lunedì, Aprile 21, 2025
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SpaceX e Space Adventures dal 2021 insieme per il turismo spaziale

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SpaceX ha trovato un nuovo partner per i voli commerciali dedicati al turismo spaziale. Sarà, almeno all’inizio, la navicella Dragon Crew il mezzo utilizzato per i voli spaziali turistici.
Il partner scelto da SpaceX è Space Adventures, una società che già da tempo promuove il turismo spaziale e che ha già lanciato nello spazio alcuni astronauti privati, tra cui Anousheh Ansari, Guy Laliberté e Mark Shuttleworth.
Space Adventures ha lavorato, in otto missioni, con sette clienti presso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Per queste missioni spaziali commerciali, sono stati utilizzati posti a pagamento sul razzo russo Soyuz per portare i clienti a destinazione. Questa esperienza già acquisita dimostra che Space Adventures, si trova in una posizione unica nel settore del turismo spaziale commerciale.
Ciò significa che SpaceX e Space Adventures probabilmente inizieranno ad effettuare voli turistici non appena la capsula Dragon conseguirà la licenza della NASA che autorizza al trasporto di esseri umani nello spazio, cosa che dovrebbe realizzarsi dopo la missione DE.MO 2 il prossimo maggio utilizzerà la Dragon Crew per portare due astronauti veterani della NASA fino alla Stazione Spaziale Internazionale. È probabile, quindi, che SpaceX e Space adventures inizieranno a pianificare voli turistici ed a vendere biglietti già nel 2021.
SpaceX, per certificare la capsula Dragon per il volo spaziale con esseri umani a bordo, ha lavorato con la NASA nel programma Commercial Crew. Questo programma ha comportato il collaudo e lo sviluppo della navicella spaziale Crew Dragon per il trasporto degli astronauti alla Stazione Spaziale Internazionale.
Il CEO e fondatore di SpaceX, Elon Musk, ha già parlato in precedenza di turismo spaziale a bordo della Crew Dragon, che può trasportare da quattro a sette passeggeri per volo. Musk e SpaceX hanno già riservato un viaggio turistico per un volo circumlunare al miliardario giapponese Yusaku Maezawa nel 2023, a bordo della astronave in corso di sviluppo e collaudo Starship.
I viaggi di turisti come astronauti privati di Space Adventures su Crew Dragon inizieranno tra la fine del 2021 o il 2022 (probabilmente nello stesso periodo o subito dopo che SpaceX avvierà il servizio regolare di astronauti per la NASA). Il veicolo spaziale decollerà da Cape Canaveral. In realtà, al momento, non sembra che saranno previste visite alla ISS ma saranno missioni che potranno durare, secondo quanto comunicato da SpaceX, fino a cinque giorni e prevederanno lanci bel oltre l’orbita bassa, più in alto rispetto a qualsiasi privato che in passato ha intrapreso un viaggio nello spazio.
Il viaggio, ovviamente, offrirà spettacolari e interessanti vedute della Terra, l’emozione del volo a gravità zero o quasi e la possibilità di mangiare e dormire a bordo della navicella. Da non sottovalutare sarà l’occasione di acquisire le ali di astronauta, concesse a chi vola oltre i 100 chilometri di altezza, là dove, convenzionalmente, finisce l’atmosfera e inizia lo spazio.
I turisti spaziali, oltre a pagare il biglietto per il volo, dovranno sottoporsi ad un addestramento spaciale che si terrà presso lo Space Center di SpaceX.
Non si sa ancora quale sarà il prezzo ma ci si aspetta che sarà abbastanza alto, probabilmente più costoso dei biglietti pagati per salire a bordo del veicolo spaziale della SpaceShipTwo della Virgin Galactic, la compagnia fondata da sir Richard Branson, che, come è noto, per un volo suborbitale (poco oltre i 100 chilometri di quota) di poche ore  chiede un prezzo superiore ai 200.000 dollari.

Il Messia del secondo millennio

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Negli ultimi anni abbiamo assistito al sorgere di strane teorie d’importazione americana, tutte basate su strampalerie sovraniste tra cui una delle più diffuse è la convinzione che avere il proprio nome scritto in tutte lettere maiuscole (come avviene ad esempio sui certificati di nascita) sia la peggiore jattura in quanto ciò starebbe a significare la schiavitù nei confronti dei Poteri Forti.
Annuario delle materie plastiche 1933 1934
Questa importanza estrema data ai nomi e alle parole, e al modo in cui vengono scritte, non è cosa di oggi: già nel secolo scorso ci fu in Italia uno strambo signore che faceva di anagrammi e sciarade il caposaldo delle proprie teorie.
Il curioso personaggio si chiamava Amilcare Pollini e si era autoproclamato nientemeno che Messia e Duomo (Dio + Uomo) di Milano.
Nato a Germignaga, vicino a Luino, nel 1905, si era trasferito da giovane a Milano dove ottenne un certo successo come editore stampando la Guida Pollini per gli Industriali, una sorta di “Guida Monaci” che gli diede l’agiatezza, ed altri volumi dello stesso genere: nel 1938 sposò la figlia di un filosofo rivoluzionario, tipo strambo e anarcoide, le cui strampalate teorie esoteriche lo influenzarono profondamente.
All’inizio Pollini conservava ancora una certa lucidità, ma in una notte d’incubo comprese finalmente che il suocero altri non era che il suo-cero, cioè colui che avrebbe illuminato il suo cammino: inoltre si chiamava E-u-genio (E’ un genio) Isid-oro (cioè Iside dea della sapienza e Oro dio dell’amore) A-zz-ario (Ario dall’A alla Z).
La passione del tutto innocente che Amilcare aveva sempre avuto per gli anagrammi e le sciarade degenerò quindi in una pazzesca teoria secondo cui “ogni parola rivela la sua funzione” e “la lotta tra Dio e il Demonio si nasconde nelle parole”.
Un giorno fu folgorato da una rivelazione: le iniziali del suo cognome e dei suoi tre nomi (Pollini Amilcare Pietro Angelo) formavano la parola PAPA! Esaminando poi attentamente il suo primo nome, A-mil-ca-re, comprese di abitare (A) da un millennio (mil) nella casa (ca) del Re (re). Ripensando al famoso detto Mille e non più Mille, comprese che ogni mille anni cambia scena, viene un nuovo Messia, e lui, A-mil-ca-re, non poteva essere altro che il Messia del millennio in corso.
A questo punto il Pollini prese in affitto un ufficio nella centrale Via Torino  e cominciò ad elaborare, stampare e spedire in giro per il mondo centinaia di manifestini scritti in cinque lingue, nei quali esponeva le sue teorie; inoltre cominciò a scrivere a tutti i capi di stato lettere di questo tenore: “Tu, De Ga-speri, che cosa speri? Non sai che chi vive De-Gasperando muore cantando?”, “Tu, Tru-man, sei l’uomo del trucco all’americana. Infatti, il Tru-cco c’è ma n-on si vede”.
Ad un certo punto, però, decise che il destinatario delle sue raccomandate-espresso doveva essere Papa Pacelli, Pio XII, che avrebbe dovuto, secondo lui, consegnargli nientemeno che le chiavi di San Pietro.
All’inizio si trattava di bonarie esortazioni, tipo: “Che cosa aspetti dunque, Pacelli, figlio mio diletto, a venire da me come ti ho ripetutamente ordinato? Non ascoltare i cattivi consiglieri che ti dicono di non venire, fa’ il tuo dovere, Pacelli, altrimenti va a finire che mi arrabbio”.
Visto che le buone maniere non avevano alcun effetto, Pollini lanciò un terribile ultimatum: il Papa doveva partire da Roma, per Milano, entro la mezzanotte del 31 dicembre 1949. Il mezzo di locomozione era a sua scelta: treno, aeroplano, automobile o bicicletta. Pena in caso di non-obbedienza, l’immediata distruzione della Basilica di San Pietro.
Purtroppo dicembre venne e passò, e il Papa a Milano proprio non si vedeva; Amilcare Pollini decise di concedere una proroga e scrisse in questi termini: “Bene hai fatto, Pacelli, a non venire. Hai compreso che l’umile pecorella non va dal Pastore e che il figlio non va dal Padre suo comodamente seduto in prima classe o in vagone letto. Ti concedo quindi di partire a piedi entro il 31 gennaio 1950. Non temere per la tua salute: io penso a tutto e ti ho concesso un inverno mite per agevolarti. Tu percorrerai sette chilometri al giorno e, come vedi, avrai il tempo di riposare, mangiare, dormire e dire messa ogni mattina. Arriverai a Milano il primo maggio e io della festa del lavoro profano farò anche la festa del lavoro sacro”.
La cosa si riseppe e la stampa cominciò ad occuparsi dello strambo profeta: quando un giornalista si permise di prospettargli la possibilità che il Papa non venisse, egli meditò un istante e rispose: “Se non viene il Papa, verrà Stalin… no, Sta-l-in non può venire perché lui sta là in Russia e non si può muovere. Ma non importa: scriva che se Pacelli non viene da me, io vado da Stalin”.
Evidentemente però Pollini, che aveva ormai dilapidato i milioni guadagnati in precedenza, restò a Milano, dove morì investito da un’auto nel 1956.

L’Artico sta diventando più verde. Questa è una brutta notizia per tutti noi

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Dallo spazio e con i droni, gli scienziati stanno osservando come l’Artico stia diventando sempre più verde. Questo è preoccupante sia per la regione che per il pianeta intero.
In questo momento l’Artico si sta riscaldando due volte più velocemente rispetto al resto del pianeta e questo sta avendo delle conseguenze gravi. Il permafrost si sta sciogliendo rapidamente e sta formando dei buchi nel paesaggio. Il materiale vegetale maceratosi in migliaia di anni, la torba, si sta seccando e bruciando a causa di incendi senza precedenti.
Utilizzando dati satellitari, droni e attività sul campo, un team di scienziati – ecologi, biologi, geografi, scienziati del clima e altro ancora – ha scoperto che la vegetazione sta diventando sempre più abbondante. Il fenomeno è noto come “inverdimento artico“, e con esso si sono creati effetti a catena con implicazioni sia per il paesaggio artico che per il clima del mondo in generale.
Nonostante la sua “gelida reputazione”, l’Artico non è un luogo senza vita. A differenza dell’Antartide, che non ospita alberi o molti animali, visibili senza un microscopio, l’Artico brulica di vita, in particolare di piante. Le sue erbe e arbusti si adattano magnificamente per sopravvivere agli inverni in cui i loro giorni sono completamente privi di luce, perché la vegetazione giace coperta da uno strato di neve, sopravvivendo per lo più sottoterra come radici. Quando arriva il disgelo, le piante hanno forse un mese per fare tutto il necessario per sopravvivere e riprodursi: produrre semi, assorbire sostanze nutritive, raccogliere la luce solare.
A causa del surriscaldamento globale negli ultimi decenni, i satelliti hanno osservato l’Artico diventare sempre più verde. Ai giorni d’oggi, la risoluzione delle moderne fotocamere potrebbe essere di 10 per 10 metri. Ma anche con questi strumenti, gli ecologisti non possono decifrare esattamente l’aspetto di queste comunità vegetali senza essere sul campo.
Innanzitutto, l’Artico è buio 24 ore al giorno in inverno. “L’utilizzo dei satelliti in quella parte del mondo, è una sfida a lungo termine“, afferma Jeffrey Kerby, ecologo e geografo dell’Istituto di studi avanzati di Aarhus. È stato uno degli autori co-conduttori di un recente articolo sull’inverdimento artico pubblicato su Nature Climate Change da questo gruppo internazionale di scienziati, che ha ricevuto finanziamenti dalla National Geographic Society e dalle agenzie governative nel Regno Unito, Nord America ed Europa.
Anche quando l’Artico ha 24 ore di luce in estate, è comunque un problema. “Poiché il sole è così basso, da proiettare grandi ombre in tutto il territorio, non facilitando le nostre ricerche” , afferma Kerby.
Con l’aiuto di piccoli droni, lanciati direttamente sul campo, i ricercatori sono riusciti ad esplorare i paesaggi per decodificare in modo dettagliato come si sta trasformando l’Artico. Un drone può avvicinarsi abbastanza al suolo per comunicare quali piante potrebbero essere utili in un particolare paesaggio durante il suo surriscaldamento. I ricercatori possono anche quantificare il modo in cui un’area sta cambiando, fotografando, attraverso i droni, le stesse regioni anno dopo anno e distribuendo bustine di tè. “Teniamo le bustine di tè nel terreno, per oltre un anno, due anni, ecc., così da poter vedere quanto di tutto ciò si decompone in questi diversi microclimi“, afferma Isla Myers-Smith, ecologista del cambiamento globale presso l’Università di Edimburgo e coautore del nuovo documento.
Il cambiamento non è causato da specie invasive che si spostano nell’Artico per sfruttare il clima caldo. Sono le specie autoctone più alte come gli arbusti che stanno diventando sempre più abbondanti.
Ad esempio, gli arbusti più alti intrappolano più neve in inverno. Questa neve potrebbe accumularsi in uno strato isolante che potrebbe impedire al freddo di penetrare nel terreno. “In modo da accelerare – potenzialmente – il disgelo del permafrost“, afferma Myers-Smith. La vegetazione è più scura della neve e quindi assorbe più calore, aggravando ulteriormente il disgelo del terreno.
Lo scongelamento del permafrost è uno degli effetti più gravi riguardanti il cambiamento climatico. Il permafrost contiene carbonio accumulato per migliaia di anni sotto forma di materiale vegetale. Un disgelo – forse esacerbato da una vegetazione più abbondante – minaccia di rilasciare più CO2 e metano nell’atmosfera. Più carbonio nell’atmosfera significa più riscaldamento, il che aumenta il disgelo del permafrost.
Lo scioglimento del permafrost, rilascerebbe anche più acqua nel terreno, portando a ulteriori effetti a catena sulla vegetazione. “Quando il terreno è ghiacciato, le piante non hanno accesso all’acqua“, afferma Kerby. “Quindi è quasi come essere in un deserto per una parte dell’anno“.
Un disgelo precoce potrebbe significare che le piante hanno dato il via alla loro crescita all’inizio dell’anno. Man mano che questi terreni si scongelano sempre più in profondità, rilasciano anche goccioline di sostanze nutritive che sono state intrappolate nel sottosuolo per migliaia di anni, potenziando la crescita di queste specie di piante artiche sempre più abbondanti. Ciò significa che il paesaggio potrebbe diventare ancora più verde e persino più ospitale per le piante che possono sfruttare temperature più calde.
Nel sottosuolo si trova ancora gran parte del mistero dell’Artico: in questi ecosistemi della tundra, fino all’80% della biomassa è sottoterra. “Quindi, quando vediamo la superficie verde, questa è solo la punta dell’iceberg, in termini di biomassa“, afferma Myers-Smith. “Quindi potrebbe darsi che molte delle risposte al cambiamento climatico di queste piante siano in realtà tutte nel mondo sotterraneo e che siano dunque molto difficili da monitorare“.
Per gli scienziati la parte davvero preoccupante è il fatto che nel permafrost c’è il doppio del carbonio rispetto all’atmosfera. “Si tratta di una grande quantità di carbonio che è rimasta per migliaia di anni bloccata nel ghiaccio“, afferma Kerby.
Potrebbe sembrare strano che gli umani facciano il tifo contro le piante. Ma a volte la diffusione del verde non è sempre una buona cosa.
FONTE: Wired

Elizabeth Williams e la scoperta di Plutone

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Il 18 febbraio del 1930 l’astronomo Clyde Tombaugh scopri quello che allora sarebbe diventato l’ultimo dei pianeti del sistema solare, quello che ne segnava gli estremi confini conosciuti, Plutone.
La scoperta fu possibile grazie ai calcoli di un matematico dimenticato dalla storia, quel matematico era una donna, Elizabeth Williams, che lavorava per il famoso astronomo Sir Percival Lowell, che fu il primo a teorizzare l’esistenza del nono pianeta.
Lowell purtroppo non seppe mai della scoperta in quanto mori prima che il suo successore, Tombaugh, trovasse il pianeta studiando migliaia di foto in cerca di un puntino in movimento sullo sfondo del cielo punteggiato di stelle.
Per trovare Plutone entrambi si affidarono ai calcoli della Williams. La matematica tuttavia fu dimenticata dalla storia che contribuì a scrivere.
Non sappiamo molto di lei, il che è una sfortuna” ha detto Catherine Clark, una dottoranda in astronomia che opera presso quello che ora è noto come Lowell Observatory. “Sappiamo così tanto su Percival Lowell e Clyde Tombaugh, e pochissimo su chi effettuò quotidianamente i calcoli“.
Quei calcoli erano di vitale importanza per la ricerca del pianeta che si basava su quanto riscontrato da Lowell nelle osservazioni dei moti di Urano e Nettuno. L’insigne astronomo notò per primo che le orbite dei pianeti più esterni del sistema solare non erano come sarebbero dovute essere. Questa discrepanza delle orbite fece balenare nella mente di Lowell l’idea che il sistema solare era incompleto, ci doveva essere un corpo ancora più lontano che con la sua presenza influenzava le orbite dei due giganti.
Per trovare Plutone non si poteva fare a meno di calcoli molto complessi e questi calcoli portarono in scena Elizabeth Williams. All’epoca non esistevano i computers e i calcoli venivano affidati a veri e propri “calcolatori umani”, spesso donne che eseguivano a mano tutti i complessi passaggi matematici richiesti dagli astronomi. La Williams calcolò quindi il punto esatto dove cercare l’oggetto mancante del sistema solare basandosi sulle discrepanze orbitali osservate da Lowell.
Lowell non trovò Plutone e la ricerca per alcuni anni andò in stallo prima che Tombaugh riprendesse la caccia allo sfuggente pianeta. Ma il duro lavoro di Tombaugh, grazie ai precisi calcoli della Williams, venne ripagato, il 18 settembre di 90 anni fa Tombaugh osservò un puntino che in alcune lastre fotografiche scattate a distanza di tempo cambiava posizione contro lo sfondo stellato.
Tuttavia la Williams non vide mai Plutone. La matematica si sposò nel 1922 e la vedova di Sir Percival Lowell la licenziò perché non riteneva appropriato assumere una donna sposata. La Williams con il marito trovò una nuova occupazione presso l’osservatorio di Harvard in Giamaica. Nel 1935, la Williams rimase vedova e si trasferì nel New Hampshire, dove morì in povertà.
Catherine Clark ha tenuto una presentazione sulla vita di Elizabeth Williams e il suo lavoro al 235° incontro dell’American Astronomical Society, tenutosi a Honolulu il mese scorso, sulla base della sua collaborazione con lo storico dell’Osservatorio Lowell, Kevin Schindler.
La Clark, parlando con Space.com, ha affermato che è stata colpita dalla storia della Williams e quello che lo ha fatto di più è stato “capire quando le donne sono entrate per la prima volta in questo campo e cosa hanno fatto inizialmente“.
La Williams aveva un talento particolare nel suo lavoro, ha aggiunto Clark. “Oltre a questi incredibili calcoli matematici molto avanzati che eseguiva, era anche ambidestra e scriveva simultaneamente con entrambe le mani“, ha detto. “Scriveva in corsivo con la mano destra e in stampatello con la sinistra“.
Decenni dopo il lavoro della Williams, ovviamente, gli astronomi non hanno bisogno che un matematico svolga a meno complessi calcoli orbitali. “Oggi facciamo molto affidamento sui moderni computer per fare il nostro lavoro e siamo in grado anche di fare un po’ di scienza davvero folle“, ha detto Clark. Ma studiando come gli astronomi hanno lavorato in passato, ha detto, “ti riporta davvero alla storia e ti rende grato a queste persone, in particolare queste donne, che hanno fatto questi calcoli“.
L’oblio in cui è caduto il lavoro della Williams è anche un promemoria dei modi in cui le donne sono state eliminate dalla storia della scienza. “Anche se erano nell’ombra“, ha detto Clark, “[le donne] hanno molto contribuito all’astronomia“.
Fonte: Space.com

Il vulcano Tungurahua mostra segnali di un “potenziale collasso”

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Uno dei più importanti vulcani del Sud America sta dando di un possibile prossimo collasso.
Il vulcano Tungurahua in Ecuador – noto localmente come “Il Gigante Nero” – mostra i segni distintivi dell’instabilità del fianco, che potrebbe provocare una frana colossale.
Una nuova ricerca, condotta dal Dr. James Hickey della Camborne School of Mines, ha suggerito che la recente attività del vulcano ha portato a una rapida e significativa deformazione sul fianco occidentale.
I ricercatori ritengono che la forza motrice che causa questa deformazione potrebbe portare ad un aumentato rischio di collasso del fianco, causando danni diffusi all’area locale circostante.
La ricerca suggerisce che il vulcano dovrebbe essere attentamente monitorato per cercare segnali di allerta precoce più forti di un potenziale collasso.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Earth & Planetary Science Letters.
Il dottor Hickey, che ha sede presso il Penryn Campus dell’Università di Exeter, in Cornovaglia, ha dichiarato: “Usando i dati satellitari abbiamo osservato una deformazione molto rapida del fianco ovest del Tungurahua, e la nostra ricerca suggerisce sia causata da squilibri tra il magma fornito e il magma in eruzione“.
Il vulcano Tungurahua ha una lunga storia di collasso del fianco ed è stato spesso attivo nell’ultimo ventennio. L’attività del 1999 ha portato all’evacuazione di 25.000 persone dalle comunità vicine.
Una precedente eruzione di Tungurahua, circa 3000 anni fa, ha causato un precedente, parziale collasso del fianco occidentale del cono vulcanico.
Questo crollo ha portato a una vasta valanga di detriti di roccia, terra, neve e acqua in movimento che ha coperto 80 chilometri quadrati, l’equivalente di oltre 11.000 campi da calcio.
Da allora, il vulcano si è costantemente ricostruito nel tempo, raggiungendo il picco con un cono ripido più di 5000 m di altezza.
Tuttavia, il nuovo fianco ovest, sopra il sito del crollo di 3000 anni fa, sta mostrando ripetuti segni di rapida deformazione mentre gli altri fianchi rimangono stabili.
La nuova ricerca ha dimostrato che questa deformazione può essere spiegata da un deposito di magma superficiale e temporaneo sotto il fianco ovest. Se questo rifornimento di magma continuerà, il volume puro può causare l’accumulo di stress all’interno del cono vulcanico, e quindi promuovere una nuova instabilità del fianco occidentale e il suo potenziale collasso.
Il dottor Hickey ha aggiunto: “L’apporto di magma è uno dei numerosi fattori che possono causare o contribuire all’instabilità del fianco vulcanico, quindi mentre esiste il rischio di un possibile collasso del fianco, l’incertezza di questi sistemi naturali significa che potrebbe rimanere stabile. Tuttavia, è necessario continuare a tenerlo d’occhio“.
Fonte: Phys.org

Until the end of time (fino alla fine del tempo) di Brian Greene

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Nella pienezza dei tempi morirà tutto ciò che vive“. Con questa triste verità Brian Greene, fisico e matematico alla Columbia University, autore di libri di successo come “L’universo elegante” e co-fondatore della celebrazione annuale della scienza e dell’arte di New York conosciuta come World Science Festival, imposta in “Until to the End of Time” nel viaggio finale, una meditazione su come continuiamo a fare ciò che facciamo, perché e come andrà a finire male, e perché importa comunque.

Perché andare avanti è ciò che facciamo, costruendo ponti, astronavi e famiglie, componendo grandi sinfonie e altre opere d’arte, dirigendo film, conducendo guerre e campagne presidenziali, anche se non solo moriremo, ma tutto finisce ovunque. Nella pienezza dell’eternità, secondo ciò che la scienza ora pensa di conoscere di noi e dell’universo.

Fino alla fine del tempo” è enciclopedico nella sua ambizione e nella sua erudizione, spesso straziante, pieno di troppe profondità, così come di descrizioni delle teorie di una galassia di pensatori contemporanei, da Chomsky a Hawking, e aneddoti della stessa vita di Greene.

Occasionalmente è anche afflitto da distese di prosa che ti fanno pensare che l’eternità verrà prima che tu possa superarle, specialmente quando Greene sta discutendo argomenti impegnativi come l’entropia. Se avessi veramente capito l’entropia, sospetto che starei scrivendo questa recensione in un ufficio del MIT.
 

L’idea principale di Greene, la sua grande teoria unificata dello sforzo umano, che si espande sui pensieri di persone come Otto Rank, Jean-Paul Sartre e Oswald Spengler, è che vogliamo trascendere la morte attaccandoci a qualcosa di permanente che ci sopravviverà: l’arte , scienza, le nostre famiglie e così via.

Per Greene questo impulso ha assunto la forma di una devozione permanente alla matematica e alla fisica, della ricerca di leggi e verità che trascendono il tempo e il luogo. “L’incantesimo di una prova matematica potrebbe essere che resiste per sempre“, scrive.

Se muore, il lavoro sopravvive come parte del corpo della scienza e della conoscenza. Ma come cosmologo, sa che questa è un’illusione: “Come chiarirà il nostro viaggio nel tempo, la vita è probabilmente transitoria e ogni comprensione che è sorta con il suo emergere quasi certamente si dissolverà con la sua conclusione. Nulla e ‘definitivo. Niente è assoluto“.

Deprimente. Ma un giorno, racconta, ebbe una realizzazione, una sorta di conversione alla gratitudine. La vita e il pensiero potrebbero occupare solo una piccola oasi nel tempo cosmico, ma, scrive, “Se lo vivi pienamente, immaginando un futuro privo di stelle, pianeti e cose che pensano, il tuo rispetto per la nostra epoca può arrivare alla riverenza“.

L’universo si sta espandendo – perché? Finora la migliore spiegazione è che una virulenta forza antigravitazionale soprannominata “inflazione” – e stranamente permessa dalle equazioni di Einstein – agì brevemente durante la prima frazione di trilione di secondo e dilatò tutto, ma ad astronomi ed astrofisici manca ancora la pistola fumante che lo dimostri.

Tutte le creature viventi che conosciamo sulla Terra condividono lo stesso kit di strumenti genetici, basato sul DNA. E siamo tutti alimentati a batteria, derivando energia da una molecola chiamata adenosina trifosfato, in breve ATP. Ci dice Greene che ogni cellula dei nostri corpi consuma circa 10 milioni di queste molecole ogni secondo.

Verso l’alto passiamo attraverso l’emporio delle idee ai piani dedicati alla coscienza, al libero arbitrio, al linguaggio e alla religione. Non indugiamo a lungo su nessun piano. Greene è come uno di quei consulenti di shopping personalizzati. Conosce le merci, le idee vengono lanciate in ogni dipartimento. Coinvolge tutti gli esperti – da Proust a Hawking – e cerca di essere un broker onesto sulle risposte a domande alle quali non possiamo davvero rispondere.

Perché gli umani raccontano storie?

C’è stato un vantaggio evolutivo nel sottrarre tempo dalla caccia per sedersi attorno al fuoco a raccontarci storie? Forse così abbiamo cementato il legame che ci unisce come esseri umani? L’immaginazione condivisa è un modo di praticare la navigazione in territori sconosciuti o una guida per vivere la tua vita?

La fisica può spiegare non solo come funziona la mente – neuroni e impulsi elettrochimici – ma anche spiegare la sensazione di avere una mente, vale a dire la coscienza? Greene spera cautamente di poterlo fare. “Che la mente possa fare tutto ciò che fa è straordinario. Che la mente possa compiere tutto ciò che fa con nient’altro che il tipo di ingredienti e tipi di forze che tengono insieme la mia tazza di caffè, lo rende ancora più straordinario”.

Due temi principali attraversano questa storia. Il primo è la selezione naturale, l’infinito processo inventivo di evoluzione che mantiene gli organismi in forme e codipendenze sempre più complesse. Il secondo è quello che Greene chiama il “passo due entropico“. Questo si riferisce alla proprietà fisica nota come entropia. In termodinamica indica la quantità di calore – energia sprecata – inevitabilmente prodotta da un motore a vapore, ad esempio mentre attraversa il suo ciclo di espansione e contrazione. È la ragione per cui non puoi costruire una macchina a moto perpetuo. Nella fisica moderna è una misura di disordine e informazione. L’entropia è un grande concetto nella teoria dell’informazione e nei buchi neri, così come nella biologia.

Siamo tutti piccoli motori a vapore, a quanto pare, e tutto ciò che realizziamo ha un costo. Questo è il motivo per cui il tubo di scarico diventa troppo caldo per essere toccato, o perché la tua scrivania tende a diventare più ingombra alla fine della giornata.

Alla fine, dice Greene, l’entropia ci prenderà tutti e prenderà tutto il resto nell’universo, abbattendo ciò che l’evoluzione ha costruito. “Le entropiche due fasi e le forze evolutive della selezione arricchiscono il percorso dall’ordine al disordine con una struttura prodigiosa, ma stelle o buchi neri, pianeti o persone, molecole o atomi, le cose alla fine cadono a pezzi“, scrive.

In una sezione finale virtuosistica Greene descrive come funzionerà invitandoci a salire su un allegorico Empire State Building; su ogni piano l’universo è 10 volte più vecchio. Se il primo piano è l’anno 10, ora siamo appena sopra il decimo (10 miliardi di anni). Quando arriveremo all’11° piano il sole sarà scomparso e con esso probabilmente ogni vita sulla Terra. Man mano che saliamo più in alto, siamo esposti a distese di tempo che fanno sembrare l’età attuale dell’universo come meno di un battito di ciglia.

Alla fine la galassia della Via Lattea cadrà in un buco nero. All’incirca al 38° piano del futuro, quando l’universo ha 100 trilioni di trilioni di miliardi di anni, i protoni, i mattoni degli atomi, si dissolveranno da sotto di noi, lasciando lo spazio popolato da una sottile foschia di elettroni leggeri e una spruzzata di radiazioni.

In un lontano, lontano, lontano, lontano futuro, persino tenere un pensiero richiederà più energia di quella che sarà disponibile nell’universo.

Sarà un posto vuoto e freddo che non si ricorda di noi.

La descrizione di Nabokov di una vita umana come una ‘breve fenditura di luce tra due eternità dell’oscurità’ può applicarsi al fenomeno della vita stessa“, scrive Greene.

Alla fine tocca a noi fare di questo ciò che vogliamo. Possiamo contemplare l’eternità, conclude Greene, “ma anche se possiamo raggiungere l’eternità, apparentemente non possiamo toccare l’eternità“.

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Luniverso elegante

 

Nuove dettagliate immagini dell’asteroide Pallas

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Nel 1802, l’astronomo tedesco Heinrich Olbers osservò quello che pensava fosse un pianeta all’interno della cintura principale degli asteroidi. Col tempo, gli astronomi hanno chiamato questo corpo “Pallas”, dalla dea greca Atena. La successiva scoperta di molti altri asteroidi nella cintura principale, ha portato alla riclassificazione di Pallas a grande asteroide, il terzo più grande nella dopo Cerere e Vesta.
Per secoli, gli astronomi hanno cercato di osservare meglio Pallas per saperne di più sulle sue dimensioni, sulla sua forma e sulla sua composizione. A cavallo del secolo, gli astronomi giunsero alla conclusione che si trattasse di uno sferoide oblato, ovvero una sfera allungata.
Grazie a un nuovo studio condotto da un team internazionale, sono state finalmente scattate le prime immagini dettagliate di Pallas, che rivelano che somiglia ad una “pallina da golf“, per via delle sue forti increspature.
Pierre Vernazza del Laboratoire d’Astrophyisque de Marseille in Francia, è stato il principale investigatore del team, che comprendeva membri di 21 istituti di ricerca di tutto il mondo. Michaël Marsset, associato post-dottorato del Dipartimento di Scienze della Terra, Atmosferiche e Planetarie del MIT, è stato l’autore principale dello studio (recentemente apparso sulla rivista Nature Astronomy).
Per anni, gli astronomi hanno ritenuto che Pallas orbitasse lungo un’orbita molto inclinata rispetto alla maggior parte degli oggetti nella cintura di asteroidi principale. Mentre la maggior parte di questi oggetti segue lo stesso percorso approssimativamente ellittico attorno al Sole e ha inclinazioni orbitali inferiori a 30°, l’orbita di Pallas è inclinata di 34.837° rispetto al piano solare (per ragioni che sono rimaste un mistero).

Per motivi di studio, Vernazza e il suo team hanno ottenuto 11 immagini di Pallas che sono state acquisite dallo strumento di ricerca esopianeta spettroscopica ad alto contrasto (SPHERE) sul Very Large Telescope dell’ESO (VLT). Queste immagini sono state scattate nel 2017 e nel 2019 quando il team ha riservato uno dei quattro telescopi che compongono il VLT per catturare immagini di Pallas quando si trovava nel punto più vicino alla sua orbita verso la Terra.
Grazie all’estremo sistema di ottica adattiva dello strumento SPHERE, il team ha osservato una superficie che era completamente increspata dai crateri. Gli scienziati hanno ipotizzato che la natura di questa superficie, sia causata dall’inclinazione dell’orbita di Pallas. Questa inclinazione, infatti, ha provocato numerosi impatti durante gli oltre quattro anni e mezzo (1.686 giorni) che sono stati necessari per completare una singola orbita attorno al Sole.
Questi impatti, sarebbero quattro volte più dannosi delle collisioni subite da due asteroidi nella stessa orbita. Marsset ha spiegato a MIT News:
L’orbita di Pallas implica impatti ad altissima velocità. Da queste immagini, ora possiamo dire che Pallas è l’oggetto più craterizzato che conosciamo nella cintura degli asteroidi. È come scoprire un nuovo mondo“.
Usando le 11 immagini, che sono state prese da diverse angolazioni, il team le ha compilate per generare una ricostruzione 3D della forma dell’asteroide, nonché una mappa del cratere dei suoi poli e parti della sua regione equatoriale. Da questo, sono stati in grado di identificare 36 crateri più grandi di 30 km (18,64 mi) di diametro, ovvero circa un quinto del diametro del cratere da impatto che ha ucciso i dinosauri (il cratere Chicxulub).
Sebbene piccoli rispetto ai crateri trovati sulla Terra e su altri corpi, i crateri di Pallas sembrano coprire almeno il 10% della superficie dell’asteroide, il che suggerirebbe che ha avuto una storia piuttosto violenta. Per determinare quanto violenta, il team ha eseguito una serie di simulazioni che hanno modellato le interazioni tra Pallas e il resto della cintura principale da quando si è formata circa 4 miliardi di anni fa.
Queste simulazioni hanno tenuto conto delle dimensioni, della massa e delle proprietà orbitali degli asteroidi, nonché delle distribuzioni di velocità e dimensioni degli oggetti all’interno della cintura principale. Hanno quindi registrato tutte le volte una collisione simulata con uno dei tre corpi che ha prodotto un cratere largo almeno 40 km (le dimensioni della maggior parte dei crateri su Pallas).
Marsset ha dichiarato: “Pallas subisce da due a tre volte più collisioni di Cerere o Vesta, e la sua orbita inclinata è una spiegazione semplice per la strana superficie che non vediamo su nessuno degli altri due asteroidi“.
Altre scoperte risultanti dalle ultime immagini di Pallas, includono un punto luminoso nel suo emisfero meridionale e un enorme bacino di impatto lungo il suo equatore. Anche se il team non è sicuro di sapere cosa potrebbe essere il punto luminoso, teorizza comunque che potrebbe trattarsi di un deposito di sale molto grande sulla superficie. Questo si basa in parte sulla loro ricostruzione 3D, che ha fornito stime aggiornate sul volume di Pallas.
Da questo, il team ha calcolato che Pallas è abbastanza diverso in termini di densità rispetto a Cerere o Vesta e che probabilmente si è formato da una combinazione di ghiaccio d’acqua e silicati miliardi di anni fa. Man mano che il ghiaccio d’acqua si scioglieva nel tempo, avrebbe idratato i silicati, formando depositi di sale all’interno che avrebbero potuto essere esposti a urti. Un’altra possibile prova a sostegno riguarda la pioggia di meteoriti Geminidi.
Questo avviene ogni dicembre mentre la Terra attraversa la nuvola di frammenti dell’asteroide Fetonte – un asteroide vicino alla Terra che si pensa sia un frammento di Pallas che si è avvicinato all’orbita terrestre. Dato che i Geminidi hanno un vasto contenuto di sodio, Marsset e i suoi colleghi hanno teorizzato che questi potrebbero aver avuto origine dai depositi di sale all’interno di Pallas.
Per quanto riguarda il bacino di impatto, che misura una larghezza stimata di 400 km, il team ha simulato vari impatti lungo l’equatore e ha seguito i frammenti che si sono formati. Dalle loro simulazioni, il team ha concluso che il bacino di impatto è probabilmente il risultato di una collisione avvenuta circa 1,7 miliardi di anni fa con un oggetto di diametro compreso tra 20 e 40 km.
Queste scoperte sono le ultime di una serie di scoperte che sono state fatte negli ultimi anni nella cintura di asteroidi principale. La missione Dawn ha confermato l’esistenza di composti organici su Cerere; Hubble ha scoperto un asteroide binario che si comporta come due comete, e il fatto che Hygeia, (il quarto oggetto più massiccio della Cintura) sia in realtà sferico, rendendolo il più piccolo oggetto del genere nel Sistema Solare.
FONTE: Universe Today

Il Sole come mai è stato visto

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Grazie al telescopio solare Daniel K. Inouye abbiamo oggi a disposizione immagini della superficie del Sole di una risoluzione mai ottenuta prima. I ricercatori hanno ottenuto un’immagine che consente di osservare elementi ampi solamente 30 chilometri.
Nella foto che segue, scattata dal Solar Dynamics Observatory (SDO) della NASA, in orbita geosincrona sopra la Terra ecco come ci appare il Sole.
sun 2
L’immagine, non certo priva di interessanti dettagli nonostante i 150 milioni di chilometri di distanza della nostra stella non può rivaleggiare con quelle realizzate dal telescopio solare Daniel K. Inouye, nonostante SDO si trovi fuori in orbita geosincrona non ostacolato dall’atmosfera terrestre.
Come può un telescopio solare basato a terra competere con strumenti posti fuori dall’atmosfera terrestre e anzi, fare anche meglio? Grazie ad alcuni fattori, le dimensioni ad esempio, dato che lo specchio del Daniel K. Inouye Solar Telescope o DKIST ha un diametro di 4,24 metri, le ottiche adattive e la sua posizione.
Il DKIST è un telescopio costruito appositamente per studiare il Sole in lunghezze d’onda visibili o vicine all’infrarosso, e sulla Terra non esistono strutture del genere più grandi. Denominato fino al 2013 Advanced Technology Solar Telescope o ATST prende il nome da Daniel K. Inouye senatore degli Stati Uniti che ha rappresentato a Washington lo Stato delle Hawaii sin dalla sua ammissione come 50º Stato (1959), dapprima in qualità di primo deputato alla Camera dei Rappresentanti, quindi come senatore dal 1963, venendo poi sempre rieletto fino alla morte, avvenuta nel 2012 (Inouye, di origini giapponesi è stato eroe di guerra).
DKIST si trova alle Hawaii uno dei luoghi migliori per via del cielo limpido durante tutto il giorno.
Tra il DKIST e gli strumenti posti fuori dall’atmosfera della Terra esiste lo stesso parallelo tra Hubble Space Telescope e strumenti di osservazione molto più grandi operanti a terra. HST monta uno specchio relativamente piccolo di “soli” 2,4 metri di diametro a differenza del telescopio terrestre più grande, l’European Extremely Large Telescope in fase di costruzione in Cile che una volta ultimato avrà uno specchio primario costituito da 798 segmenti del diametro di 1,45 m, portati a 931 con un set per manutenzioni, arrivando ad un diametro di 39 m e un’apertura centrale di 11,1 m. Hubble, nonostante le sue dimensioni inferiori, ha caratteristiche uniche essendo uno strumento adatto a lavorare nello spazio, in grado di raccogliere molta più luce senza i disturbi dovuti allo spesso strato atmosferico sottostante necessitando così di uno specchio di dimensioni inferiori.
Ma tornando all’immagine ecco come la NASA / AURA / NSO la descrivono:

Super Close up Sun 640x640 1

“Le strutture a forma di cellula – ciascuna delle dimensioni del Texas – sono la firma di movimenti violenti che trasportano il calore dall’interno del sole alla sua superficie. Il materiale solare caldo (plasma) si alza nei centri luminosi delle “cellule”, si raffredda e poi affonda sotto la superficie in corsie scure in un processo noto come convezione. In queste corsie buie possiamo anche vedere i piccoli e luminosi marcatori di campi magnetici. Mai visti prima con questa chiarezza, si pensa che questi punti luminosi incanalino l’energia verso gli strati esterni dell’atmosfera solare chiamata corona. Questi punti luminosi possono essere al centro del motivo per cui la corona solare è di oltre un milione di gradi”.
Le immagini hanno subito una leggera elaborazione per rimuovere il rumore e migliorare la forma delle strutture, i dati però sono ancora sotto analisi scientifica.
Osservare queste strutture ci ricorda che il Sole non è solo una palla di gas, ma un agglomerato di idrogeno, elio e altri elementi allo stato di plasma che si muove dal nucleo, dove avviene la reazione di fusione nucleare, fino alla superficie e quanto DKIST ci consentirà di osservare, ci potrà aiutare a capire molto sul funzionamento del Sole e delle sue dinamiche, aiutandoci nella comprensione della sua evoluzione, consentendoci di acquisire conoscenze che ci porteranno a realizzare macchine che sfruttano la stessa reazione di fusione nucleare, una fonte di energia virtualmente illimitata e relativamente pulita.
Le osservazioni inoltre ci potrebbero aiutare a prevedere le espulsioni di massa coronale, di fondamentale importanza in caso di missioni spaziali umane e non solo.
Presto DKIST sarà pienamente operativo e quando sarà affiancato dalla Parker Solar Probe, sviluppata dalla NASA e lanciata nel 2018 che studia il vento solare e dalla Solar Orbiter dell’ESA, lanciata il 7 febbraio, e studierà i poli della nostra stella, ci sarà certamente da imparare tantissimo sulle dinamiche solari.
Fonte: https://www.extremetech.com/extreme/305564-scientists-snap-closest-ever-view-of-the-sun

Nuove misurazioni effettuate con lenti gravitazionali spingono la discrepanza della costante di Hubble oltre 5σ

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Poco si sa su cosa siano realmente la materia oscura e l’energia oscura, le componenti dominanti dell’universo, ma il modello standard della cosmologia del Big Bang, noto come MCDM, incorpora le conseguenze sull’universo della loro esistenza.
L‘energia oscura, presume il modello, assume la forma di una costante cosmologica Λ o di una densità di energia costante per unità di volume di vuoto. E la materia oscura è fredda, cioè non relativistica, e interagisce solo attraverso la gravità e forse la forza debole.

Diagramma dell'effetto lente su un quasar
Diagramma dell’effetto lente su un quasar. Credito: Freddie Pagani

Le osservazioni dell’universo generalmente concordano bene con il modello ΛCDM, ma un’eccezione emergente è la costante di Hubble H0, l’attuale tasso di espansione dell’universo.
Se combinato con le misurazioni del fondo cosmico a microonde, un riflesso della struttura spaziale dell’universo primordiale, il modello MCDM prevede che l’universo oggi dovrebbe espandersi a una velocità di 67,4 ± 0,5 km/s/Mpc. Le misurazioni dirette di H0, basate su osservazioni di candele standard — stelle variabili Cefeide e supernovae di tipo Ia — danno un valore diverso: 74,0 ± 1,4 km/s/ Mpc.
Guidata da Sherry Suyu, la collaborazione H0LiCOW hanno utilizzato utilizzano quasar osservati tramite una lente gravitazionale per misurare in modo indipendente il valore di H0. L’ultimo risultato ottenuto dal gruppo, 73,3 + 1,7 – 1,8 km/s/Mpc, concorda bene con il valore standard ottenuto utilizzando le candele. Combinando le misure H0LiCOW e candele standard si ottiene un H0 di 73,8 ± 1,1 km/s/ Mpc, che differisce dal valore ΛCDM per 5,3 deviazioni standard.
La sfida insita in qualsiasi misurazione diretta di H0 sta nel misurare le distanze da oggetti astronomici lontani; le loro velocità relative rispetto alla Terra vengono dedotte dallo spostamento verso il rosso della loro radiazione luminosa.
Le candele standard sono allettanti perché le loro luminosità sono note, quindi le loro distanze possono essere calcolate da quanto luminose appaiono sulla Terra. Nella misurazione complementare di H0LiCOW, i ricercatori hanno studiato i quasar la cui luce è fortemente deviata dalle galassie in primo piano, apparendo come immagini multiple distinte, come mostrato nella figura.
Poiché la luce in ogni immagine attraversa un percorso di diversa lunghezza, le fluttuazioni della luce del quasar si manifestano nelle immagini con lenti in momenti diversi. Misurare quelle differenze di tempo, che sono nell’ordine di settimane, non produce direttamente Dd (la distanza dalla Terra all’obiettivo) o Dds (la distanza dall’obiettivo al quasar). Nel 2017 la collaborazione aveva già pubblicato un primo risultato basato su tre quasar con lenti (vedi Physics Today, aprile 2017, pagina 24). L’attuale lavoro estende l’analisi a sei quasar.
Il risultato riduce la probabilità che la discrepanza di H0 sia dovuta a qualche incertezza sistematica non apprezzata nella misurazione basata sulle candele standard; preso al valore nominale, sembra indicare la necessità di rivedere il modello ΛCDM.
(KC Wong et al., Lunedì non. R. Astron. Soc. , In corso di stampa,  https://arxiv.org/abs/1907.04869).

La rivoluzione del Neolitico

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Il Neolitico o Età della Pietra Nuova è un periodo della storia dell’umanità che si è svolto tra i 12.000 e i 10.000 anni a.e.v. nell’antico Vicino Oriente. Nei primi quattromila anni la ceramica non era ancora stata inventata tanto che questo periodo prende il nome di “Neolitico preceramico”.
Si parla di rivoluzione del Neolitico perché in questo periodo si sviluppa un profondo cambiamento della vita degli uomini. Non solo cambiano gli utensili in pietra – ed è appunto il motivo per cui la si chiama «Età della Pietra nuova» – ma è anche il momento in cui si cominciano a coltivare piante come frumento e orzo, e ad allevare animali come pecore e capre, in una serie di siti che vanno dall’estremità del Golfo Persico alla zona tra Turchia e Siria, scendendo lungo la costa mediterranea fino all’attuale Israele: la cosiddetta Mezzaluna Fertile.
L’abbondanza di cibo, disponibile per gran parte dell’anno produce la forte riduzione del nomadismo, essenziale per le popolazioni di cacciatori-raccoglitori, si registra una crescita demografica e le comunità formate da poche capanne di fango, iniziano a trasformarsi in villaggi e successivamente in vere e proprie città.
La società inizia a diventare più complessa tanto da avere bisogno di leggi, contabilità, scrittura. Tutto ciò, e altro ancora, è avvenuto in seguito alla domesticazione di piante e animali, che tuttavia, secondo alcuni, ha anche dato origine, tra le varie cose, anche a  violenza, disuguaglianza sociale e altre ingiustizie.
Sullo sviluppo dell’agricoltura nella Mezzaluna Fertile esistono varie teorie, una di queste chiama in causa un eventuale cambiamento climatico tra il 10000 e il 9000 a.e.v. che potrebbe aver favorito l’insediamento presso oasi, la scoperta delle specie di piante e animali addomesticabili, la sovrappopolazione e l’abuso delle risorse naturali, nonché altri eventi e situazioni che potrebbero avere reso la domesticazione possibile e al tempo stesso necessaria.
Gli scavi del sito archeologico di Göbekli Tepe, situato a circa 18 km a nordest della città di Şanlıurfa nell’odierna Turchia, presso il confine con la Siria, risalente all’inizio del Neolitico, (Neolitico preceramico A) o alla fine del Mesolitico getta però una nuova luce sulla fine del nomadismo, che potrebbe essere precedente lo sviluppo dell’agricoltura.
In questo straordinario sito archeologico infatti è stato ritrovato quello che è probabilmente il più antico luogo di culto fino ad adesso scoperto, un santuario monumentale megalitico, costituito da una collina artificiale delimitata da muri in pietra grezza a secco. Sono inoltre stati rinvenuti quattro recinti circolari, delimitati da enormi pilastri in calcare pesanti oltre 15 tonnellate ciascuno, probabilmente cavati con l’utilizzo di strumenti in pietra.
La costruzione ha richiesto alcune centinaia di anni ed è particolarmente straordinaria se si pensa alla rudimentale tecnologia di quell’epoca. Tagliare, modellare e trasportare per decine di metri pietre da sedici tonnellate, pur senza disporre di ruote o bestie da soma, in un mondo dove non esistevano ancora la scrittura, i metalli né la ceramica è un fatto straordinario.
L’aspetto importante per noi è che Göbekli Tepe è situato all’estremità settentrionale della Mezzaluna Fertile, e sembra essere uno dei siti più antichi di questo periodo. Anzi, pare che fosse occupato addirittura poco prima che gli abitanti imparassero l’arte della domesticazione, poiché le migliaia di ossa animali rinvenute fanno ritenere che la popolazione cacciasse e mangiasse selvaggina, in primo luogo gazzelle e volatili.
Per molto tempo si è pensato che gli esseri umani fossero riusciti a diventare stanziali solo dopo avere inventato la domesticazione di piante e animali, come spiegato prima, ma siti come Göbekli Tepe potrebbero indicare il contrario. Proprio perché in un sito simile erano riunite così tante persone, per poter costruire i cerchi, incidere le pietre e così via, può darsi che abbiano dovuto escogitare un modo per nutrire tutti, se i consueti metodi di caccia e raccolta si fossero rivelati insufficienti.