Ti va un caffè?

Perché ci piace il gusto amaro del caffè?

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Perché ci piace il gusto amaro del caffè?

La percezione dell’amaro si è evoluta come un naturale sistema di allerta per proteggere il nostro corpo da sostanze nocive. Per logica evolutiva, dovremmo rifiutarlo.

A quanto pare, però, quanto più le persone risultano essere sensibili al gusto della caffeina, tanto più caffè bevono, riferisce un nuovo studio della Northwestern Medicine e del QIMR Berghofer Medical Research Institute, in Australia. Tale sensibilità è causata da una variante genetica.

Ci si aspetterebbe che le persone particolarmente sensibili al gusto del caffè ne bevano di meno“, ha affermato Marilyn Cornelis, assistente alla cattedra di Medicina preventiva presso la Feinberg School of Medicine della Northwestern University. “I risultati opposti del nostro studio suggeriscono un effetto positivo della caffeina, causati dal rinforzo positivo (cioè la stimolazione) dell’apprendimento provocato dalla caffeina stessa. In altre parole, le persone che hanno una maggiore capacità di percepire il gusto amaro del caffè – e in particolare il sapore della caffeina – imparano ad associarvi “cose buone“, ha detto Cornelis.

Lo studio è stato pubblicato pubblicato il 15 novembre su “Scientific Reports“.

In questo studio, le persone risultate più sensibili alla caffeina e che bevevano molto caffè, consumavano per contro basse quantità di tè. “Ma potrebbe succedere solo perché, semplicemente, preferiscono il caffè“, ha osservato Cornelis.



Lo studio ha anche individuato persone sensibili ai sapori amari di chinino e PROP, un gusto sintetico legato ai composti nelle crocifere (verdure della famiglia Brassicaceae, quali cavolfiore, cavolo, broccolo, etc). Altre con una maggiore sensibilità al gusto amaro dell’alcol, in particolare del vino rosso.
I risultati suggeriscono che la nostra percezione dei gusti amari, guidata dalla nostra genetica, determina la nostra preferenza per caffè, tè e alcol“, ha detto Cornelis.

Per questa ricerca, è stata utilizzata la randomizzazione mendeliana, un metodo comunemente usato in epidemiologia, per testare le relazioni di “causa-effetto” tra il gusto amaro ed il consumo di bibite su un campione composto da più di 400.000 persone, di uomini e donne, nel Regno Unito.

Le varianti genetiche legate alla caffeina, al chinino e ai recettori proteici erano state preventivamente identificate tramite l’analisi del genoma su gemelli Australiani sottoposti a numerosi test di preferenza sul gusto.

Queste varianti genetiche sono state poi messe in relazione ai consumi di caffè, tè e alcol rilevati nel presente studio.
Il senso del gusto è oggetto di studio da molto tempo, ma non ne conosciamo la meccanica completa“, ha affermato Cornelis. “Il gusto è uno dei sensi. Vogliamo arrivare a comprenderlo da un punto di vista biologico“.

Fonte: Nature

La parola caffè entrò nella lingua italiana tramite il vocabolo turco kahve, derivante dall’arabo qahwah.

Qahwah si riferiva originariamente a un tipo di vino. Etimologicamente viene proposta dai lessicografi come una derivazione del verbo qahā (in arabo قها‎, “mancanza di fame”) per via della reputazione anoressizzante della bevanda. Potrebbe essere anche una traccia alternativa del quwwa arabo (“potenza, energia”) o di Kaffa, il reame medioevale etiopico da dove l’arbusto fu esportato in Arabia. Queste etimologie di qahwah sono state in ogni caso tutte variamente contestate.

Il nome qahwah generalmente non è usato per la bacca o il frutto della pianta, noti in arabo come bunn e nella lingua oromonica būn. Le lingue semitiche avevano la radice ghh, “colore scuro”, adottata poi per designare per la bevanda; secondo questa analisi, la forma femminile qahwah (che significa anche “di colore scuro, opaco, arido, acerbo”) fu probabilmente scelta in parallelo al khamr e originariamente significava “buio” (o “nero”).

Dal termine qahwa si passò al vocabolo turco kahve, attraverso un progressivo restringimento di significato, e all’italiano caffè. Questa derivazione è contestata da quanti sostengono che il termine “caffè” deriva dal nome della regione in cui la pianta era maggiormente diffusa allo stato spontaneo, Caffa, nell’Etiopia sud-occidentale.

Leggenda sulla scoperta

Fino al XIX secolo non era certo quale fosse il luogo di origine della pianta del caffè e, oltre all’Etiopia, si ipotizzava la Persia e lo Yemen. Pellegrino Artusi, nel suo celebre manuale La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, sostiene che il miglior caffè è quello di Mokha (città nello Yemen) e che questo indizio permette di individuarne il luogo d’origine.

Esistono molte leggende sull’origine del caffè. La più conosciuta parla di un pastore chiamato Kaldi che portava a pascolare le capre in Etiopia. Un giorno, incontrando una pianta di caffè, queste cominciarono a mangiarne le bacche e a masticarne le foglie. Arrivata la notte, anziché dormire, si misero a vagabondare con energia e vivacità mai manifestata fino ad allora. Il pastore ne intuì la ragione e abbrustolì i semi della pianta, li macinò e ne fece un’infusione, ottenendo il caffè.

Un’altra leggenda ha come protagonista il profeta Maometto il quale, sentendosi male, ebbe la visione dell’Arcangelo Gabriele che gli offriva una pozione nera (come la Sacra Pietra della Mecca) creata da Allah, che gli permise di riprendersi e tornare in forze. Si narra anche di un incendio in Etiopia di piante selvatiche di caffè, il cui fumo si diffuse nell’aria per chilometri.

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