aree di costruzione.