giovedì, Maggio 15, 2025
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Risolto un mistero della fisica quantistica

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Risolto un mistero della fisica quantistica
Risolto un mistero della fisica quantistica
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La fisica quantistica spiega come vengono assemblati gli elementi costitutivi del mondo come gli atomi o gli elettroni. Tutto ciò che vediamo intorno a noi è composto da atomi ed elettroni che sono così piccoli che un miliardo di atomi posti uno accanto all’altro potrebbe stare in un centimetro.

A causa del modo in cui si comportano gli atomi e gli elettroni, gli scienziati descrivono questo comportamento come ondulatorio. Nella ricerca, gli scienziati hanno esaminato come le onde possano attraversare un paesaggio contenente ostacoli posti in posizioni casuali.

Anderson ha inizialmente sviluppato questa idea per descrivere gli elettroni nei semiconduttori. La sua intuizione ha notevolmente contribuito allo sviluppo di chip per computer ed elettronica.

Il suo lavoro descrive un fenomeno comune che si verifica per tutti i tipi di onde, che si tratti di onde luminose, onde oceaniche, onde sonore o onde quantomeccaniche”, afferma il ricercatore capo Maarten Hoogerland dell’Università di Auckland.

Le onde, a differenza delle particelle che viaggiano in linea retta, possono aggirare gli ostacoli, ma se ci sono abbastanza ostacoli casuali, le onde non possono passare perché interferiscono tra loro e si annullano.

Nel Quantum Information Lab dell’Università, i ricercatori hanno portato al lavoro di Anderson un ulteriore passo avanti e hanno aggiunto alla miscela un esperimento con atomi ultra freddi. Con l’aiuto di laser ad alta tecnologia, hanno manipolato questi atomi ultra freddi rendendoli un po’ meno freddi, il loro comportamento da onda è diventato visibile agli occhi.

Stiamo parlando di un miliardesimo di grado sopra lo zero assoluto (-273,15 gradi C), quindi è piuttosto freddo. Abbiamo creato schemi personalizzati di ostacoli per fermare le onde e quando scattiamo una foto, possiamo scoprire dove si trovano questi atomi“, dice il dottor Hoogerland.

In questo modo, possiamo vedere cosa è necessario esattamente per far riflettere le nostre onde quantomeccaniche sugli ostacoli e perché le onde non entrano“.

Lavorando insieme, attraverso il Dodd-Walls Center for Photonics and Quantum Technologies, con i ricercatori dell’Università di Otago, il team di ricerca è stato in grado di abbinare i risultati degli esperimenti con previsioni teoriche, lasciando il posto a nuove intuizioni che potrebbero essere utilizzate per creare e testare “materiali di design” con proprietà personalizzate.

Riferimento: “Osservazione della localizzazione Anderson bidimensionale di atomi ultrafreddi” di Donald H. White, Thomas A. Haase, Dylan J. Brown, Maarten D. Hoogerland, Mojdeh S. Najafabadi, John L. Helm, Christopher Gies, Daniel Schumayer e David AW Hutchinson, 2 ottobre 2020, Nature Communications .
DOI: 10.1038 / s41467-020-18652-w

Un pianeta ormai “estinto” orbitava attorno alla nostra stella

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Un pianeta delle dimensioni comprese tra Mercurio e Marte orbitava attorno alla nostra stella circa 4,55 miliardi di anni fa, prima di essere distrutto durante una collisione.

E se l’angolo di cosmo in cui abitiamo avesse ospitato in passato un’intera generazione di mondi ormai “estinti”?

Un pianeta perduto

È l’ipotesi che emerge da uno studio pubblicato su Nature Communications, che presenta la prima dimostrazione dell’esistenza di almeno un ex pianeta un tempo in orbita attorno alla nostra stella. La prova arriva direttamente dallo spazio: si tratta del meteorite 2008 TC3, schiantatosi nel 2008 nel deserto di Nubia, regione orientale del Sahara compresa tra il Sudan, il Nilo e il Mar Rosso. I suoi frammenti, recuperati dopo l’impatto, sono stati chiamati Almahata Sitta, che in arabo significa Stazione Sei, dal nome della più vicina stazione ferroviaria all’area di recupero.

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Il gruppo di ricerca, coordinato dalla Scuola politecnica federale di Losanna, ha analizzato i sottili cristalli imprigionati nel meteorite, chiamati nanodiamanti: in base ai risultati, queste delicate strutture possono essersi formate soltanto grazie alle condizioni di altissima temperatura che si verificano durante la crescita di un pianeta. In altre parole, Almahata Sitta è in realtà ciò che resta di un pianeta perduto, formato nei primi 10 milioni di anni di vita del sistema solare e poi completamente distrutto durante una collisione.

Studiando i diamanti di 2008 TC3 con una particolare tecnica di microscopia elettronica, gli scienziati hanno ipotizzato che si trattasse in particolare di un proto-pianeta nato circa 4,55 miliardi di anni fa, grande almeno come Mercurio, forse persino quanto Marte.

Questo studio getta una nuova luce sul passato del nostro sistema solare, che potrebbe essere più burrascoso di quanto pensassimo. Resta da ricostruire la dinamica dello scontro che ha portato alla completa distruzione di questo antico mondo – forse uno dei tanti pianeti perduti del nostro sistema planetario.

In futuro, gli uragani colpiranno più parti della Terra

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Un nuovo studio condotto da Yale suggerisce che il 21° secolo vedrà un’espansione di uragani e tifoni nelle regioni di media latitudine, che includono le principali città come New York, Boston, Pechino e Tokyo.

Gli uragani possono passare da un emisfero all’altro

Gli autori dello studio, pubblicato sulla rivista Nature Geoscience, hanno affermato che i cicloni tropicali – uragani e tifoni – potrebbero migrare verso nord e verso sud nei rispettivi emisferi, poiché il pianeta si riscalda a causa delle emissioni di gas serra di origine antropica.

La tempesta subtropicale Alpha del 2020, il primo ciclone tropicale osservato atterrare in Portogallo, e l’uragano Henri di quest’anno, che è atterrato nel Connecticut, potrebbero essere precursori di tali tempeste.

“Questo rappresenta un rischio importante e sottovalutato del cambiamento climatico”, ha affermato il primo autore Joshua Studholme, fisico del Dipartimento di Scienze della Terra e Planetarie di Yale presso la Facoltà di Lettere e Scienze, e un autore collaboratore del Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sesto rapporto di valutazione sui cambiamenti climatici pubblicato all’inizio di quest’anno.

“Questa ricerca prevede che i cicloni tropicali del 21° secolo si verificheranno probabilmente su una gamma più ampia di latitudini rispetto a quanto è avvenuto sulla Terra negli ultimi 3 milioni di anni”, ha detto Studholme.

Coautori dello studio sono Alexey Fedorov, professore di scienze oceaniche e atmosferiche a Yale, Sergey Gulev dello Shirshov Institute of Oceanology, Kerry Emanuel del Massachusetts Institute of Technology e Kevin Hodges dell’Università di Reading.

Mentre un aumento dei cicloni tropicali è comunemente citato come un presagio di cambiamento climatico, rimane poco chiaro su quanto siano sensibili alla temperatura media del pianeta. Negli anni ’80, il coautore dello studio Emanuel ha utilizzato concetti della termodinamica classica per prevedere che il riscaldamento globale avrebbe provocato tempeste più intense, una previsione che è stata convalidata nel record di osservazione.

Eppure altri aspetti della relazione tra cicloni tropicali e clima mancano ancora di una teoria basata sulla fisica. Ad esempio, non c’è accordo tra gli scienziati sul fatto che il numero totale di tempeste aumenterà o diminuirà con il riscaldamento del clima, o perché il pianeta subisce circa 90 di questi eventi ogni anno.

“Ci sono grandi incertezze su come cambieranno i cicloni tropicali in futuro”, ha affermato Fedorov. “Tuttavia, più linee di evidenza indicano che potremmo vedere più cicloni tropicali alle medie latitudini, anche se la frequenza totale dei cicloni tropicali non aumenta, cosa ancora attivamente dibattuta. Aggregate al previsto aumento dell’intensità media dei cicloni tropicali, questa scoperta implica rischi maggiori dovuti ai cicloni tropicali nel riscaldamento climatico della Terra”.

Tipicamente, i cicloni tropicali si formano a basse latitudini che hanno accesso alle acque calde degli oceani tropicali e lontano dall’impatto di taglio delle correnti a getto, le bande di vento da ovest a est che circondano il pianeta. La rotazione terrestre fa sì che ammassi di temporali si aggreghino e ruotino verso l’alto per formare i vortici che diventano cicloni tropicali. Esistono anche altri meccanismi di formazione degli uragani.

Man mano che il clima si riscalda, le differenze di temperatura tra l’equatore e i poli diminuiranno, affermano i ricercatori. Nei mesi estivi, ciò può causare un indebolimento o addirittura una spaccatura nella corrente a getto, aprendo una finestra alle medie latitudini per la formazione e l’intensificazione dei cicloni tropicali.

Per lo studio, Studholme, Fedorov e i loro colleghi hanno analizzato simulazioni numeriche di climi caldi del lontano passato della Terra, recenti osservazioni satellitari e una varietà di proiezioni meteorologiche e climatiche, nonché la fisica fondamentale che governa la convezione atmosferica e i venti su scala planetaria. Ad esempio, hanno notato che le simulazioni di climi più caldi durante l’Eocene (da 56 a 34 milioni di anni fa) e il Pliocene (da 5,3 a 2,6 milioni di anni fa), hanno visto la formazione di cicloni tropicali e l’intensificarsi a latitudini più elevate.

“Il problema principale quando si effettuano previsioni sugli uragani futuri è che i modelli utilizzati per le proiezioni climatiche non hanno una risoluzione sufficiente per simulare cicloni tropicali realistici”, ha affermato Studholme, che è un borsista post-dottorato a Yale.

“Invece, vengono in genere utilizzati diversi approcci indiretti. Tuttavia, questi metodi sembrano distorcere la fisica sottostante di come si formano e si sviluppano i cicloni tropicali. Alcuni di questi metodi forniscono anche previsioni che si contraddicono a vicenda”.

Il nuovo studio trae le sue conclusioni esaminando le connessioni tra la fisica degli uragani su scale troppo piccole per essere rappresentate negli attuali modelli climatici e la dinamica meglio simulata delle correnti a getto della Terra e della circolazione dell’aria nord-sud, note come celle di Hadley.

Beta Pictoris

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Per due anni, dal 2014 al 2016 grazie allo Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet REsearch (SPHERE) gli scienziati sono stati in grado di documentare la rivoluzione di un pianeta extra solare attorno alla sua stella madre. Lo strumento era installato sul VLT dell’ESO. Il pianeta, conosciuto come Beta Pictoris b orbita attorno alla stella Beta Pictoris posta a circa 63 anni luce dal Sistema Solare, che ha una massa maggiore del Sole di circa 1,7 volte con una temperatura superficiale di 7.800 °C, quindi più calda del Sole. l’età stimata di Beta Pictoris, la seconda più brillante nella costellazione del Pittore (Pictoris) è di circa 20 milioni di anni, dunque siamo di fronte a una stella molto giovane.

La scoperta di Beta Pictoris b risale al novembre del 2008 e già da allora si stimava la sua massa in circa sette masse gioviane, con un’orbita di circa 20 anni a una distanza di ben 1 miliardo e 300 milioni di chilometri, più o meno quanto dista Saturno dal nostro Sole. Il pianeta, forse un gigante gassoso come i pianeti esterni del sistema solare nonostante sia lontanissimo dalla sua stella ha una temperatura superficiale di circa 1500 °C e proprio per questo motivo è un ottimo candidato alle analisi agli infrarossi.

Nel 1983, furono individuati attorno a Beta Pictoris i primi indizi della presenza di un anello composto dai detriti di polvere che precede la formazione di un sistema planetario, con la particolarità che dalla Terra questo anello si vede di profilo e grazie a vari strumenti e un lavoro lungo e paziente è stato possibile realizzare delle sequenze di immagini molto interessanti.

Il disco circumstellare è stato osservato otticamente e rilevato per la prima volta nell’infrarosso da Infrared Astronomy Satellite, si è visto che si estende per più di 400 unità astronomiche dalla stella, o più del doppio della distanza misurata nell’infrarosso dal satellite dell’astronomia a infrarossi. Il disco beta Pictoris è composto da particelle solide in orbite quasi complanari. Poiché il materiale circumstellare si presenta sotto forma di un disco molto appiattito anziché di un guscio sferico, lo si associa alla formazione di un sistema planetario.

Dopo due anni di osservazione, dal 2014 al 2016 il pianeta è stato nascosto dalla luce della sua stella fino al settembre del 2018 quando è stato visto riemergere dall’altra parte di Beta P. Il transito di Beta Pictoris b ha dato un’opportunità unica di studiarne l’atmosfera.

Il satellite Kepler ha rilevato 365 sistemi extrasolari, una gran parte dei quali ha un’orbita complanare e se un pianeta orbitando attorno alla propria stella ne viene occultato, probabilmente anche per altri pianeti può caitare la stessa cosa.

L’obiettivo è di effettuare una ricerca di tutti i pianeti in transito nel sistema Beta Pictoris con orbite inferiori a 30 giorni complanari al pianeta Beta Pictoris b. Il transito è stato studiato grazie al nanosatellite BRITE-Constellation BRITE-Heweliusz, ma per ora si esclude l’esistenza di pianeti superiori a 0,6 R J per periodi inferiori a 5 giorni, superiori a 0,75 R J per periodi inferiori a 10 giorni e superiori a 1,05 R J per periodi inferiori a 20 giorni.

Fonte: Focus.

Nuova BMW iX Flow con E Ink: l’ auto che cambia colore

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La digitalizzazione offre un’esperienza utente integrata caratterizzata da individualità ed emotività all’interno degli attuali modelli di auto BMW. Le modalità My consentono al conducente di adattare l’atmosfera all’interno interamente al proprio stato d’animo personale e all’esperienza di guida che desiderano.

La nuova BMW presentata al CES 2022

Con la presentazione della BMW iX Flow con E Ink in occasione del CES 2022, la casa automobilistica premium con sede a Monaco offre la prospettiva di una tecnologia futura che utilizza la digitalizzazione per adattare anche l’esterno di un veicolo alle diverse situazioni e ai desideri individuali. La superficie della nuova BMW, infatti, può variare la sua tonalità su richiesta del guidatore.

Frank Weber, membro del consiglio di amministrazione di BMW AG, Development, ha detto: “In futuro le esperienze digitali non si limiteranno solo ai display. Ci sarà sempre più fusione tra reale e virtuale. Con la BMW iX Flow, noi stanno dando vita alla carrozzeria dell’auto”.

I cambi di colore fluidi sono resi possibili da un rivestimento per il corpo appositamente sviluppato, adattato esattamente ai contorni dello Sports Activity Vehicle completamente elettrico di BMW. Quando stimolata da segnali elettrici, la tecnologia elettroforetica porta in superficie diversi pigmenti di colore, facendo assumere alla superficie dell’auto la colorazione desiderata.

Adrian van Hooydonk, Head of BMW Group Design: “La BMW iX Flow è un progetto di ricerca e design avanzato e un ottimo esempio della lungimiranza per cui la BMW è nota“.

L’innovativa tecnologia E Ink apre strade completamente nuove per modificare l’aspetto del veicolo in linea con le preferenze estetiche del guidatore, le condizioni ambientali o anche i requisiti funzionali. Offre quindi un potenziale di personalizzazione senza precedenti nell’area del design esterno.

Effetti impressionanti

La BMW iX Flow con E Ink lo dimostra con effetti impressionanti. In questo contesto, il BMW Group sta guidando lo sviluppo della tecnologia in modo che una nuova forma di personalizzazione possa essere sperimentata sia all’esterno che all’interno dei futuri veicoli di produzione.

Già oggi il colore scelto per un’auto è espressione della personalità del pilota. La scelta delle vernici esterne disponibili per gli attuali modelli BMW copre un’ampia gamma di colori.

In questo modo si può tenere conto del desiderio di un aspetto selvaggiamente espressivo, stravagante o sportivo all’esterno, nonché del desiderio di un aspetto sobrio, sottile o elegante. Ogni anno vengono aggiunte nuove varianti che rispecchiano le caratteristiche del modello in questione e che consentono al marchio di continuare a fare tendenza nell’area del design esterno.

Le nuove tecnologie forniranno in futuro un livello completamente nuovo di libertà decisionale. “Questo dà al guidatore la libertà di esprimere le diverse sfaccettature della propria personalità o anche il piacere del cambiamento esteriormente, e di ridefinirlo ogni volta che si siede nella propria auto“, afferma Stella Clarke, responsabile del progetto per la BMW iX Flow con E Ink. “Simile alla moda o agli annunci di stato sui canali dei social media, il veicolo diventa quindi un’espressione di diversi stati d’animo e circostanze nella vita quotidiana“.

Come un colore esterno variabile può aumentare l’efficienza.

Un colore esterno variabile può anche contribuire al benessere degli interni e all’efficienza del veicolo. Ciò avviene tenendo conto delle diverse capacità dei colori chiari e scuri quando si tratta di riflettere la luce solare e del relativo assorbimento di energia termica.

Ad esempio, una superficie bianca riflette molta più luce solare di una nera. Di conseguenza, il riscaldamento del veicolo e dell’abitacolo dovuto alla forte luce solare e alle alte temperature esterne può essere ridotto cambiando l’esterno in un colore chiaro. Nella stagione più fresca, un rivestimento esterno scuro aiuterà il veicolo ad assorbire notevolmente più calore dal sole.

In entrambi i casi, i cambi di colore selettivi possono aiutare a ridurre la quantità di raffreddamento e riscaldamento richiesta dall’aria condizionata del veicolo.

Ciò riduce la quantità di energia necessaria all’impianto elettrico del veicolo e con essa anche il consumo di carburante o elettricità del veicolo. In un’auto completamente elettrica, quindi, cambiare il colore in base alle condizioni meteorologiche può anche aiutare ad aumentare l’autonomia. All’interno, la tecnologia potrebbe, ad esempio, evitare che il cruscotto si surriscaldi troppo.

La stessa tecnologia E Ink è estremamente efficiente dal punto di vista energetico. A differenza di display o proiettori, la tecnologia elettroforetica non necessita assolutamente di energia per mantenere costante lo stato colore scelto. La corrente scorre solo durante la breve fase di cambio colore.

Milioni di capsule di vernice in una confezione personalizzata.

La colorazione elettroforetica si basa su una tecnologia sviluppata da E Ink che è più nota dai display utilizzati negli eReader. Il rivestimento superficiale della BMW iX Flow con E Ink contiene molti milioni di microcapsule, con un diametro equivalente allo spessore di un capello umano. Ognuna di queste microcapsule contiene pigmenti bianchi a carica negativa e pigmenti neri a carica positiva.

A seconda dell’impostazione scelta, la stimolazione mediante un campo elettrico fa sì che i pigmenti bianchi o neri si raccolgano sulla superficie della microcapsula, conferendo alla carrozzeria la tonalità desiderata.

Il raggiungimento di questo effetto sulla carrozzeria di un veicolo implica l’applicazione di molti segmenti ePaper montati con precisione. Vengono implementati processi di progettazione generativa per garantire che i segmenti riflettano i contorni caratteristici del veicolo e le conseguenti variazioni di luce e ombra. Gli algoritmi di progettazione generativa consentono la formabilità e la flessibilità necessarie per adattare l’ePaper esattamente alle linee di progettazione del veicolo.

Le tecnologie di taglio laser garantiscono un’elevata precisione nella generazione di ogni segmento. Dopo l’applicazione dei segmenti e il collegamento dell’alimentazione per la stimolazione del campo elettrico, l’intero corpo viene riscaldato e sigillato per garantire una riproduzione cromatica ottimale e uniforme ad ogni cambio colore.

L’incredibile arma a “forza senza nome”

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Ricorderete il raggio della morte del grande Guglielmo Marconi, o quello di Tesla o altre armi esotiche che circolano puntualmente in rete che sarebbero dotate di capacità straordinarie. Oggi parleremo di un raggio che è addirittura antecedente a quelli che conosciamo, forse potremo quasi considerarlo il degno padre di tali fantastici figli.

Nel febbraio del 1876, il “Professor” James C. Wingard di New Orleans annunciò che aveva inventato una nuova e potente arma che avrebbe distrutto completamente qualsiasi nave, di qualsiasi materiale fosse stata costruita, “in modo da non lasciare traccia del bersaglio nella sua forma precedente“.

Wingard non diede molte spiegazioni riguardo al mezzo esatto con cui operava la sua arma. Diceva solo che proiettava una “forza senza nome“, che in qualche modo comportava l’ausilio dell’elettricità, applicata senza alcun collegamento diretto tra la macchina e l’oggetto da distruggere – e che avrebbe funzionato fino a cinque miglia di distanza dall’arma stessa.

La forza senza nome avrebbe agito da distanza di sicurezza, abbastanza lontano da essere oltre la portata di qualsiasi altra arma o cannone allora esistente.

In altre parole, possiamo tranquillamente affermare che questa era una versione del diciannovesimo secolo del famoso raggio della morte.

Wingard affermò che poche navi equipaggiate con la sua arma sarebbero state in grado di dominare tutte le altre marine del mondo messe insieme. Anzi, aveva previsto che la sua arma avrebbe significato la fine della guerra navale del tutto, dal momento che la prima marina ad acquistarla sarebbe diventata invincibile e avrebbe regnato sovrana sul mondo intero.

La dimostrazione di New Orleans

L’8 giugno 1876, Wingard condusse una dimostrazione della sua arma a “forza senza nome” sul Lago Pontchartrain, a cui partecipò un comitato di importanti cittadini e ufficiali della marina.

Il comitato osservava dalla riva, mentre Wingard manovrava il suo apparecchio da una piccola imbarcazione. La nave bersaglio era una grande goletta di legno (l’Augusta), ancorata ad un quarto di miglio di distanza.

Alle 14:35 Wingard diede il segnale che stava per sparare con il suo apparecchio. La gente a terra vide aumentare il fumo emesso dalla famigerata macchina e, più tardi, alcuni di loro dichiararono di aver visto una scia indefinita fatta di una specie di sostanza muoversi rapidamente attraverso l’acqua, fuoriuscita da sotto la barca e diretta verso la goletta.

Inizialmente non accadde nulla alla goletta. Passò oltre un minuto e gli spettatori già stavano concludendo che il test fosse stato un fallimento quando, improvvisamente, ci fu un’esplosione e una nuvola di fumo si alzò sopra la poppa della nave e la goletta cominciò ad affondare rapidamente nell’acqua.

I membri del comitato, più tardi, esaminarono i resti della nave e constatarono che era andata completamente distrutta.

In un rapporto sull’avvenimento pubblicato dal Repubblic di New Orleans si legge:

Persino le piccole travi di poppa dell’albero principale sono state fatte a pezzi, l’albero era ancora in piedi, ma tutto il resto è stato distrutto così da non poter essere trainato a riva, la bandiera è stata fatta a pezzi e caduta a mezz’asta, dove stava ancora ondeggiando.”

Sfortunatamente, il Professor Wingard si ustionò la mano durante la dimostrazione. Spiegò poi che il guanto di seta con cui teneva un tubo di vetro non era stato sufficiente a proteggerlo. Ma a parte questo contrattempo, il test è venne considerato un successo completo.

L’Epic Fail di Boston

Incoraggiato dal successo della manifestazione di New Orleans, Wingard si trasferì a Boston diversi anni dopo, dove formò una società per sviluppare ulteriormente la sua arma. La sua compagnia raccolse $ 1800, ma i suoi nuovi investitori volevano vedere l’arma funzionare, per cui Wingard organizzò una dimostrazione nel porto di Boston.

Wingard gestiva il suo apparato sul ponte di un piccolo piroscafo. Una nave bersaglio era posizionata a circa un miglio di distanza. Ma improvvisamente, prima che il test iniziasse, si verificò una grande esplosione sull’acqua, ad una distanza considerevole da entrambe le navi. Il relitto di una barca a remi fu poi trovato nel luogo dell’esplosione, trasportando i resti mutilati di due corpi. Wingard apparve molto agitato da quello che era successo e disse che il suo esperimento non poteva essere portato a termine quel giorno.

Scosso dalla tragedia, Wingard alcuni giorni dopo confessò la verità ai suoi azionisti: La sua arma a “forza senza nome” era una finzione. La dimostrazione precedente fu truccata posizionando dinamite sotto la nave bersaglio, collegata ad un apparecchio di innesco tramite un filo sottomarino. L’esplosione era stata causata da un incidente avvenuto mentre i suoi complici stavano piazzando l’esplosivo sotto la nave bersaglio, uccidendoli entrambi.

Non si sentì più parlare di Wingard e della sua arma a “forza senza nome” ma forse, come dicevamo in apertura, qualcuno ha utilizzato questa storia per attribuire l’invenzione di armi misteriose, potenti e fantascientifiche a geni della scienza, loro malgrado.

Fonte: Hoaxes.org

Problemi per Perseverance durante la raccolta di campioni su Marte

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Il 1 settembre, il rover Perseverance della NASA ha completato con successo la sua prima operazione di prelievo di campioni a 190 giorni dall’inizio della sua missione su Marte. È stato un momento emozionante per tutti, specialmente per l’agenzia spaziale. Ora, però, sembra vi siano dei problemi.

La NASA ha infatti riferito che il rover Perseverance ha riscontrato un problema con il suo sistema di raccolta delle rocce, e ha costretto l’intera missione a fare qualche passo indietro.

“Questa è solo la sesta volta nella storia umana che un campione viene estratto da una roccia su un pianeta diverso dalla Terra, quindi quando vediamo che accade qualcosa di anomalo, ci andiamo piano”, ha scritto Louise Jandura, Chief Engineer for Sampling e Memorizzazione nella cache della NASA/JPL.

Cosa è successo a Perseverance

Il 29 dicembre, alcuni detriti hanno parzialmente bloccato la parte di Perseverance che passa i tubi dei campioni per l’elaborazione interna. La NASA ha quindi dovuto aspettare fino al 6 gennaio per inviare il comando di scattare immagini per valutare cosa fosse successo e cosa fosse necessario fare per risolvere il problema.

Una volta ottenute tutte le informazioni appropriate, la NASA ha inviato un altro comando per estrarre la punta del trapano e il tubo pieno di campioni dal caricatore di punte e sganciare il braccio robotico dal caricatore di punte. L’agenzia spaziale ha quindi scattato altre immagini per determinare cosa stesse esattamente bloccando lo strumento.

“Queste immagini più recenti sottoposte a downlink confermano che ci sono alcuni pezzi di detriti delle dimensioni di un ciottolo. Il team è fiducioso che si tratti di frammenti della roccia che sono caduti dal tubo di campionamento al momento del Coring Bit Dropoff, e che hanno impedito alla punta di posizionarsi completamente nella giostra della punta”, ha scritto Jandura.

Una piccola quantità di sassi, è riuscita a mettere fuori gioco Perseverance per alcuni giorni. Per fortuna tutto è bene quel che finisce bene e il rover può continuare la sua missione di raccolta di pietre.

Il rover cinese Yutu 2 risolve il mistero del “cubo” sulla Luna

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Il mese scorso, abbiamo riferito che  il rover cinese Yutu 2 ha individuato un misterioso oggetto a forma di cubo mentre si spostava attraverso il cratere di Von Kármán. Internet si è immediatamente scatenato con le teorie secondo cui il misterioso oggetto denominato “capanna misteriosa” o “strano cubo” potrebbe essere di origine aliena.

La scoperta è stata effettivamente fatta lo scorso novembre durante il 36° giorno lunare della missione del rover Yutu 2. L’oggetto individuato era a circa 80 metri di distanza sull’orizzonte settentrionale. La scoperta è stata riportata su un diario di Yutu 2  da  Our Space, un blog in lingua cinese associato alla China National Space Administration (CNSA).

L’agenzia spaziale cinese ha quindi annunciato che avrebbe diretto il rover Yutu 2 verso l’oggetto per indagare sul misterioso oggetto ed ottenere alcune risposte.

Ora abbiamo finalmente la conferma di cosa sia l’oggetto e francamente non è così eccitante. È semplicemente una roccia.

Paul Byrne, professore di Scienze della Terra e Planetarie alla Washington University di St. Louis, ha detto: “Si tratta chiaramente di un grosso masso delle dimensioni di un piccolo masso. E quindi, per definizione, *è* un masso”.

Byrne ha inoltre specificato:

In realtà esiste una definizione di masso, secondo qualcosa chiamato scala Udden-Wentworth, che dice che un masso è un pezzo di roccia con un diametro superiore a 256 mm. Quindi penso che il nostro amico lunare ci rientri“.

Il team Yutu-2 ha ora chiamato la roccia “Jade Rabbit” per la sua somiglianza con l’animale.

Nel gennaio del 2020, Yutu-2 ha rilasciato un tesoro di immagini del lato lontano (o “oscuro”) della Luna. Le immagini provenivano dalla fotocamera del lander Chang’e-4 e dalla fotocamera panoramica del rover Yutu-2.

All’epoca  furono rilasciati ben 17.239 file di dati con un volume totale di dati di 20,9 GB.

Alcuni scienziati stanno pensando ad una missione spaziale di 1.000 anni per salvare l’umanità

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I cambiamenti climatici potrebbero rendere ampie fasce del nostro pianeta invivibili per gli esseri umani entro la fine del secolo. Se riusciamo ad adattarci e sopravvivere, su una linea temporale abbastanza lunga la Terra diventerà comunque inabitabile per altri motivi: eventi casuali come l’impatto di una cometa o l’eruzione di un supervulcano, o, ancora più a lungo termine, il Sole si dilaterà  in un gigante rosso in circa cinque miliardi di anni, inghiottendo completamente il nostro pianeta o incenerendolo. Pianificare potenziali vie di fuga dalla Terra è, se non proprio urgente, almeno una risposta da considerare  nei confronti di una plausibile minaccia di estinzione per la nostra specie.

A questo scopo, la destinazione più ovvia è il nostro vicino planetario, Marte.

Abbiamo già inviato molte sonde sul pianeta rosso la NASA sta pianificando il ritorno sulla Luna per utilizzare il nostro satellite come trampolino di lancio per una missione umana verso Marte.

Nel frattempo, la compagnia SpaceX di Elon Musk afferma di voler puntare a un viaggio con equipaggio su Marte entro la fine del nuovo decennio. Ma Marte è un pianeta deserto, freddo e sterile, senza atmosfera se non una sottile coltre di CO2. Certo, potremmo sopravvivere lì, in tute protettive e strutture ermeticamente sigillate, ma non è veramente un buon posto dove vivere.

Alcuni scienziati hanno un altro candidato che considerano colonizzabile: Proxima b, un pianeta che orbita attorno a una stella chiamata Proxima Centauri, distante circa 4,24 anni luce dal nostro Sole.

Situato nel sistema solare a tre stelle di Alpha Centauri, Proxima b ha una massa di 1,3 volte quella della Terra e si presume che la temperatura in superficie gli permetta di avere acqua liquida in superficie, aumentando la possibilità che possa sostenere la vita.

La sfida più grande è arrivarci.

Proxima b è quasi inimmaginabilmente lontano.

C’è un programma in corso, Breakthrough Starshot, che intende inviare una sonda fino ad Alpha Centauri con un tempo di viaggio di soli 20 anni, ma l’intero mezzo peserà solo pochi grammi, spinto da un laser da 100 miliardi di watt situato sulla Terra che sparerà la sua luce sulla grande vela che fungerà da propulsore.

Considerata l’attuale tecnologia disponibile, o disponibile a breve, inviare un’astronave in grado di ospitare esseri umani in un viaggio anche di solo un anno luce, richiederà secoli; raggiungere un pianeta posto alla distanza di Proxima b richiederebbe un viaggio di almeno mille anni.

Ciò significa che l’equipaggio che si imbarcherà su questa ipotetica astronave non sarà lo stesso che arriverà a destinazione; Questa astronave sarebbe una nave generazionale.

La fantascienza si è spesso occupata di questa tematica, basta pensare al romanzo di T. H. Heinlein “Universo” in cui, dopo molte generazioni, l’equipaggio si è dimentica l’obbiettivo del viaggio e qualche reminiscenza sopravvive solo in poche antiche leggende, con gli abitanti della grande astronave che la considerano ormai come il loro intero universo.

Eppure, una piccola rete di ricercatori sta affrontando seriamente il problema dei viaggi spaziali generazionali. “Non esiste alcun ostacolo particolare dal punto di vista della fisica“, spiega Andreas Hein, direttore esecutivo dell’Iniziativa no profit per gli studi interstellari – un istituto di istruzione e ricerca incentrato sull’invio di spedizioni verso altre stelle. “Sappiamo che le persone possono vivere in aree isolate, come le isole, per centinaia o migliaia di anni; sappiamo che in linea di principio le persone possono vivere in un ecosistema artificiale come Biosphere2 . Si tratta di ridimensionare le cose. Ci sono molte sfide, ma nessun principio fondamentale della fisica viene violato“.

Come ci si potrebbe aspettare da una simile impresa, le difficoltà sono molte e ampie, che spaziano non solo nella fisica ma nella biologia, nella sociologia, nell’ingegneria e altro ancora.

Si tratta di risolvere problemi come la gravità artificiale, l’ibernazione, i sistemi di supporto vitale, la propulsione, la navigazione e molti altri ancora da considerare. Anche se non arrivassimo mai a Proxima b, nello studiare come possiamo sfuggire alla fine della Terra, alcuni scienziati coinvolti nel lavoro potrebbero imbattersi in soluzioni idonne per sopravvivere sul nostro pianeta, poiché risorse come energia e acqua diventano sempre più scarse.

Quando si tratta di pianificare un viaggio oltre il nostro sistema solare per colonizzare i pianeti di una stella vicina, la domanda fondamentale è se, a livello biologico, un viaggio del genere sia alla portata di tutti.

Frédéric Marin, un astrofisico dell’Università di Strasburgo e un esperto globale delle radiazioni create dai buchi neri, ha affrontato questa domanda in una serie di articoli di ricerca prodotti senza finanziamenti e nel suo tempo libero.

È stato ispirato a esaminare la questione dal lavoro di Nick Kanas, un professore di psichiatria che ha studiato gli astronauti della NASA per comprendere l’effetto psicologico dei mesi trascorsi nella Stazione Spaziale Internazionale.

Kanas ha pubblicato numerosi articoli e libri sull’argomento, valutando l’impatto che hanno sulla mente umana confinamento, stress, gravità zero e isolamento dalla Terra. Descrive il proprio lavoro come un precursore per la progettazione di missioni spaziali di lunga durata. Questo corpus di ricerche ha posto delle domande sul fatto che i viaggi con equipaggio verso i pianeti esterni del sistema solare e oltre siano fattibili e Marin ha realizzato che pochissime persone avevano cercato di affrontare seriamente la questione da un punto di vista biologico e sociologico.

Come astrofisico, Marin è abituato a costruire modelli che simulano l’interazione delle particelle nello spazio. Ha progettato una simulazione in cui ogni unità rappresenta non una particella ma un essere umano in un ambiente chiuso, con una certa probabilità di vivere in modo sano, soccombere alle malattie e infine trasmettere materiale genetico alla generazione successiva. La simulazione, inoltre, prevede che gli esseri umani delle generazioni successive nascano con alcuni attributi casuali e altri basati sulla “consanguineità” dei loro genitori. La domanda guida cerca risposta alle conseguenze di avere un equipaggio iniziale di un certo numero di persone e se questo numero sarebbe sufficiente per completare un viaggio di 200 anni senza aumentare la capacità della nave, morire in massa o arrivare con un’eccessiva consanguineità. “È possibile utilizzare i dati già disponibili da biologia, antropometria, antropologia e matematica, per calcolare il risultato“, afferma Marin.

Nel 2017 Marin ha pubblicato un documento che presenta un sistema software, soprannominato HERITAGE, in grado di simulare la crescita di una popolazione umana isolata nel tempo per prevedere se un equipaggio iniziale di una determinata dimensione sarebbe sufficiente per completare un viaggio su più generazioni e arrivare con sufficiente diversità genetica per popolare un nuovo pianeta.

Nel 2018 lui e il coautore Camille Beluffi, un fisico specializzato nell’analisi di dati scientifici CASC4DE, hanno applicato la stessa tecnica per calcolare le dimensioni dell’equipaggio necessarie per viaggiare verso Proxima b, stimando che solo 98 membri dell’equipaggio alla partenza dalla Terra sarebbero sufficienti per navigare con successo in un viaggio di 6.300 anni. Almeno teoricamente, secondo Marin, ciò dimostra che non è impossibile per l’uomo mantenere un pool genetico sano durante il viaggio verso Proxima b. “E dopo essere arrivati“, sogghigna, “chiedi, come possiamo continuato a mantenerlo?

Ha stimato poi quanto spazio sarebbe necessario per produrre cibo. Il trucco, ha ipotizzato in un articolo di quest’anno, sarebbe quello di coltivare verdure attraverso l’aeroponica – un sistema di coltivazione altamente efficiente in cui nebbie nutritive vengono spruzzate sulle radici di piante sospese – e ricavare alcune proteine ​​aggiuntive dagli animali, che hanno maggiori requisiti di spazio.

Usando queste tecniche, lo spazio totale necessario per alimentare un equipaggio di 500 sarebbe 0,45 km quadrati: la stessa area della Città del Vaticano. Quest’area sarebbe distribuita attorno a un cilindro a rotazione lenta per produrre gravità artificiale, cruciale per gli esseri umani per mantenere la massa muscolare e le normali funzioni corporee per un periodo prolungato nello spazio e anche su più piani. Il progetto architettonico suggerito da Marin è un cilindro alto solo 25 metri ma con un raggio di 224 metri, non dissimile dall’iconico concetto Stanford Torus della NASA.

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Credito: NASA Ames Research Center

L’analisi di Frédéric Marin serve per indicare la fattibilità del viaggio interstellare. Mentre il progetto Breakthrough Starshot elenca sfide significative da superare per raggiungere Alpha Centauri con una sonda che pesa meno di un nichel, i calcoli di Marin descrivono una nave più grande della più grande portaerei della Marina americana.

Avi Loeb, professore di astrofisica all’Università di Harvard e presidente del comitato consultivo del progetto Breakthrough Starshot, invece di deridere l’idea di una astronave di 500 persone, date la difficoltà del viaggio interstellare anche per navi ultra-piccole, spiega che, teoricamente, non c’è problema a spostare un carico molto più grande con lo stesso sistema di propulsione laser che Starshot utilizzerà. Ma c’è un altro ostacolo. “Una volta che esci dall’utero protettivo del campo magnetico terrestre“, dice Loeb, “sei esposto a particelle molto energiche che, nel giro di un anno, danneggeranno una frazione significativa delle cellule del tuo cervello… Questo è un rischio per le persone che andranno su Marte, immaginiamo in un viaggio che dura centinaia di anni“.

Tuttavia, concorda con Marin sul fatto che potremmo aver bisogno di capire come realizzare una missione spaziale di diverse generazioni. “Non c’è dubbio che il nostro futuro è nello spazio“, dice. “In un modo o nell’altro dovremo lasciare la Terra… Ad un certo punto ci sarà il rischio di un asteroide che ci colpirà, o alla fine il Sole si surriscalderà al punto da far bollire tutti gli oceani sulla terra. Alla fine, per sopravvivere dovremo trasferirci“.

A giugno, un gruppo di ricercatori provenienti da tutto il mondo si è riunito al centro espositivo spaziale Erasmus di Noordwijk, nei Paesi Bassi, per il primo seminario interstellare dell’Agenzia spaziale europea (ESA). Sotto l’alto tetto dell’auditorium con i riflettori rivolti verso il palcoscenico, un pubblico di oltre un centinaio di persone ha ascoltato presentazioni e conferenze su viaggi spaziali di diverse generazioni.

A presenziare, scienziati provenienti da numerosi campi di ricerca: architettura, astrofisica, linguistica, sociologia, ingegneria, scienza dei materiali, biologia umana e vegetale e altro ancora. Molti di loro miravano a rispondere a domande che sorgeranno solo dopo che potremo effettivamente costruire una simile astronave e mantenere gli umani in salute al suo interno per un millennio o più.

Questa era la teoria avanzata in “World Ships: Feasibility and Rationale“, una presentazione data dall’ingegnere aerospaziale Andreas Hein che esponeva i compromessi di diversi progetti di navi, nonché l’assunto dietro “Sociologia dell’esplorazione interstellare: Annotazioni su ordine sociale, autorità e strutture di potere “, in cui il professore di sociologia Elke Hemminger teorizzava il tipo di struttura sociale che una simile missione richiederebbe.

Si tratta di concetti ripresi dall’artista / biologo Angelo Vermeulen espressi in “Evolving Asteroid Starships: A Bio-Inspired Approach for Interstellar Space Systems“, e nella teoria del professore di teologia Michael WaltematheAspetti filosofici dell’esplorazione interstellare“, una presentazione che abbraccia l’etica della missione, i principi anti-contaminazione nello spazio e la risposta del cristianesimo agli alieni (Su quest’ultimi argomento viene citato l’ex astronomo capo del Vaticano José Gabriel Funes, che ha sostenuto che deve essere logicamente possibile che un Dio onnipotente abbia creato specie extraterrestri – e che senza peccato originale, potrebbero persino godere di una relazione più stretta con la loro creatore di umani).

Altri hanno osservato cosa potrebbe significare per l’equipaggio della nave – non la prima generazione, che sceglie volontariamente di lasciarsi la Terra alle spalle, ma per la seconda, decima, cinquantesima, centesima, il ricordo della Terra, quando il nostro pianeta sarà solo un mito e per i quali non ci sarà altra vita che il viaggio.

Andrew McKenzie e Jeffrey Punske, linguisti dell’Università del Kansas e dell’Università del sud dell’Illinois, scrivono chese il viaggio impiega diverse generazioni per essere completato, la lingua dei passeggeri può differire in modo significativo all’arrivo da quella alla partenza“. Altro in modo suggestivo suggeriscono: “Anche se le scuole di bordo mantenessero rigorosamente l’insegnamento dell’inglese terrestre, i bambini svilupperebbero il loro dialetto inglese della nave, che nel tempo divergerebbe dall’inglese terrestre“. Il problema sarebbe aggravato dal fatto che questo “Vessel English”- usando l’inglese come solo un esempio – sarebbe unico per ogni nave, al punto che gli equipaggi di due navi che arrivassero sullo stesso pianeta parlerebbero un dialetto diverso, o addirittura una lingua completamente diversa.

Separatamente, Neil Levy, professore di filosofia alla Macquarie University di Sydney e ricercatore senior di etica all’Università di Oxford, ha considerato le implicazioni morali in un articolo per Aeon: “Una nave generazionale può funzionare solo se la maggior parte dei bambini nati a bordo potranno essere addestrati a diventare l’equipaggio della generazione successiva”, scrive. “Avranno poca o nessuna scelta sul tipo di progetto che perseguono. Nella migliore delle ipotesi, avranno una vasta gamma di carriere a bordo tra cui scegliere: chef, giardiniere, ingegnere, pilota e così via”.

In altre parole, le loro opzioni di vita saranno estremamente limitate, così come la gamma di esperienze di cui potranno godere. Sarebbe etico metterli in questa situazione?

La risposta dipende da ciò che crediamo sia giustificato per preservare la nostra specie.

Invece, indica il sottotesto della domanda: le prospettive della vita sono già definite per caso dalla nascita nel mondo così com’è; la gamma dei possibili futuri di ogni bambino è limitata dalla povertà, dalla nazionalità, dalla religione, dalla cultura. Questo può essere ingiusto, ma lo accettiamo come parte della condizione umana. “Chiedere l’ammissibilità etica delle navi generazionali“, scrive, “potrebbe darci una nuova prospettiva sulla ammissibilità dei vincoli che imponiamo ora alle vite umane, qui sulla più grande nave generazionale possibile: il nostro pianeta“.

Insomma, c’è di più che semplici ostacoli tecnologici nel progettare di colonizzare la stella più vicina.

Nella sua ricerca, Andreas Hein dell’Iniziativa per gli studi interstellari stima che l’economia mondiale, se continua a crescere ai tassi attuali, potrebbe essere in grado di coprire i costi di costruzione di una nave di generazione tra il 2500 e il 3000.

E non è solo una questione di tempo: molto probabilmente non potremmo sviluppare un’economia abbastanza grande con le sole risorse della Terra, quindi dovremmo espanderci in qualche modo oltre il nostro pianeta natale.

Colonizzare lo spazio permetterebbe di testare entrambi gli scenari: reperire materie prime su pianeti, lune e asteroidi e testare l’idea che sia possibile vivere in un’astronave per centinaia di anni.

Da parte sua, il professor Avi Loeb, considera i viaggi nello spazio così pericolosi che non vale la pena fare un viaggio del genere, sebbene non abbia rinunciato all’idea che un giorno gli esseri umani possano arrivare su sistemi stellari lontani. Invece, vede altri percorsi più probabili per colonizzare posti molto lontani, come l’invio di un sistema di intelligenza artificiale in grado di costruire cellule biologiche dalle materie prime disponibili suol posto, per riassemblare la vita da zero, una vita che potrebbe o non potrebbe assomigliare alla nostra attuale razza umana.

Dato che potrebbe volerci un millennio perché un simile viaggio si materializzi effettivamente e che un pianeta colonizzato potrebbe non assomigliare in nessun modo alla nostra cultura, è facile vedere i progetti di viaggi spaziali multi-generazionali, anche quelli di scienziati seri, come nient’altro che un sogno irrealizzabile.

Paul M. Sutter, astrofisico alla Ohio State University e al Flatiron Institute di New York, ha pubblicato articoli sulla difficoltà dei viaggi interstellari, in particolare il programma Breakthrough Starshot.

Starshot non è una cattiva idea, sostiene, “è solo che il viaggio interstellare è ridicolmente difficile” In un video su YouTube, Sutter spiega che il metodo di propulsione laser di Starshot – che richiederebbe la stessa potenza in uscita di tutte le centrali nucleari negli Stati Uniti messe insieme – trasferirà solo pochi chili di spinta alla sonda spaziale. Alla domanda sull’utilizzo dello stesso metodo per guidare una nave che può trasportare anche un solo umano, Sutter è scettico. “Avrai bisogno di un milione di volte più energia o impiegherà un milione di volte in più“, dice – e nessuna delle due sembra un’opzione praticabile.

Il costo proibitivo e la difficoltà dell’esplorazione dello spazio significano anche che i progressi sono lenti. “Sono passati 50 anni [dall’atterraggio sulla luna] e non possiamo fare molto più di quanto abbiamo già fatto negli anni ’60“, afferma Sutter. “Quindi basta seguire questa linea di pensiero per capire cosa potremmo fare tra 50 anni“.

Ma possiamo trovare valore molto prima del viaggio stesso, dai benefici accessori della ricerca.

Angelo Vermeulen, artista e biologo di formazione che ora lavora come ricercatore di sistemi spaziali presso la Delft University of Technology nei Paesi Bassi, è specializzato nell’applicazione dei principi del mondo naturale ai sistemi artificiali. Descrive il suo lavoro come “ricerca teorica sull’ingegneria morfogenetica“, un approccio in cui la progettazione complessa emerge da un piccolo insieme di regole e proprietà iniziali – come il modo in cui le termiti costruiscono grandi tumuli raffreddati naturalmente per vivere senza alcun controllo centrale.

Alcuni dei suoi lavori integrano la ricerca del programma MELiSSA, un progetto guidato dall’ESA per sviluppare un sistema chiuso e circolare di supporto vitale che riciclerà l’anidride carbonica e i rifiuti organici in cibo, ossigeno e acqua.

L’obiettivo finale di MELiSSA è quello di rendere possibili missioni spaziali di lunga durata, ma una società consociata è stata incaricata di sviluppare applicazioni commerciali e terrestri della tecnologia – come un hub modulare per servizi igienico-sanitari in grado di fornire il trattamento delle acque reflue in ambienti off-grid, o un batterio ricco di nutrienti che riduce anche il colesterolo.

In un modo o nell’altro, la maggior parte dei ricercatori impegnati nella ricerca sui viaggi spaziali generazionali sottolinea che non è possibile mappare tutte le applicazioni di una svolta tecnologica o scientifica fino a quando non sarà rilasciata al pubblico. Non possiamo iniziare a collegare i punti e trovare nuovi percorsi e modelli, finché questi punti non esistono da qualche parte nella pagina; ma con il senno di poi, i modelli a breve e lungo termine diventano più evidenti, a volte in modi inaspettati.

Vermeulen racconta che nel 1901, alla Pan American Exposition di Buffalo, l’attrazione principale era un giro che simulava un viaggio sulla luna. Per 50 centesimi i passeggeri potevano salire a bordo della “navicella spaziale” Luna, un mezzo di legno alato che attraverso un’abile combinazione di pulegge, oggetti teatrali di scena, illusioni ottiche e persino attori nani, dava l’impressione di lasciarsi la Terra alle spalle e arrampicarsi verso la Luna.

La corsa ebbe un enorme successo, attirando 400.000 clienti paganti, tra cui l’allora presidente William McKinley, Thomas Edison e vari giudici della Corte suprema. La cosa fu riportata in notiziari in tutto il mondo.

È stato anche un puro spettacolo di fine secolo, un trionfo di creatività che, come i film di fantascienza degli anni ’60 o ’70, mostrava una visione del futuro ancora irrimediabilmente legata alle idee del tempo. Ma il suo impatto esatto – il suo impatto sulla coscienza collettiva – è difficile da quantificare. Forse senza questa simulazione della Luna, oggi non ci sarebbero la NASA né ci sarebbe stata la missione Apollo, né i rover su Marte.

Senza questi balzi di immaginazione, senza speculare su ciò che il futuro potrebbe essere prima di arrivarci, non arriviamo mai in un posto diverso dal presente.

E forse, solo forse, un giorno un uomo o una donna su un pianeta distante guarderanno indietro a questa ricerca, per quanto gli sembrerà antiquata, e diranno lo stesso.

Perché possiamo vedere la Luna durante il giorno? Video

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Perché possiamo vedere la Luna durante il giorno? Può sembrare strano guardare il cielo diurno e vedere la Luna, ma è perfettamente naturale. La geologa planetaria Sarah Noble lo scompone in modo da sapere quando alzare lo sguardo.

Pensiamo alla Luna come a un oggetto notturno perché spesso ci viene mostrato in questo modo nei libri e nei film. Anche il meteorologo usa il Sole come simbolo per il giorno e la Luna per la notte. Ma la Luna in realtà trascorre quasi tanto tempo nel cielo diurno quanto la notte. 

Pensiamo al motivo per cui possiamo vedere la Luna di notte. A differenza del nostro Sole, la Luna non crea luce propria. Possiamo vederla solo perché la luce del Sole si riflette sulla sua superficie. Lo stesso vale durante il giorno e, a differenza delle stelle che sono ancora lassù durante il giorno ma non possiamo vederle perché il cielo è troppo luminoso, la Luna in realtà brilla abbastanza da poterla vedere giorno o notte purché sia ​​nella parte destra del cielo.

Durante la luna piena, la Luna è opposta al Sole nel cielo. Ecco perché possiamo vedere l’intera faccia della Luna che riflette la luce del Sole. Mentre la Terra ruota, la Luna sorge proprio mentre il Sole tramonta, ma solo in quel giorno del mese.

Nei giorni che precedono la luna piena, se guardi nel cielo orientale, puoi trovare la Luna quasi piena che sorge prima che il Sole tramonti. E i giorni dopo la luna piena, puoi guardare nel cielo occidentale e trovare la Luna che tramonta dopo che il Sole è sorto.

Quando guardiamo la Luna nel cielo, a volte è difficile immaginare che sia un mondo a sé. Sebbene la Luna abbia alcune somiglianze con la Terra, è un mondo molto diverso dal nostro, un mondo inospitale per gli umani.

La Luna è molto più piccola della Terra

“Selene”, anche questo è uno dei suoi nomi, è un corpo molto più piccolo della Terra, è circa un quarto delle dimensioni del nostro pianeta. Ha un’area leggermente più piccola rispetto al Nord e al Sud America messi insieme. Ha anche una massa circa 81 volte inferiore a quella della Terra.

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