Isbuscenskij, l’ultima carica di cavalleria

Isbuscenskij (Unione Sovietica): L'ultima epica carica di cavalleria della storia del Regio Esercito

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Il racconto, crudo ed efferato, dell’ultima carica di cavalleria dal “Savoia Cavalleria” compiuta dal corpo di cavalleria del regio esercito Italiano in territorio sovietico. Oggi, l’arma di cavalleria è cambiata radicalmente, utilizza mezzi corazzati al posto dei cavalli per le operazioni sul campo ed i nobili quadrupedi che per tanti secoli hanno servito gli uomini in pace ed in guerra vengono ora impiegati solo per parate o eventi sportivi.

Isbuscenskij (Unione Sovietica): L’ultima epica carica di cavalleria della storia del Regio Esercito

È la notte del 24 Agosto del 1942, si avvicinano le prime luci dell’alba e gli italiani si preparano a levare il campo per raggiungere l’obbiettivo stabilito, un anonimo punto trigonometrico sulle sponde del Don, la quota 213,5 con lo scopo di allentare la pressione della controffensiva sovietica che sta martellando le forze dell’Asse. Durante una perlustrazione gli uomini di pattuglia del Savoia cavalleria scorgono nei campi di girasole circostanti un elmetto che al caporal maggiore Bottini sembra tedesco. In realtà appartiene ad un soldato sovietico che, appena vede la pattuglia avvicinarsi, lancia l’allarme. Il povero soldato è centrato da un colpo sparato dal cavaliere Petroso ma ormai la sorpresa è svelata e i sovietici investono la pattuglia con una pioggia di pallottole.

La reazione delle truppe italiane è rabbiosa: le mitragliatrici iniziano a sgranare i loro proiettili mentre l’artiglieria del maggiore Albini e del capitano Solaroli di Briona inizia a bombardare gli oltre 2000 Russi. Il nemico è comunque in posizione favorevole: ha un numero maggiore di uomini e una potenza di fuoco nettamente superiore. mentre gli italiani si dispongono a quadrato e si difendono furiosamente, il colonnello Bettoni non ha dubbi: il Reggimento, che conta circa 700 elementi, deve caricare se vuole avere qualche possibilità di vittoria.

L’ordine di attacco viene impartito al 2° squadrone comandato dal tenente De Leone, cui viene affidato il compito di attaccare il fianco sinistro dello schieramento avversario.

L’eccitazione dei cavalieri è palpabile, per molti questa è e sarà l’unica possibilità di partecipare ad una carica. De Leone, seguito dai suoi sottoposti, ordina allo squadrone di montare a cavallo ed esce dal quadrato nella direzione opposta del nemico. Appena scompare dal campo visivo il 2° squadrone compie un’ampia conversione e l’ordine “Sciabl’ mano” conferma a tutti che quella giornata sarebbe entrata nella storia. A questa scena partecipa anche il maggiore Manusardi che fino a pochi giorni prima comandava lo squadrone. Rimasto senza cavalcatura, si impossessa del cavallo del generale Barbò e segue i suoi uomini verso la gloria. Al suo arrivo si leva alto il grido di gioia dei suoi cavalieri.



L’entusiasmo cresce insieme all’andatura dei cavalli: al grido “Caricat” tutti all’unisono urlano “Savoia!” e si lanciano verso le linee nemiche. Una corsa inarrestabile in cui il rombo degli zoccoli di oltre 100 cavalli fa tremare il terreno riempiendo l’aria di quella mattina d’estate. I destrieri sono lanciati con un impeto travolgente. Molti sono feriti ma tanta è la loro eccitazione che continuano a caricare fino a franare senza vita sul terreno. Lo stesso De Leone si trova appiedato, mentre Manusardi continua la carica.

Dalle loro buche i Russi iniziano a mitragliare con possente frequenza tanto che sono molti gli uomini a cadere. I soldati sovietici, non essendo impegnati da altre posizioni, appena superati dalla carica possono voltarsi e sparare alle spalle dei cavalieri che furiosi utilizzano le loro sciabole cosacche preda di guerra. Il caos è indescrivibile: molte donne sono uscite da chissà dove e incitano i propri soldati con alte grida inneggianti a Stalin.

Dopo aver superato la metà del fronte nemico, Manusardi si rende conto che senza l’appoggio di altri reparti sarebbe stato impossibile continuare.
Il suo squadrone è ridotto a circa la metà degli effettivi e per questo decide di tornare indietro effettuando un’altra carica. Questa volta anche le bombe a mano sono usate per aprirsi la strada.

Lo schieramento nemico è nuovamente investito dai cavalieri di Savoia. Alcuni di loro riescono anche a salvare il comandante De Leone che sta continuando a combattere appiedato pur di evitare di cadere prigioniero in mano al nemico.

Il colonnello Bettoni si rende conto che l’azione del 2° deve essere supportata: decide quindi di inviare all’attacco il 4° squadrone appiedato per un’azione frontale. Nella pianura russa i plotoni di Abba, Rubino, Compagnoni e Toja avanzano supportati dai mitraglieri di Foresto. Circa 500 metri li separano dal nemico e bisogna percorrerli su un terreno piatto dove sono poche le zone in cui ripararsi. Dopo essere usciti da un campo di girasoli gli uomini del 4° sono investiti dalle prime raffiche di mitragliatrice.

L’ordine impartito da Abba è di allargarsi e di avanzare strisciando, mentre il plotone di Rubino viene spostato all’estrema sinistra del fronte d’attacco. Proprio in queste prime fasi una raffica di parabellum ferisce il giovane ufficiale ad una gamba. In seguito un altro colpo lo raggiunge al polmone costringendolo a rimanere immobile. Nonostante le ferite riportate continuerà a dirigere l’azione dei suoi uomini da una posizione più riparata.

Anche in questa fase dell’attacco il nemico occupa una posizione dominante: Toja e il suo plotone cercano di avanzare sulla sinistra per cercare di raggiungere una zona in cui poter prendere d’infilata il fianco delle truppe russe.

Intanto Abba con i suoi uomini cercano di sostenere l’azione sparando a più riprese con alcuni parabellum catturati al nemico. Gli uomini del 2° intanto hanno completato la carica che è stata altrettanto violenta. Manusardi e i cavalieri superstiti rientrano nel quadrato e incitano Bettoni ad inviare un altro squadrone a sostenere l’azione del 4°. Subito il colonnello decide di inviare il 3° del capitano Marchio all’attacco che punta diritto verso il fronte senza prendere quelle precauzioni necessarie per non farsi individuare dagli osservatori sovietici. Vedendo questo anche il maggiore Litta decide di partecipare alla carica con i pochi uomini rimasti.

Lo stesso tenente Ragazzi, nonostante gli ordini contrari, partecipa all’azione del reparto.

Dopo essere giunti nella zona dove combatte il 4° squadrone, il 3° deve attraversare un punto estremamente stretto in cui i Russi hanno piazzato numerose armi automatiche che falciano a decine i cavalieri. Un colpo di mortaio colpisce il tenente Ragazzi uccidendolo all’istante. Il comando di gruppo è quasi tutto falciato: muore Mentasti mentre Litta non può più montare per la ferita riportata alla gamba. Il maggiore raggiunge la postazione di un mitragliere e da lì partecipa all’attacco dei suoi finché un colpo non lo stronca. Tutti gli ufficiali del 3° sono fuori combattimento tanto che spetta al sergente Negri guidare l’ultimo assalto ai rimanenti centri di resistenza.

I cavalieri li eliminano aprendosi la strada con l’aiuto delle bombe a mano e delle sciabole cosacche che si sono dimostrate, anche in questa carica, un’arma micidiale. Abba viene falciato da un colpo al cuore nel tentativo di raggiungere gli uomini di Rubino rimasti senza una guida.

Mentre si continua a morire si levano alte le grida degli uomini del 3° che hanno messo in fuga le ultime truppe russe. Il Savoia Cavalleria è ormai padrone del campo grazie alle due cariche della cavalleria del 2° e 3° squadrone e all’ausilio delle forze a piedi del 4°. Il fumo si dirada sul campo di battaglia e i cavalieri rientrano alla spicciolata. Sono da poco passate le nove quando finalmente si possono contare i caduti della carica di Savoia Cavalleria.

Savoia ha caricato” è la frase che passa di bocca in bocca e che riempie di orgoglio i cuori dei sopravvissuti. Il bilancio finale è di 33 vittime e 53 feriti. Il prezzo più alto è pagato dai cavalli: 150 nobili destrieri sono caduti sul campo di battaglia.
Le truppe russe pagano un prezzo molto più alto: 150 morti, 300 feriti e 500 prigionieri.

Gli ingenti sacrifici del Reggimento vengono ripagati con la medaglia d’oro allo stendardo, medaglia d’oro alla memoria per Abba e Litta, 54 medaglie d’argento e 49 croci di guerra sul campo.

Quel giorno cadeva proprio il 250° compleanno del Reggimento e, ironia della sorte, quella carica sanguinosa e gloriosa fu l’ultima occasione in cui un reparto di cavalleria dell’Esercito Italiano venne impegnato in una carica in sella ai cavalli. Probabilmente, fu la più gloriosa pagina della storia delle “cravatte rosse“. L’unico tassello che manca è quello del nome da dare alla carica. Durante la sera gli ufficiali optano per Isbuscenskij, un paese nei pressi mai stato raggiunto dai cavalieri di Savoia, ma che, grazie a questo episodio, è entrato a pieno titolo nella storia delle forze armate italiane.

La carica di Isbuscenskij ebbe subito una vasta eco: in Italia suscitò vero e proprio entusiasmo, con articoli sulla stampa ed ampie cronache nei cinegiornali Luce; l’azione venne ampiamente sfruttata e ingigantita dalla propaganda del regime, anche se dal punto di vista militare fu un episodio di ridotta importanza. Il commento di alcuni ufficiali tedeschi, che si congratularono con Bettoni dopo lo scontro, fu «Noi queste cose non le sappiamo più fare» il quale, per quanto con intenti elogiativi, era un indiretto riferimento all’arretratezza delle tecniche di guerra italiane

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