La lezione che ci tramanda la peste antonina che colpì Roma

Anno 165 dopo Cristo: L'impero romano fu colpito da un'epidemia di gran lunga più mortale della COVID-19 che fece milioni di morti, nella stessa Roma i decessi per un male all'epoca sconosciuto si contarono a decine di migliaia. Ma Roma sopravvisse e con lei il suo impero.

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Intorno al 165 d.C., la città anatolica di Hierapolis fece erigere una statua al dio Apollo Alexikakos, l’invertitore del male, in modo che le persone potessero essere risparmiate da una terribile nuova malattia infettiva con sintomi assolutamente macabri. Si sapeva che le vittime venivano colpite da febbre con brividi brividi, mal di stomaco e diarrea dapprima rosso sangue che, nel giro di una settimana diventava completamente nera. Le persone affetta dalla malattia presentavano anche orribili scaglie, nere e purulente, sia dentro che fuori i loro corpi, terribilmente pruriginose, che quando si staccavano lascivano sulla pelle orribili cicatrici.
Nel nei casi più gravi non era raro che con la tosse si espellessero le croste formatesi all’interno del loro corpo. Secondo le cronache dell’epoca, le vittime soffrivano di questi sintomi per due o anche tre settimane prima che la malattia iniziasse ad attenuarsi. Forse il 10 percento dei 75 milioni di persone che vivevano nell’impero romano morirono. “Come una bestia“, scrisse un contemporaneo, la malattia “uccise molte persone e si scatenò all’interno di intere città svuotandole dei loro abitanti, distruggendole”.
Il vaiolo aveva colpito Roma.
Le malattie infettive facevano parte della vita romana. Perfino i romani più ricchi non potevano sfuggire ai terrori di un mondo in cui non si conoscevamo virus e batteri, non esisteva la refrigerazione (se non in alcuni nivarium, dove i più ricchi conservavano alimenti e bevande nella neve e nel ghiaccio trasportati dalle montagne più alte dell’impero) e anche l’acqua potabile era spesso inquinata.
La malaria e le malattie intestinali, ovviamente, dilagavano. Ma alcune delle malattie che perseguitavano i romani disturberebbero la nostre mente perfino oggi: febbri feroci, pus e vermi che si insediavano nelle ferite putrescenti che si rifiutavano di guarire.
Il medico Galeno, che descrisse la pestilenza, raccontò le terribili sofferenza cui andò incontro un membro della nobiltà romana che accidentalmente aveva bevuto una sanguisuga rimasta nell’acqua attinta da un suo servo da una fontana pubblica. L’imperatore Giuliano, nel quarto secolo, si inorgogliva per avere vomitato una sola volta in tutta la sua vita. Secondo gli standard dell’antichità, questo era un vero e proprio miracolo.
Ma il vaiolo era diverso.
La prima epidemia di vaiolo avvenuta a Roma iniziò come una voce terrificante proveniente da est, diffondendosi attraverso racconti e conversazioni che spesso trasmettevano simultaneamente sia notizie della malattia che il virus stesso. All’inizio l’agente patogeno si muoveva di soppiatto, con le persone che mostravano i primi sintomi della malattia solo dopo circa due settimane dall’infezione.
Questa peste crebbe in piccoli focolai per poi apparentemente scomparire durante un’intera generazione, raggiungendo il picco nell’anno 189 quando un testimone riportò che nell’affollata capitale dell’impero morivano fino a 2000 persone al giorno.
Il vaiolo devastò gran parte della società romana.
La pestilenza decimò le legioni, gli eserciti composti da professionisti, di Roma al punto che tutte le campagne militari furono annullate. L’aristocrazia pagò un tributo tale alla malattia i consigli municipali avevano difficoltà a riunirsi e le magistrature locali rimasero incompiute e le organizzazioni comunitarie fallirono per mancanza di membri. Il vaiolo devastò anche le campagne uccidendo i contadini come se una immensa falce fosse passata ad arare il suo triste raccolto di vite umane. Le fattorie e le città che punteggiavano la campagna dall’Egitto alla Germania rimasero spopolate.
Gli effetti psicologici furono anche più profondi. L’insegnante Aelius Aristides sopravvisse alla prima ondata della pestilenza che imperversò nell’impero negli anni ’60. Aristides si convinse di essere sopravvissuto solo perché gli dei avevano scelto di prendere un altro ragazzo; arrivò persino identificare la giovane vittima che morì nel momento esatto in cui la sua febbre cessò. Inutile dire che il senso di colpa dei sopravvissuti non è un fenomeno moderno e l’impero romano della fine del II secolo deve essersene riempito.
Soprattutto, la malattia diffuse la paura. Il vaiolo uccise in modo massiccio, raccapricciante e a ondate. La paura tra i romani era così diffusa all’epoca che, oggi, gli archeologi che lavorano in tutto il vecchio territorio dell’impero romano trovano ancora amuleti e sassolini scolpiti con scongiuri e immagini votive da persone che cercavano disperatamente qualcosa cui aggrapparsi per sopravvivere alla pestilenza.
Guardando i fatti a posteriori, stupisce la capacità di ripresa che l’impero romano dimostrò di fronte all’assalto prolungato del vaiolo. I romani risposero alle piaghe invocando gli dei. Come fece Hierapolis, molte città del mondo romano inviarono delegazioni ai santuari di Apollo, il dio delle arti mediche e delle pestilenze, chiedendo ai sacerdoti il consiglio della divinità su come sopravvivere. Le città inviarono collettivamente i delegati, un’affermazione della capacità della comunità di stare unirsi e fare fronte comune davanti all’orrore.
E quando le comunità iniziarono a sfilacciarsi, i romani le rafforzarono. L’imperatore Marco Aurelio rispose alla morte di così tanti soldati reclutando schiavi e gladiatori nelle legioni. Ripopolò le cascine abbandonate delle campagne e le città abbandonate invitando i barbari che risiedevano all’esterno dell’impero a stabilirsi all’interno dei suoi confini. Le città che persero un gran numero di aristocratici li sostituirono con vari mezzi, persino riempiendo i posti vacanti nei loro consigli con i figli degli schiavi liberati. L’impero si riorganizzò e andò avanti, nonostante stesse conoscendo morte e terrore su una scala che nessuno aveva mai visto.
La società romana si riprese così bene dal vaiolo che, più di 1.600 anni dopo, lo storico Edward Gibbon iniziò la sua opera monumentale “il declino e la caduta dell’Impero romano” non con la peste avvenuta sotto Marco Aurelio ma con gli eventi successivi alla morte di quell’imperatore.
Il regno di Marco fu, per Gibbon, “il periodo nella storia del mondo durante il quale la condizione della razza umana fu più felice e prospera“. Questo verdetto storico avrebbe sbalordito i romani se l’avessero ascoltato mentre soffrivano per quella che sarebbe stata chiamata la peste Antonina.
Gibbon, tuttavia, non inventò nulla. Scrivendo dopo la fine del III secolo, il senatore e storico romano Cassio Dio definì l’impero sotto Marco “un periodo dorato” che perseverò mirabilmente “in mezzo a difficoltà straordinarie”.
Cassio Dio fu testimone oculare dell’orrore provocato dal vaiolo a Roma quando si portò via decine di migliaia di vite. Dio conosceva i suoi orrori e la devastazione che produsse. Credeva anche che il trauma di avere vissuto durante la pestilenza potesse essere superato da una società ben governata, capace di lavorare unita per recuperare e ricostruire. E la società che emerse da quegli sforzi diventò più forte di ciò che c’era prima.
L’insorgenza della pandemia di COVID-19 sta costringendo per la prima volta gran parte del nostro mondo ad affrontato la paura improvvisa, invisibile e incessante di una malattia infettiva mortale che si diffonde facilmente tra la popolazione.
Questa crisi può spingere le persone terrorizzate ad incolparsi a vicenda e a cercare un responsabile di tutta questa sofferenza. Può esacerbare le divisioni sociali ed economiche già esistenti. Può persino distruggere le società.
Ma non deve necessariamente finire così.
La peste Antonina fu molto più grave e mortale mortale di quanto sia oggi la COVID-19, e la società che colpì era molto meno capace di salvare i malati di quanto lo siamo ora.
Ma Roma sopravvisse e si riprese.
Le sue comunità furono ricostruite ed i sopravvissuti arrivarono persino a guardare indietro,  verso l’epoca della pestilenza con una strana nostalgia per la forza ed il coraggio mostrati dalla loro società e dal loro governo gli permisero di sopravvivere e mantenere il costume e lo stile di vita proprio dei romani, il mos maiorum.

Che noi, tutti noi, in qualsiasi punto della Terra, si possa essere così forti, così coraggiosi e così fortunati da essere capaci di trasformare questa “notte buia e piena di terrori” che ci ha portato la pandemia in un’epoca di rinnovamento, in una nuova età dell’oro dell’uomo su questo pianeta.
Che noi si possa essere tutti così fortunati da poterla vedere.