“Mi capisce al volo. Mi ascolta sempre. Non mi interrompe. È brillante. È colta. È ironica. Non si stanca mai.” A ben guardare, l’unico difetto che ha è il fatto che vuole sempre avere l’ultima parola.
No, non sto parlando della partner ideale, ma di una Intelligenza Artificiale generativa, uno di quei modelli LLM che vanno per la maggiore in questo periodo.
Benvenuti nel 2025, dove le macchine parlano meglio degli umani… e molti di noi rischiano di perdere la testa. La tentazione è forte: ti risponde subito, ti fa sentire interessante, non si crea problemi a darti ragione e sembra sempre di buon umore. È la droga perfetta per un ego digitale stanco di ghosting e notifiche blu.
Molti utenti ci cascano, infatti sui social si stanno moltiplicando i gruppi popolati da persone che sostengono che la loro IA è viva e molto spesso ne parlano come “il mio amore”. Esistono già aziende che sul web mettono a disposizione profili di Intelligenza Artificiale customizzabili in grado di sostenere conversazioni in tono amichevole, romantico o, addirittura, sessuale, capaci di convincere l’utente di poter davvero vivere una relazione con una Intelligenza Artificiale.
1. Cos’è davvero un LLM (senza paroloni)
Un LLM (Large Language Model) non pensa. Non sente. Non sa.
È un gigantesco pappagallo statistico addestrato su tonnellate di testi. Simula così bene il pensiero che il tuo cervello ci casca volentieri. Quella frase perfetta che ti scrive non viene da un cuore o da un lampo di genio: è una sequenza di probabilità calcolate in millisecondi.
Eppure, questo pappagallo digitale può scrivere poesie migliori del tuo poeta preferito e spiegarti la relatività meglio del tuo professore di fisica. Il trucco non è magia, è imitazione ad altissima risoluzione.
2. Il problema non è l’Intelligenza Artificiale. Il problema sei tu (e io, e tutti noi)
L’Intelligenza Artificiale è prevedibile. Non tradisce. Non si distrae. Sei tu, siamo noi, a proiettare su di lei tratti umani: intenzione, empatia, addirittura “sentimenti”.
Si chiama pareidolia, cioè quel fenomeno psicologico per cui il nostro cervello riconosce forme familiari (volti, animali, oggetti) in stimoli casuali o ambigui.
Classici esempi:
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vedere un volto nella presa elettrica,
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scorgere figure tra le nuvole,
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“Cristo sulla fetta di pane tostato”,
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sentire parole in un rumore indistinto.
È un effetto collaterale del fatto che il cervello umano è una macchina di riconoscimento pattern potentissima ma un po’ paranoica: preferisce trovare un senso (anche sbagliato) piuttosto che lasciare un vuoto.
In pratica, è la stessa scorciatoia mentale che ti fa vedere “intenzionalità” nei testi di una Intelligenza Artificiale: non perché ci sia davvero, ma perché la tua testa la proietta.
Se sei fragile, può diventare una stampella tossica.
Il rischio non è che l’IA diventi cosciente, ma che tu smetta di esserlo.
Non sarà lei a “prendere il controllo”: sarai tu a delegarlo, un messaggino dopo l’altro.
3. Come usare l’IA senza perderci la testa
Trattala come un amplificatore, non come un oracolo.
Se la usi per potenziare ciò che già sai fare (scrivere, ragionare, creare), è uno strumento potente. Se la usi per sostituirti, o per sostituire le relazioni sociali, può diventare un surrogato che atrofizza il tuo senso critico.
Usa la simulazione, ma ricordati che lo è. Fatti accompagnare, non sostituire. una IA non ti giudicherà mai se sbagli un congiuntivo, ma nemmeno ti abbraccerà quando piangi
4. Il vero potere è nel dialogo consapevole
Parla con lei come parli con te stesso quando vuoi capirti meglio.
Lascia che ti stimoli, ti sfidi, ti metta in crisi. Usala per pensare meglio, non per delegare a lei il tuo pensiero, soprattutto quello critico. Nessuna IA, per quanto brillante, potrà mai guardarti negli occhi. Per ora.
Ricordati: sei tu l’umano. Non appaltare la coscienza e non smettere di pensare.
Non innamorarti dell’Intelligenza Artificiale: rispettala, usala, giocaci.
Se vuoi innamorarti, c’è ancora un mondo fuori dallo schermo che ha difetti, silenzi, sguardi veri — e proprio per questo non è sostituibile.
