Il manoscritto Voynich

Il manoscritto Voynich è un codice illustrato la cui datazione al radiocarbonio ha stabilito con quasi totale certezza che il manoscritto sia stato redatto tra il 1404 e 1438. Il motivo per cui questo antico è tanto testo tra gli amanti dei misteri ma anche presso esoteristi, ufologi e cospirazionisti sta nel fatto che è redatto con un sistema di scrittura a tutt'oggi ancora indecifrato. Inoltre, il manoscritto contiene molte immagini di piante non identificabili con nessun vegetale attualmente noto e l'idioma usato nel testo non appartiene ad alcun sistema alfabetico/linguistico conosciuto. È stato definito da Robert Brumbaugh come "il libro più misterioso del mondo".

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Indice

Il manoscritto Voynich è un codice illustrato, la cui datazione al radiocarbonio ha stabilito, con quasi totale certezza, che il manoscritto è stato redatto tra il 1404 e 1438. Il motivo per cui questo antico testo è tanto popolare tra gli amanti dei misteri, ma anche presso esoteristi, ufologi e cospirazionisti, sta nel fatto che è redatto con un sistema di scrittura a tutt’oggi ancora indecifrato. Inoltre, il manoscritto contiene molte immagini di piante non identificabili con nessun vegetale attualmente noto e l’idioma usato nel testo non appartiene ad alcun sistema alfabetico/linguistico conosciuto.

È stato definito da Robert Brumbaugh come “il libro più misterioso del mondo“.

Il manoscritto, del quale è possibile reperire copie fedeli online, è conservato dal 1969 presso la Biblioteca Beinecke dell’Università di Yale (Stati Uniti).

Il maggior indiziato come autore del codice è l’umanista italiano Poggio Bracciolini, figura ambigua, scopritore di codici classici e cacciatore di libri perduti, conoscitore di lingue antiche, come il latino e il greco.

Il volume, scritto su pergamena di capretto, è di dimensioni piuttosto ridotte: 16 cm di larghezza, 22 di altezza e 4 di spessore. Consta di 102 fogli, per un totale di 204 pagine. La rilegatura porta tuttavia a ritenere che originariamente comprendesse 116 fogli e che 14 si siano smarriti.



Fa da corredo al testo una notevole quantità di illustrazioni a colori, ritraenti i più svariati oggetti : proprio i disegni lasciano intravedere la natura del manoscritto, venendo di conseguenza scelti come punto di riferimento per la suddivisione dello stesso in diverse sezioni, a seconda del tema delle illustrazioni:

Sezione I (fogli 1-66): chiamata botanica, contiene 113 disegni di piante sconosciute.
Sezione II (fogli 67-73): chiamata astronomica o astrologica, presenta 25 diagrammi che sembrano richiamare delle stelle. Vi si riconoscono anche alcuni segni zodiacali. Anche in questo caso risulta alquanto arduo stabilire di cosa effettivamente tratti questa sezione.
Sezione III (fogli 75-86): chiamata biologica, nomenclatura dovuta esclusivamente alla presenza di numerose figure femminili nude, sovente immerse fino al ginocchio in strane vasche intercomunicanti contenenti un liquido scuro.
Subito dopo questa sezione vi è un foglio ripiegato sei volte, raffigurante nove medaglioni con immagini di stelle o figure vagamente simili a cellule, raggiere di petali e fasci di tubi.
Sezione IV (fogli 87-102): detta farmacologica, per via delle immagini di ampolle e fiale dalla forma analoga a quella dei contenitori presenti nelle antiche farmacie. In questa sezione vi sono anche disegni di piccole piante e radici, presumibilmente erbe medicinali.
L’ultima sezione del manoscritto Voynich comincia dal foglio 103 e prosegue sino alla fine. Non vi figura alcuna immagine, fatte salve delle stelline a sinistra delle righe, ragion per cui si è portati a credere che si tratti di una sorta di indice.

Il manoscritto Voynich deve il suo nome a Wilfrid Voynich, un mercante di libri rari di origini polacche, naturalizzato inglese, che lo acquistò dal collegio gesuita di Villa Mondragone, nei pressi di Frascati, nel 1912. Il contatto tra Voynich ed i gesuiti fu padre Giuseppe Strickland (Joseph Strickland 1864-1915), religioso gesuita. I gesuiti avevano bisogno di fondi per restaurare la villa e vendettero a Voynich trenta volumi della biblioteca, che era formata anche da una raccolta di volumi del Collegio Romano trasportati al collegio di Mondragone insieme alla biblioteca generale dei Gesuiti, per salvarli dagli espropri del nuovo Regno d’Italia. Tra questi libri vi era anche quello misterioso, di cui non si conosce l’origine.

Voynich rinvenne, all’interno del libro, una lettera di Johannes Marcus Marci (1595-1667), rettore dell’Università di Praga e medico reale di Rodolfo II di Boemia, con la quale egli inviava questo libro a Roma presso l’amico poligrafo Athanasius Kircher perché lo decifrasse.

Voynich stesso affermò che lo scritto conteneva minuscole annotazioni in greco antico e datò il volume come originario del XIII secolo.

In molti, nel corso del tempo, e soprattutto ultimamente, hanno cercato di decifrare la lingua sconosciuta del Voynich.

Il primo ad aver affermato di essere riuscito nell’impresa fu William Newbold, professore di filosofia medievale alla Università di Pennsylvania. Nel 1921 pubblicò un articolo in cui proponeva un elaborato ed arbitrario procedimento con cui tradurre il testo, che sarebbe stato scritto in un latino “camuffato” addirittura da Ruggero Bacone. La conclusione a cui Newbold arrivò con la sua traduzione fu che già nel tardo Medioevo sarebbero state conosciute nozioni di astrofisica e biologia molecolare. Newbold analizzando il manoscritto però si accorse che le minuscole annotazioni in realtà altro non erano che crepe nella pergamena invecchiata.

Negli anni quaranta i crittografi Joseph Martin Feely e Leonell C. Strong applicarono al documento dei sistemi di decifratura sostitutiva, cercando di ottenere un testo con caratteri latini in chiaro: il tentativo produsse un risultato che però non aveva alcun significato. Il manoscritto fu l’unico a resistere alle analisi degli esperti di crittografia della marina statunitense, che, alla fine della guerra, studiarono ed analizzarono alcuni vecchi codici cifrati per mettere alla prova i nuovi sistemi di decodificazione. J.M. Feely pubblicò le sue deduzioni nel libro “Roger Bacon’s Cipher: The Right Key Found” in cui, ancora una volta, attribuiva a Bacone la paternità del manoscritto.

Nel 1945 il professor William F. Friedman, costituì a Washington un gruppo di studiosi, il First Voynich Manuscript Study Group (FSG). Egli optò per un approccio più metodico e oggettivo, nell’ambito del quale emerse la cospicua ripetitività del linguaggio del Voynich. Tuttavia, a prescindere dall’opinione maturatagli nel corso degli anni in merito all’artificialità di tale linguaggio, all’atto pratico la ricerca si risolse in un nulla di fatto: a niente servì infatti la trasposizione dei caratteri in segni convenzionali, che doveva fungere da punto di partenza per qualsiasi analisi successiva.

Nel 1978 il filologo dilettante John Stojko credette di aver riconosciuto la lingua, e affermò che si trattasse di ucraino, con le vocali rimosse. La traduzione però pur avendo in alcuni passi un apparente senso (ad esempio: Il Vuoto è ciò per cui combatte l’Occhio del Piccolo Dio) non corrispondeva ai disegni.

Nel 1987 il fisico Leo Levitov attribuì il testo a degli eretici Catari, pensando di aver interpretato il testo come un misto di diverse lingue medievali centroeuropee. Il testo tuttavia non presentava corrispondenze con la cultura catara, e la traduzione aveva poco senso.

Lo studio più significativo in materia resta ad oggi quello compiuto nel 1976 da William Ralph Bennett, che ha applicato la casistica alle lettere ed alle parole del testo, mettendone in luce non solo la ripetitività, ma anche la semplicità lessicale e la bassissima entropia: il linguaggio del Voynich, in definitiva, non solo si avvarrebbe di un vocabolario limitato, ma anche di una basilarità linguistica riscontrabile, tra le lingue moderne, solo nell’hawaiano. Il fatto che le medesime “sillabe”, e perfino intere parole, vengano ripetute con una frequenza tale da rasentare il beffardo, è attinente più ad una concezione inconsciamente accomodante, che non volutamente criptica.

L’alfabeto che viene usato, oltre a non essere stato ancora decifrato, è unico. Sono però state riconosciute 19-28 probabili lettere, che non hanno nessun legame con gli alfabeti attualmente conosciuti. Si sospetta inoltre che siano stati usati due alfabeti complementari ma non uguali, e che il manoscritto sia stato redatto da più persone. Imprescindibile quanto significativa in tal senso è poi l’assoluta mancanza di errori ortografici, cancellature o esitazioni, elementi costanti invece in qualunque altro manoscritto.

In alcuni passi ci sono delle parole ripetute anche 4 o più volte consecutivamente.

Il manoscritto è stato utilizzato come elemento letterario sia da Colin Wilson, nel suo racconto di ispirazione lovecraftiana “Il ritorno dei Lloigor” che nel suo romanzo Specie immortale (The Philosopher’s Stone), sia dallo scrittore fantastico Valerio Evangelisti che, nella sua Trilogia di Nostradamus, lo assimila all’Arbor Mirabilis e ne fa un testo esoterico al centro di una trama complessa che si dipana attraverso la storia francese del XVI secolo.

Il manoscritto è anche protagonista del romanzo Il manoscritto di Dio di Michael Cordy in cui viene in parte decifrato da una docente dell’università di Yale e risulta infine essere una mappa per ritrovare il Giardino dell’Eden. È presente anche nel romanzo La tomba di ghiaccio (The Charlemagne Pursuit, 2008) di Steve Berry. Nella striscia 593 del fumetto online Xkcd il testo viene citato, ipotizzando che si tratti di un antico manuale di un gioco di ruolo.[44]

Nel 64º capitolo del romanzo Olympos di Dan Simmons si parla di un “manoscritto”, senza però nominarlo ma individuandolo con una descrizione precisa del contenuto. Pochi paragrafi più avanti viene citato il collezionista di libri rari Wilfrid Voynich, ma senza un collegamento esplicito con l’opera. Il codice in questione viene definito “una bufala“.

Il manoscritto è alla base di un’avventura in cui Martin Mystère, eroe della serie a fumetti omonima edita da Sergio Bonelli Editore, si trova alle prese con un fanatico telepredicatore, satelliti killer, monaci benedettini e francescani, un’intelligenza artificiale, gli Uomini in Nero, Atlantide e un’oscura minaccia che si appresta a distruggere l’intero pianeta (n. 167, Obiettivo Apocalisse).

Il manoscritto, infine, è parte anche della sottotrama del romanzo Pop.co dell’autrice britannica Scarlett Thomas, che ne dà una spiegazione di fantasia descrivendolo come un vero e proprio codice.
Nell’agosto del 2017 una nuova riproduzione è uscita con una lunga prefazione del curatore, il dottor Stephen Skinner, che da 40 anni studia attentamente il codex.

Skinner è convinto che alla fonte di quel misterioso volume che ha eluso linguisti e crittografi di mezzo mondo ci sia proprio un italiano. Per affermarlo, certo che la sua intuizione contribuirà a “svelare più segreti del codice“, Skinner si è basato su una analisi visiva degli elementi del libro. A colpirlo sono, per esempio, alcune figure di donne nude all’interno del testo raffigurate in strane piscine verdi collegate a tubi intestinali. Secondo l’esperto medioevale si tratta di illustrazioni di bagni ebraici chiamati mikvah, utilizzati per purificare le donne dopo parto o mestruazioni. Nell’immagine non ci sono uomini.

L’unico posto dove vedere donne fare un bagno insieme in Europa a quel tempo era nei bagni di purificazione che sono stati utilizzati dagli ebrei ortodossi per gli ultimi 2mila anni” spiega al Guardian convinto che si tratti di un mikavh.

A questo aggiunge la mancanza nel codex di simbolismo cristiano, inusuale ai tempi dell’Inquisizione. “Non ci sono santi, croci, neanche nelle sezioni cosmologiche“. L’altro indizio che Skinner collega, sostenendo che l’autore fosse ebreo, è legato alle piante: le uniche che si possono ipotizzare nella realtà sembrano essere quelle di cannabis o oppio, il che “fa pensare che fosse un erborista o comunque una persona con conoscenze in materia” e, seppur perseguitati, a quei tempi i medici ebrei venivano spesso consultati proprio per la loro conoscenza botanica.

Infine, ed è qui che nella prefazione Skinner sottolinea il collegamento con l’Italia, si è soffermato sulla raffigurazione di quello che sembra un castello con merli a “coda di rondine”, tipici delle fortificazioni ghibelline nel nord Italia del XV secolo. All’indizio geografico vanno ad aggiungersi poi alcuni cenni storici sull’area di Pisa, la presenza degli ebrei e le influenze dello stile germanico (che si nota in certi disegni) legato al Sacro Romano Impero.

Insomma, il Manoscritto di Voynich è stato, resta e, probabilmente, resterà un mistero ancora per lungo tempo. All’epoca in cui il testo fu redatto, scrivere libri criptici era un fenomeno abbastanza diffuso tra gli studiosi, preoccupati che altri studiosi rivali non venissero a conoscenza delle proprie scoperte. Alla fine, il libro potrebbe essere davvero intraducibile perché l’autore potrebbe averlo scritto con un alfabeto ed una lingua di sua invenzione per preservare ricette e segreti.

E, se è così, il segreto per interpretare il codice potrebbe essere morto con il suo autore.

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