La foto sopra ritrae un martello trovato in Texas nel lontano 1934 e che, secondo una tesi sensazionalistica, sembrerebbe provenire da ancora più lontano nel tempo, almeno secondo i tanti sostenitori dei famigerati OOPARTs. La testa del martello sarebbe realizzata in ferro e il manico in legno e sarebbe rimasto imprigionato nell’arenaria. Nel giugno del 1934, la famiglia Hahn lo ha scoperto in una sporgenza di roccia ,accanto a una cascata, al di fuori di London, in Texas.
Il sito risale a milioni di anni fa, e la datazione cambia essendoci informazioni contrastanti in rete, chi data il reperto vecchio di 75 milioni di anni, chi arriva invece lo colloca a 100 milioni di anni fa. La roccia quindi apparterrebbe al periodo Cretaceo. L’oggetto in origine mostrava solo una parte del manico ma in seguito venne spaccata e rivelò un oggetto comunissimo, un martello dalla testa di ferro.
Tesi creazionistiche di Baugh
Carl E. Baugh e altri creazionisti hanno affermato che il blocco e il martello al suo interno, avrebbe dai 500 ai 300 milioni di anni circa (dal Cambriano al Carbonifero), cosa che tuttavia sarebbe in contrasto con la datazione delle rocce di Red Creek databili al basso Cretaceo (110-115 milioni di anni fa). La datazione basata sull’analisi litografica delle rocce attorno l’oggetto non è certa in quanto si conoscono casi in cui alcuni sedimenti si sono induriti intorno ad un oggetto inglobandolo in poche decadi.
Tra il 1997 e il 1999 furono eseguiti degli esami sul manico di legno con il metodo del carbonio-14, che datavano il reperto “da 0 a 700 anni fa”, ma non si conoscono altre informazioni al riguardo.
I creazionisti sostengono che il martello non sia un falso e presentano ulteriori esami svolti dai Batelle Laboratories di Columbus, Ohio, che avrebbero stabilito che il metallo della “testa del martello” è una lega composta al 96,6% di ferro, al 2,6% di cloro e allo 0,74% di zolfo. Baugh ha affermato che questa lega non sarebbe realizzabile con le tecniche metallurgiche moderne.
Secondo i creazionisti la composizione della lega avrebbe delle caratteristiche peculiari che proteggerebbero il martello dalla corrosione e dall’ossidazione. I sostenitori dell’antichità del reperto affermano che un’abrasione fatta per analizzare il metallo non si sarebbe ossidata come avrebbe dovuto fare un oggetto composto di ferro. Nonostante queste affermazioni la fotografia che dovrebbe avvallare questa affermazione, presentata in un sito web “creazionista”, mostra un oggetto arrugginito sia sull’abrasione che altrove.
Una analisi ai raggi X realizzata dal laboratorio Texas Utilities nel 1992, ha mostrato l’assenza di bolle e di variazioni di densità nella testa, questo fatto, normale per colate realizzate con altiforni moderni, ha spinto Baugh e i creazionisti a ipotizzare a una “metallurgia avanzata” posseduta da ipotetiche popolazioni esistite decine di milioni di anni fa.
Il martello non è un reperto di 75 milioni di anni fa
Gli elementi a disposizione ci dicono che il martello non sia altro che un manufatto moderno. Sia le forma dell’oggetto, sia il fatto che non sono presenti aloni delle particelle metalliche che avrebbero dovuto prodursi nella roccia in 75 o 100 milioni di anni, sia la mancata pietrificazione del manico di legno del martello portano a concludere che il reperto non sia un oggetto fuori dal tempo. Per concludere, la roccia che conterrebbe il metallo essendo metamorfica, cioé sottoposta a enormi pressioni e temperature avrebbe dovuto deformare fortemente il metallo e produrre degli effetti anche sul manico, cosa non riscontrata, in ultimo la forma e le dimensioni del reperto sono simili ai martelli prodotti e diffusi negli Stati Uniti tra il 1800 e il 1900. Tutte queste informazioni il martello è di evidente fattura moderna, un oggetto dimenticato da qualcuno durante l’800 e rimasto inglobato nella roccia nel giro di qualche decennio se non una vera e propria mistificazione.
La Criptozoologia è una pseudo scienza che cerca tracce di organismi, o organismi veri e propri, non riconosciuti dalla scienza ufficiale. Uno di questi ipotetici organismi è il famosissimo mostro di Loch Ness, così chiamato per via dei ripetuti presunti avvistamenti nel Loch Ness, un grande lago scozzese.
Storia degli avvistamenti del Mostro di Loch Ness
Per i criptozoologi l’esistenza del mostro sarebbe nota già dal VI secolo dopo Cristo, quando Colomba di Iona, patrono di Irlanda e Scozia, cacciò il mostro dal fiume Ness. Il mito moderno del mostro di Lock Ness o più semplicemente “Nessie” comincia nel 1933, quando George Spicer raccontò al giornale The Inverness Courier di aver visto, assieme alla moglie, un animale dall’aspetto preistorico che aveva attraversato davanti ai loro increduli occhi una delle strade intorno al lago Ness.
La descrizione del mostro preistorico era molto simile a quella del dinosauro sauropode che appariva nel film “King Kong” uscito proprio nel 1933 e che Spice, come tantissimi, vide.
Come purtroppo spesso accade, la notizia finì in mano alla stampa che, soprattutto quella scandalistica, ricamò sul racconto facendo diventare la creatura un terribile “mostro” che abitava il bacino facendone forse il lago più famoso del mondo, meta di tantissimi curiosi e ricercatori che, con scarsa fortuna, hanno dato la caccia al povero Nessie.
A partire dal 1933 gli avvistamenti si moltiplicano a dismisura e, grazie ai tanti curiosi, vennero scattate anche le prime fotografie. Una delle foto più famose è quella del chirurgo, chiamata così perché l’autore, il medico Robert Kenneth Wilson, non concesse al giornale, il Daily Mail il permesso di pubblicare il nome.
È proprio grazie alla “foto del chirurgo” che il fantomatico mostro è diventato famoso al grande pubblico definendone i tratti caratteristici di animale preistorico, forse un plesiosauro, un rettile acquatico estinto.
La “foto del chirurgo” è però un falso e sicuramente non è l’unica: in realtà si trattava di un sottomarino giocattolo modificato. A ideare la bufala fu il cacciatore, attore e regista, Marmaduke Wetherell, che aveva voluto prendersi una rivincita sul Daily Mail.
Nel 1933 il giornale, cercando di sfruttare la curiosità sul presunto mostro, aveva chiesto a Wetherell di catturare il mostro. Giunto in riva al lago, Wetherell trovò immediatamente delle impronte di un animale enorme e ne fece dei calchi. Gli zoologi del Natural History Museum analizzarono i calchi, ma dopo pochi giorni rivelarono che ogni impronta del presunto mostro era stata lasciata da un’unica zampa di ippopotamo, utilizzata per simulare le impronte del mostro e ovviamente e, giustamente, il Daily Mail si prese gioco dell’incauto cacciatore che però covava vendetta…
Wetherell organizzò la beffa con dei complici: il suo figliastro, Christian Spurling, realizzò la sagoma da montare sul sottomarino, mentre il Colonnello Robert Kenneth Wilson, ginecologo di Londra, fu il famoso “chirurgo” che offrì al tabloid la fumosa storia dell’incontro con la creatura e, soprattutto, la nota fotografia.
Arriviamo al 1975 quando il figlio di Wetherell, Ian, confessò di essere lui l’autore della foto al giornale The Sunday Telegraph, raccontando come il celebre scatto non fosse altro che una beffa.
Nel 1990 David Martin e Alistair Boyd, due appassionati della caccia a Nessie, riscoprirono l’articolo e nel 1993 ritrovarono l’ultimo burlone ancora vivo, Christians Spurling, figliastro di Wetherell, l’autore del modellino. Spurling vuotò il sacco, compresa l’origine delle impronte da cui tutto aveva avuto inizio: la zampa essiccata utilizzata faceva parte di un posacenere in argento, ancora in possesso della famiglia. La storia è raccontata nel libro Nessie: The Surgeon’s Photograph Exposed, Thorne Printing (1999).
Naturalmente la bufala non può provare la non esistenza di Nessie, ci sono molti altri avvistamenti e molte altre foto in giro ma, nonostante la mole di foto e avvistamenti, nessuno ha mai prodotto nulla di concreto che provi una volta per tutte l’esistenza del mostro di Loch Ness.
Inoltre, il lago è torbido e la torbidità limita la fotosintesi e questo non renderebbe certamente possibile l’esistenza di una nutrita famiglia di animali marini di grosse dimensioni.
Loch Ness si è formato circa 10.000 anni fa, quindi non è sufficientemente vecchio da ospitare una famiglia di antichissimi dinosauri che, presumibilmente, si sarebbe dovuta estinguere milioni di anni fa.
Internet è una vera e propria miniera di informazioni di vario e spesso dubbio genere; alcuni siti, in particolare, riportano nuove eclatanti scoperte che incuriosiscono gli appassionati del mistero. Una delle notizie più curiose che mi è capitato di leggere ultimamente riguarda la scoperta, da parte di un ricercatore del Nuovo Messico, tale José Escamilla, di una forma di vita serpentiforme che vola nei nostri cieli a incredibile velocità e per questo difficile da cogliere se non con fotocamere, queste forme di vita vengono chiamate “Rods”.
I Rods, secondo il ricercatore, sono animali di origine sconosciuta che si spostano a grande velocità e per questo sono osservabili solo rallentando i filmati che casualmente li colgono in volo. Appaiono con una forma allungata e sottile con ai lati una sorta di elica che li avvolge per tutta la lunghezza. Per alcuni il movimento dei Rods è indubbiamente di natura intelligente perché avrebbero effettuato delle manovre per evitare di impattare contro ostacoli o esseri umani. Il loro moto è cosi veloce che solo rallentando i filmati è possibile decifrarne la vera forma.
Il primo avvistamento dei Rods risale al 19 marzo 1994 a Midway (Nuovo Messico), quando furono realizzate delle registrazioni video e nel guardarle poi al rallentatore ci si accorse della presenza di strani oggetti volanti dalla forma elicoidale. Da allora prese forma il mito dei Rods che in tanti reputano essere delle forme di vita terrestri mai scoperte prima o addirittura forme di vita aliene provenienti dallo spazio. Queste strane “forme di vita” furono chiamati col nome di un batterio perché la loro forma ricorda quella di un batterio cilindrico osservato al microscopio.
Successivamente la presenza dei Rods è stata riscontrata sia negli USA che in Messico e anche in Europa, dove vengono chiamati col termine ispanico Barros. Anche in Italia si sono fatti dei filmati che poi una volta vagliati attentamente hanno evidenziato la presenza dei Rods. Proprio la massiccia presenza dei Rods a livello mondiale ha fatto si che il fenomeno avesse però una spiegazione di una semplicità disarmante.
Infatti i Rods non sono altro che degli insetti che lasciano la loro traccia su un fotogramma, ecco perché hanno quella forma e sembrano esseri intelligenti, in realtà lo sono, tutti gli esseri viventi hanno un certo grado di intelligenza e reagiscono all’ambiente circostante. I Rods sono quindi solo insetti ripresi casualmente in volo, grazie alla frequenza con cui sbattono le ali lasciano una traccia apparentemente continua nel filmato assumendo una forma allungata che presenta una specie di vite elicoidale attorno. La loro lunghezza è data dalla velocità dell’insetto, più l’insetto è veloce e più il Rod sembra lungo, mentre le escrescenze a forma di elica intervallate da identici spazi sono il battito d’ali che si sussegue durante il tempo di posa dell’apparecchio.
Sono, attualmente, almeno 70 le barriere che gli stati usano per blindarsi, per difendersi dai migranti o dal terrorismo.
Era il 1989 quando il più famoso, quello di Berlino, smise di dividere la capitale tedesca. Sembrava l’alba di un nuovo mondo, aperto e cosmopolita, eppure, da allora il numero delle barriere è salito a 70, mai così tante.
Più o meno dagli anni 2000 sono comparsi circa diecimila chilometri di cemento armato e filo spinato.
I paesi si blindano per contrastare i milioni di esseri umani in movimento a cui sono cambiati termini di convivenza collettiva, a cui è stato diffuso un senso di insicurezza da guerre e globalizzazione.
La politica ha reagito, e reagisce, costruendo e promettendo barriere, reali e psicologiche.
Si innalzano muri per proteggere e per conquistare, barriere di filo spinato, iper-tecnologiche o di sabbia e bidoni, barriere che crollano e altre in piena costruzione. Di carattere razzista, economico, religioso o politico.
Quello che siamo arrivati a definire mondo globalizzato alimenta sempre più tensioni che si materializzano in frontiere liberalizzate da un lato e in un ingente flusso di finanziamenti, energia e tecnologia per rafforzarlo dall’altro.
Paradossalmente, dunque, quello stesso processo di globalizzazione che avrebbe dovuto abbattere barriere, ne sta innalzando di nuove.
Dovremmo chiederci perché proprio in questi ultimi anni si torna a parlare di confini da proteggere e di barriere che creano inevitabilmente una netta divisione tra popolazioni.
In altre parole, da chi o da cosa sentiamo il bisogno di difenderci?
Questo bisogno di protezione è alimentato dall’idea di un dentro sicuro e fuori pericoloso, che fa subire vere e proprie radicalizzazioni a livello governativo e amministrativo.
L’aumento dei flussi migratori, che hanno raggiunto numeri biblici in pochissimi anni, contribuiscono a rendere gli equilibri mondiali sempre più precari.
I dati stimati e pubblicati dall’International Migration Outlook 2016 dell’OCSE, mostra come tra gli anni 2015/2016 si è raggiunto un apice con spostamenti di quasi 5milioni di persone verso i paesi dell’OCSE. Cifre raddoppiate in confronto ad anni precedenti.
A livello mondiale le situazioni di crisi si moltiplicano, ma fin troppo spesso gli stati che si trovano a dare accoglienza sono privi di strumenti e privi di politiche adatte rispetto alle necessità e trovano pochissima solidarietà da parte degli alleati.
Le situazioni che si trovano ad affrontare Italia e Grecia, che sono i principali approdi delle ondate migratorie rivolte verso l’europa, e la chiusura, che fa seguito alla scarsa collaborazione, da parte degli altri stati dell’Europa Unita ne sono una dimostrazione lampante.
Quello che colpisce è che, se da un lato le decisioni politiche richiedono tempi lunghissimi, dall’altro la velocità con cui si ergono muri e barriere è straordinaria, e con essi atteggiamenti xenofobi che inevitabilmente fanno da cornice.
La realtà dei muri odierni è che non sono altro che pura teatralità, una sorta di immagine rassicurante all’interno di un mondo in cui vengono sempre meno contenimento e sicurezza.
Nessun muro risolve in realtà il problema, nessun muro blocca i traffici illegali di persone e quelli di droghe, né tanto meno risolve conflitti. Eppure, spesso, il popolo li chiede a gran voce, nonostante siano costosissimi.
“Diventando sempre più lunghi e più complessi, accomunati da un’unica e più importante caratteristica: quella di essere politici, di fare autorità, di controllare, creare limiti, escludere e vietare”
Così li definisce e affronta il tema lo storico Quetél nel suo saggio “Muri- un’altra storia fatta dagli uomini”.
Secondo Quetél, quello di Berlino è stato solo un albero che ha nascosto la foresta.
L’Europa soprattutto sembra tornare indietro di mezzo secolo con la politica di chiusura che sta adottando ultimamente, trasformandola in una fortezza. Proprio nel tempo in cui si critica aspramente la decisione del nuovo presidente americano Donald Trump di voler dar seguito alla promessa elettorale sul muro al confine con il Messico.
A febbraio, l’Austria, ad esempio, ha di nuovo rimarcato la sua intenzione di voler costruire un confine con l’Italia lungo il Brennero. Per ora l’accordo tra Roma e Vienna per evitare questa misura, tiene, ed i lavori avviati a fine 2015 restano sospesi, ma per quanto?
Il grande muro di Calais, voluto da Londra per impedire ai migranti di passare dalla Francia alla Gran Bretagna, è stato terminato dopo solo tre mesi di lavori e è costato circa 20 milioni di euro.
Anche l’Ungheria non è da meno: oltre al muro di filo spinato al confine con la Serbia, ha eretto una barriera di 41 chilometri ai confini con la Croazia (primo muro tra due paesi già membri dell’Unione Europea) e ha dichiarato che, se il flusso di migranti al confine serbo ungherese dovesse aumentare, Budapest è pronta a costruire una nuova barriera al confine meridionali con la Serbia.
Le recinzioni sono state alzate anche più ad Est, tra Ucraina ed Estonia. Kiev dopo la guerra civile nel 2014 ha srotolato chilometri e chilometri di filo spinato.
Aggiungiamo l’Irlanda del Nord e le così dette “linee della pace”, mura e recinzioni apparse quarant’anni fa a Belfast, ancora oggi dividono le comunità cattoliche da quelle protestanti.
E spostando solo un pochino l’occhio, su questo mappamondo fatto di confini di cemento, troviamo la barriera tra Israele e Palestina, additata dalla comunità internazionale come simbolo di Apartheid.
Turchia – Arabia Saudita. Lo storico alleato degli Stati uniti è uno dei paesi che più di tutti ha lavorato per la difesa dei propri confini; L’Arabia Saudita, ha negli anni fortificato il suo confine meridionale con Yamen e Oman. Ora punta al modello americano lungo il confine con l’Iraq: un muro di 600 chilometri con torri di guardia, barriere di sabbia e guardie di confine che porterà a una mobilitazione di circa 30mila uomini.
E poi ancora, Cipro, con i suoi 180 chilometri di filo spinato da Kokkina, Nord-Ovest dell’isola, fino a Famagosta nella parte Sud-Ovest. Separando i turchi dai greco-ciprioti.
Se lo sguardo cade lungo il 38esimo parallelo ci si trova al confine che risulta il più militarizzato al mondo: Corea del Sud e Corea del Nord, separate dal 1953 da sei diversi muri e lunghi 2.700 chilometri con tanto di fossati e fili spinati, presidiati da migliaia di soldati, campi minati e artiglieria.
La grande muraglia del Marocco, nota con il nome di “Cintura di sicurezza” lungo 2.720 chilometri, disseminato da mine anti uomo.
Un campo minato continuo, intorno a quello che è il muro più grande del mondo dopo la muraglia cinese. E probabilmente in pochissimi ne hanno sentito parlare. Corre tra le dune del deserto, lontano dai riflettori nel Shara Occidentale, dividendo i confini tra Mauritania, Marocco ed Algeria.
Non possiamo escludere da quest’elenco il Muro della vergogna, uno dei più discussi negli ultimi periodi, quello che separa Messico e Stati Uniti d’America che percorre mille dei tremila chilometri che compongono il confine. Secondo alcune stime il numero delle vittime lungo il confine si aggira intorno ai 500 l’anno, tutte nel tentativo di attraversamento della muraglia.
Il mio elenco potrebbe continuare ancora. Con i 700 Km tra Kenia e Somalia, Iran e Pakistan separate dal 2007.
Israele ed Egitto e il muro fortemente voluto da Israele, lungo 230 chilometri.
Barriere in tutto il modo, che portano a pensare che esistano più impedimenti che passaggi liberi, nonostante l’esperienza ci abbia insegnato, invece, che la costruzione di muri ha almeno due principali conseguenze negative.
La prima l’abbiamo vissuta negli ultimi mesi lungo la rotta balcanica, in Grecia e Serbia: al di là dei muri si ammassano persone, spesso in condizioni assolutamente precarie, a volte gettando le basi a vere e proprie emergenze umanitarie, che esplodono nel momento in cui le condizioni peggiorano.
La seconda è la formazione di “zone ombra”, governate da associazioni criminali che esercitano la violenza, che controllano il mercato di alcuni beni o che assicurano il passaggio al confine dietro ingenti pagamenti e spesso con il tacito accordo delle forze di polizia, gestendo veri e propri traffici di esseri umani, dove la vita è spesso in bilico tra la vita e la morte.
In definitiva, costruire ed innalzare barriere non è solo una risposta illusoria, ma genera dinamiche che sfuggono alle autorità statali. Una risposta che sembra tanto potente e muscolare, finisce, il più delle volte, con l’essere tanto stupida.
I muri coagulano razzismo-Xenofobia, barricano le nazioni contro un fuori che è sempre oscuro e pericoloso ma distolgono l’attenzione dalla confusione che spesso nasce proprio lì dove la divisione sorge.
I muri più pericolosi non sono quelli di cemento, bensì quelli eretti dall’ignoranza.
Stonehenge è uno dei più famosi monumenti preistorici del mondo e alcuni ricercatori pensano che questo cerchio di pietre sia stato realizzato un po’ come i mobili componibili dell’IKEA.
Ad esempio, Mike Parker Pearson, professore di preistoria britannica presso l’University College di Londra (UCL), sostiene che alcuni dei famosi lastroni che compongono il monumento siano stati eretti in Galles per essere trasportati nell’attuale location di Salisbury solo 500 anni dopo.
In effetti, un gruppo di archeologi del Regno Unito ha scoperto una serie di pietre molto simili a quelle di Stonehenge sulle colline a nord di Pembrokeshire, a circa 140 miglia da Stonehenge.
Si pensa che le pietre originarie potrebbero essere state prese e trasferite componendo il monumento ma che, originariamente, non erano state realizzate a quello scopo.
Secondo il professor Pearson, “Questa è la prima volta che abbiamo trovato un’evidenza empirica di come venivano spostate le pietre.“
Le grandi pietre erette a Stonehenge sono fatte di Sarsen, una pietra arenaria locale ma per i grandi lastroni la storia è diversa.
Di recente, sono state scoperte cavità tagliate in alcuni affioramenti rocciosi nei pressi delle colline Preseli, nel Pembrokeshire, corrispondenti alle dimensioni delle pietre di Stonehenge, il che ne attribuirebbe la provenienza, se non fosse che l’età stimata per queste cavità è antecedente di almeno 500 anni alla realizzazione del cerchio di pietre di Stonehenge.
Stonehenge attira un milione di visitatori l’anno
I segni delle pietre trovati a Craig Rhos-y-Felin si ritiene risalgano a circa il 3400 a.C. mentre quelli a Carn Goedog risalgono a circa il 3200 a.C. mentre, secondo Parker-Pearson, i grandi sarsens di Stonehenge non sono state eretti fino 2900 a.C.
L’idea che si fa facendo strada è che sia improbabile che ci siano voluti 500 anni per trasportare i monoliti fino all’attuale sistemazione nelle Salisbury Plains e che, piuttosto, le pietre fossero inizialmente parte di monumenti locali del Galles prima che, per qualche ragione, venissero recuperati e trasportati nel Wiltshire.
Come i lastroni siano stati trasportati resta controverso ma nuove prove potrebbero aiutare a far luce sul mistero.
I risultati delle nuove scoperte sono stati pubblicati in un libro dal Council for British Archaeology dal titolo “Stonehenge: Making Sense of a Prehistoric Mystery“.
La grande sorpresa è stata che non sarebbero stati usati rulli per spostare le pietre ma, dalle rampe che sono state individuate, si ritiene che i lastroni siano stati caricati su grandi slitte di legno e trascinati su travi, un po’ come un treno passa sui binari.
I geologi sanno dal 1920 che i lastroni sono stati portati a Stonehenge da qualche luogo delle Preseli Hills
Secondo gli studi effettuati, ciascuno degli 80 monoliti pesava meno di due tonnellate e gruppi non troppo numerosi di persone avrebbero potuto trascinarli senza troppi problemi, magari con l’ausilio di pariglie di buoi, come si usava all’epoca.
Stonehengeè uno dei monumenti preistorici più famosi del mondo ed è una delle destinazioni turistiche più popolari del Regno Unito, attirando oltre un milione di visitatori l’anno.
La natura misteriosa del monumento ha alimentato per secoli leggende, teorie e pseudotradizioni relative ad esso, dallo strumento astronomico al legame con eventuali riti religiosi fino ai riti di guarigione e alle tradizioni musicali druidiche.
Oggi, l’antico sito ospita ogni anno migliaia di seguaci di religione neo pagane che vi celebrano il solstizio d’estate.
Il medico Javier Cabrera Darquea possiede oltre 20.000 pietre di andesite di diverse forme e dimensioni, alcune piccole e piatte e color grigio-ocra, altre pesanti sino a 200 chili, tutte custodite nel suo personale museo. Queste pietre hanno una caratteristica, presentano degli elaboratissimi disegni che raffigurano tecnologie che sono state sviluppate in questi ultimi secoli o decenni pur raffigurando animali estinti milioni di anni fa. Su una di esse si vedono degli indigeni che volano su uno pterodattilo ed osservavano con un cannocchiale uno stegosauro, anche se sappiamo che gli pterodattili sono scomparsi dalla faccia della Terra milioni di anni fa, molto prima della comparsa dell’uomo.
Ci sono anche figure di animali bizzarri, sconosciuti, e rappresentazioni di chirurgia moderna, come un’operazione a cuore aperto. Una pietra descrive la deriva dei continenti che, certamente, era sconosciuta agli uomini del passato. Nelle pietre più grandi c’è tutta la storia e i miti di un popolo vissuto 230 milioni di anni fa, nell’era Mesozoica, addirittura prima dei grandi rettili. Questo popolo, secondo Cabrera, discendeva da una razza extraterrestre che aveva visitato il nostro pianeta 400 milioni di anni fa. Per confermare la storia raccontata nelle misteriose pietre, lo stesso Cabrera ha sottoposto alcuni reperti al geologo americano Ryan Drum, che le ha analizzate con uno microscopio elettronico e non ha trovato nessuna traccia di manipolazione. Joseph Blumrich, un ex-esperto della NASA convinto sostenitore della presenza di visitatori alieni sulla Terra, ha commentato: “Sono rimasto profondamente impressionato da ciò che ho visto. E sono molto felice di avere trovato un’evidenza così diretta di ciò in cui credo. Non ho alcun di dubbio sull’autenticità di queste pietre”. “In molte di queste pietre – ribadisce Steiger – si vedono i progenitori dell’homo sapiens, esseri prima anfibi, poi rettili ed infine mammiferi, comunque anteriore alle scimmie.
Cabrera è convinto che gli esseri raffigurati nelle pietre siano stati manipolati geneticamente da una razza proveniente dalle Plejadi, che aveva un avamposto su Venere. Questi esseri vennero poi annientati da un cataclisma restando sepolti assieme alle loro pietre. Cabrera ha raccolto quasi 20.000 pietre riuscendo ad aprire un museo, ma sostiene che ne esistano almeno 50.000 che potrebbero essere studiate da una commissione scientifica.
Questa storia è stata studiata sia dallo Skeptical Dictionari che dalla BBC in due documentari, nel 1977 e nel 1996. In queste inchieste si appurò che si tratta di falsi, realizzati da artigiani del posto per venderli ai turisti e a tutti i creduloni interessati a possedere le mitiche pietre che presto divennero famose. Osservando le pietre si capisce che i disegni incisi non sembrano antichi perché, se fossero veramente vecchi di millenni, non sarebbero cosi netti e definiti come appaiono ma, dopo tanto tempo, certamente presenterebbero dei segni di erosione, le pietre non possono essere analizzate attraverso il radiocarbonio e al massimo si potrebbe risalire a una qualche datazione vedendo gli scavi di provenienza delle stesse.
Il ricercatore spagnolo Vicente Paris, di Fraudesparanormales.com, scoprì, con un esame approfondito, che le incisioni contenevano tracce di moderna carta vetrata, quindi le incisioni non potevano avere i milioni di anni indicati da Cabrera nelle sue storie. Un’altra curiosità riguarda il fatto che, in Perù, la vendita di reperti archeologici è vietata e punita severamente mentre Cabrera invece riesce ad acquistare questi manufatti. Come fa?
Forse perché Basilio Uschuya, il principale fornitore di Cabrera, fu arrestato nel 1996 per il traffico delle pietre ma, quando confessò che le pietre se le fabbricava da solo prendendo spunto dai fumetti, dai libri di scuola e dalle riviste, essendo quindi le pietre false, non c’era nessuna vendita di reperti archeologici e quindi fu rilasciato. Le pietre, spiegò, venivano “lavorate” e ricoperte da una patina ottenuta lasciandole per qualche giorno nel pollaio a ricevere gli escrementi delle galline in modo da sembrare vecchie e incrostate…
Javier Cabrera, nonostante fosse un medico, ci cascò con tutte le scarpe. Tutti iniziò quando negli anni Sessanta ricevette in regalo una pietra sulla quale era inciso un pesce, che secondo lui, apparteneva a una specie scomparsa. Incuriosito Cabrera andò alla ricerca di altre pietre simili e gli abitanti del posto furono felici di “fornirgliele” dietro compenso. Ma come è possibile che in un lontano passato sia esistita una civiltà cosi evoluta, in grado di domare i dinosauri, creare macchine volanti e telescopi e di sviluppare una scienza medica in grado di eseguire operazioni al cuore e trovare solo il suo ricordo rozzamente inciso su delle pietre di ardesite? Com’è possibile che una civiltà tanto distante da noi nel tempo “inventasse” gli stessi oggetti che sono in uso nella nostra epoca? Cabrera non si pose certamente queste domande quando acquistò le misteriose pietre.
Ci sono ancora persone che sostengono che l’ardesite è troppo dura per essere incisa o lavorata con semplici strumenti ma il documentario della BBC dimostrò che le incisioni potevano essere eseguite rimuovendo la patina di ossidazione superficiale con un semplice trapano da dentista. La qualità e lo stile delle incisioni sembrano evolvere col tempo dei ritrovamenti, infatti, i dinosauri del 1966 sono intagliati in modo più approssimativo e rozzo di quelli recenti, e lo stesso vale per le incisioni, che migliorano col tempo dei ritrovamenti. Entrambi questi fatti sono palesemente incompatibili col ritrovamento casuale di pezzi appartenenti ad un unico periodo storico, quindi le “mitiche” pietre sono fasulle al di la di ogni ragionevole dubbio.
Il nome Starchild, o “bambino delle stelle” è il nome dato a un cranio ritrovato nel 1930 da una giovane messicana in una miniera abbandonata 160 Km a sud ovest dalla città di Chihuahua. Testimonianze successive riportarono che il teschio venne ritrovato vicino a uno scheletro umano appartenuto a una donna amerinda morta, secondo le analisi effettuate, ad un’età compresa tra i 20 e i 30 anni. Il nome Starchild venne coniato dallo scrittore Lloyd Pye che affermava che il reperto era la prova migliore dell’esistenza degli alieni e che almeno uno di loro sia vissuto e morto sulla Terra circa 900 anni fa. Pye sosteneva che solo poche sequenze di Dna siano state ritrovate ma già queste basterebbero a classificare l’essere come “alieno”, non avendo nulla di paragonabile con le sequenze genetiche terrestri. Lo scrittore afferma che le caratteristiche peculiari del cranio non sono dovute a difetti genetici noti ma sarebbero dovete invece all’incrocio di caratteristiche umane e aliene, il “bambino delle stelle” sarebbe un ibrido.
Lo scrittore venne a sapere del teschio da una coppia di sposi Ray e Melanie Young, di El Paso (Texas) che glielo avrebbero poi affidato nel febbraio del 1999. Sempre in quell’anno gli Young fondarono un’associazione senza scopo di lucro denominata The Starchild Project.
Le caratteristiche particolari del teschio sono ancora al centro di speculazioni e lo stesso Pye fa notare quante somiglianze ci siano tra il teschio dello starchild e gli alieni grigi spesso al centro di misteriosi rapimenti umani raccontati in diverse casistiche ufologiche..
Le analisi eseguite
Nel 2000 il cranio fu sottoposto alla datazione con il carbonio-14, che ne stabili un’età di circa 900 anni. Fu analizzato con i raggi X, al microscopio atomico e TAC. Le analisi chimiche effettuate non fecero altro che confermare la natura umana del reperto essendo esso composto da idrossipatite di calcio, come le ossa umane. Le analisi effettuate sulla mascella destra superiore, confermarono che il cranio fosse appartenuto a un bambino di età compresa tra i 4 e i 5 anni. Il volume cerebrale ammontava a 1600 cm³, cioè 200 cm³ in più rispetto alla media di un uomo adulto.
il teschio presenta diverse anomalie morfologiche rispetto ad un normale essere umano:
1.l’area parietale sporge da entrambi i lati delle orbite senza traccia di tempie normali;
2.le cavità oculari sono poco profonde rispetto alla norma;
3.le orbite sono ovali e completamente cave;
4.i canali del nervo ottico sono deviati in basso ed in dentro in modo da rendere molto inverosimile la mobilità del normale bulbo oculare;
5.l’attaccatura del collo è in posizione anomala;
6.i seni paranasali frontali sono assenti e la superficie è regolare dalle arcate sopraccigliari fino all’inizio del setto nasale.
Queste caratteristiche ci dicono che il bambino era affetto da defomazioni congenite del cranio, cioè era idrocefalo. La dottoressa Adelina Chow ha concluso che “Starchild” “soffriva di vari difetti umani congeniti” che avevano causato una pronunciata brachicefalia e un’anomalia della sutura frontale.
Steven Novella, della Yale University Medical School, conclude che il cranio presenta tutte le caratteristiche di un bambino che è morto a causa di idrocefalo congenito , e che le deformazioni del cranio erano dovute all’accumulo di liquido cerebrospinale nel cranio.
Anche il test del DNA nel 1999 della BOLD ( Bureau of Legal Odontoiatria ), laboratorio sullo studio del DNA a Vancouver, identificò i normali cromosomi standard X e Y nei due campioni prelevati dal cranio, questa sarebbe la prova incontrovertibile che il bambino era maschio e aveva entrambi i genitori umani. Errori di interpretazione o malafede che sia, si può ipotizzare che lo studio effettuato sul DNA nel 2003 dal Trace Genetics sia stato frainteso, questo studio viene menzionato spesso per dimostrare la natura “ibrida” del teschio. Lo studio in questione era utile solo perché poteva trovare parte della mappatura genetica da confrontare con lo scheletro trovato accanto al teschio per provare che questo fosse la madre dello starchild. Forse qualcuno è stato tratto in inganno dagli studi effettuati per ritrovare il DNA mitocondriale che può essere ereditato solo dalla madre.
Contro ogni previsione, un grampo, o delfino di Risso, albino è stato nuovamente avvistato. L’ultimo avvistamento di questo raro esemplare risaliva al 2015 quando era ancora cucciolo.
Questo rarissimo delfino bianco è stato avvistato nelle acque al largo della baia di Monterey, in California, la scorsa settimana, da Kate Cummings dell’organizzazione Blue Ocean Whale Watch. Una serie di contatti con i ricercatori del Marine Life Studies , che attualmente studiano le dinamiche della popolazione dei delfini di Risso, hanno confermato che si trattava dello stesso cucciolo albino con la madre documentato nel settembre di due anni fa. La coppia è stata ora catalogata per poterne tracciare gli spostamenti futuri.
Tutti gli animali di questa razza privi di pigmento hanno una vita particolarmente difficile in quanto risultano più visibili ai predatori, senza contare che il loro albinismo (o leucismo) è spesso legato a problemi di salute come disturbi della vista e della capacità di ecolocalizzazione e sono estremamente suscettibili alla luce solare. Il fatto che questo esemplare sia sopravvissuto per due anni, sia pure in compagnia della madre, riveste quiindi un carattere di eccezionalità.
“Se l’animale ha problemi con il sistema immunitario o il sistema di ecolocalizzazione compromessi è costretto ad affidarsi agli altri esemplari del branco per trovare le rpede con cui alimentarsi” Sostiene Josh McInnes, coordinatore dei ricercatori del Marine Life Studies “Non sappiamo molto circa i modelli di alimentazione del grampo. Sappiamo solo che adorano i calamari e che gruppi di questi animali sono molto collaborativi per l’alimentazione.”
Il piccolo delfino appare giallastro a causa di diatomee, alghe unicellulari cresciute sulla sua pelle. E ‘anche oggetto di discussione se si tratta di un vero e proprio albino o sia, piuttosto, “leucistic”, una condizione in cui c’è solo una perdita parziale della pigmentazione. Tuttavia, la prima immagine del delfino sembra mostrare che ha occhi rosa, indicando che questo potrebbe essere un vero animale albino.
I delfini Grampo ( Grampus griseus ) sono notoriamente timidi e possono essere incontrati nelle acque temperate e tropicali di tutto il mondo. Tipicamente cacciano di notte le creature come i calamari che risiedono nella zona scura delle profondità marine, oltre i 200 metri di profondità. Se si ha la fortuna di incontrarli, li si può facilmente riconoscere da altri delfini per la loro tipica testa bulbosa.
Il fenomeno degli Orbs è relativamente nuovo e viene rilevato quando, durante una posa fotografica, si utilizza il flash. Questi Orbs si presentano con una forma apparentemente sferica di dimensioni varie, con una corona luminosa e un nucleo più tenue che rimangono impressi sulle fotografie scattate con macchine fotografiche tradizionali o digitali. Alcuni “esperti” si sono spinti a paragonare questi globi alle sfere visibili nelle vicinanze dei cerchi nel grano. Apparentemente gli Orbs possono essere percepiti e, secondo alcune ricerche, esisterebbero foto di persone che guardano nella loro direzione al momento dello scatto. Gli Orbs risulterebbero in numero più elevato in presenza di più persone.
Sulla natura degli Orbs sono state fatte diverse ipotesi
– Sfere di plasma causate dai flash
– Particelle catturate dall’atmosfera terrestre al passaggio attraverso la coda di una cometa
– Entità extradimensionali
– eventi causati da attività tellurica
– Creature aliene
– Sonde extraterrestri
-Sonde inviate dal futuro.
Ci sono anche altre ipotesi sulla natura degli Orbs che potrebbero essere macchie di polvere poste sull’obiettivo, difetti della macchina fotografica o, se in presenza di apparati tradizionali, difetti della pellicola.
Ma cosa sono gli Orbs in realtà? E’ possibile sgombrare il campo dalle tante ipotesi e chiarire la natura del fenomeno?
Gli ORBS, secondo gli esperti, non sono altro che delle particelle di polvere miste ad acqua che vengono colpiti dal flash nelle vicinanze degli obiettivo apparendo nelle foto come degli oggetti sferici luminosi. Se vi è capitato, anche se il processo è diverso, provate a guardare una piccola stella con un binocolo e mettete l’immagine fuori fuoco, vedrete il piccolo puntino luminoso diventare una tenue sferetta, per gli Orbs è lo stesso, appaiono come sfere perché sono fuori fuoco.
Le foto degli “orb” hanno in comune alcune caratteristiche:
– essere scattate al buio
– essere scattate usando il flash
– essere scattate in presenza di polvere o particelle liquide in sospensione
La luce emessa dal flash colpisce le eventuali particelle contenute nell’aria (pulviscolo, pollini, pioggia) che, essendo microscopiche, possono essere considerate di forma sferica. La luce emessa dalla lampada del flash colpisce la superficie delle particelle dalla parte dell’apparecchio fotografico, riflettendone gran parte e allargandone l’area secondo un cono in cui ogni raggio ha un angolo di riflessione pari al doppio dell’angolo tra il raggio incidente e la normale alla superficie della particella.
Poiché si tratta, generalmente, di scatti abbastanza scuri, l’intenso riflesso generato dalle particelle colpite dal flash risalta sulle aree buie delle fotografie, comparendo nel fotogramma come un oggetto luminoso fluttuante.
Gli “orbs” hanno bordi frastagliati, perché la superficie presenta delle piccole irregolarità e, se filmati, appaiono in movimento per i naturali spostamenti dell’aria o a causa del calore emesso dalla sorgente luminosa puntata nella loro direzione.
Ottenere foto con orbs non è complicato, è sufficiente scattare fotografie con il flash all’aperto, quando inizia a piovere e cadono piccole gocce, fini e leggere. Oppure, in assenza di pioggia, basta spruzzare un po’ d’acqua davanti alla macchina fotografica.
Lontano dal suo famoso mare cristallino, l’interno della Sardegna è un labirinto di massicci impenetrabili e voragini scoscese che ospitano alcune delle tradizioni più antiche d’Europa.
I residenti parlano ancora il Sardo, la lingua vivente più vicina al latino. Le nonne guardano con diffidenza gli stranieri da sotto veli ricamati e in un modesto appartamento di Nuoro, una donna di 62 anni di nome Paola Abraini si sveglia ogni giorno alle 7 del mattino per cominciare a fare i su filindeu,la pasta più rara del mondo.
In realtà, ci sono solo altre donne che sanno ancora come farla: la nipote della Abraini e sua sorella, entrambe residenti in questa città aggrappata alle pendici del Monte Ortobene.
Nessuno può ricordare come e perché le donne di Nuoro hanno cominciato a preparare i su filindeu (nome il cui significato è “i fili di Dio”), ma per più di 300 anni, la ricetta e la tecnica sono state tramandate esclusivamente dalle donne della famiglia di Paola Abraini, che le hanno custodite gelosamente prima di insegnarle alle loro figlie.
L’anno scorso, un team di tecnici della pasta Barilla è venuto a vedere se potevano riprodurre la sua tecnica con una macchina. Non ci sono riusciti. Dopo aver sentito voci su questa pasta sarda segreta, Carlo Petrini, presidente di Slow Food Internazional, è andato a trovare Paola e, la scorsa estate, il celebre chef britannico Jamie Oliver le ha chiesto di insegnargli come preparare questo piatto. Alla fine, dopo oltre due ore di tentativi, il suo commento è stato: “Preparo pasta da 20 anni e non ho mai visto nulla di simile.”
Paola Abraini, 62 anni, si sveglia alle 7 del mattino ogni giorno per preparare la pasta (Credit: Eliot Stein)
I su filindeu si preparano tirando e ripiegando pasta di semola in 256 fili con la punta delle dita, allungando i fili in guisa di un ago sottile in un intricato modello a tre strati. La sua preparazione è così difficile e richiede tanto tempo che, negli ultimi 200 anni, questo piatto è stata servito solo ai fedeli che completavano un pellegrinaggio di 33 km, a piedi o a cavallo, da Nuoro al villaggio di Lula per la festa biennale di San Francesco.
Con cinque ore al giorno di lavoro per un mese, Paola riesce a fare circa 50 kg di pasta.
“Ci sono solo tre ingredienti: semola di grano duro, acqua e sale”, dice Paola Abraini, “la pasta va impastata vigorosamente avanti e indietro, insomma, l’ingrediente principale è l’olio di gomito”.
Il piatto è così difficile da fare che da 200 anni è stato servito solo ai pellegrini (Credit: Eliot Stein)
Paola Abraini spiega che la pasta si lavora fino a raggiungere una consistenza che ricorda plastilina, quindi si divide l’impasto in sezioni più piccole e si continua a lavorarlo in una forma cilindrica arrotolata.
Poi viene la parte più difficile, un processo che lei chiama, “capire l’impasto con le mani.” Quando si sente che ha bisogno di essere più elastica, si intingono le dita in una ciotola di acqua salata. Quando si ha bisogno di più umidità, le immerge in una ciotola a parte di acqua. “Ci possono volere anni per acquisire la necessaria sensibilità. E ‘come un gioco con le mani, una volta raggiunta la sensibilità giusta avviene la magia.”
Quando la semola ha raggiunto la giusta consistenza il filo cilindrico viene raccolto e si comincia a piegare e allungare, raddoppiando ogni volta i capi dei su filindeu premendoli nel palmo della mano. Questa sequenza di movimenti viene ripetuta otto volte e, ad ogni giro, la pasta diventa più sottile ed i fili raddoppiano di numero, fino a diventare 256 fili all’ottavo giro, arrivando a sembrare simili ai capelli d’angelo. A questo punto, si depongono i fili su una base circolare uno sopra l’altro a formare una croce, per poi tagliare le estremità troppo grosse con le dita prima di ripetere nuovamente il processo più e più volte.
Quando si arriva a tre strati sovrapposti, si pone la pasta ad asciugare al sole della Sardegna. Dopo diverse ore, gli strati si induriscono fino a somigliare a fogli delicati sottili come il filo di un rasoio. A questo punto si rompono i fogli circolari in strisce grezze e si confezionano le scatole, pronte per la festa di San Francesco. In questa occasione la pasta su filindeu viene preparata in brodo di pecora e pecorino grattugiato per essere servita ai pellegrini.
“Nessuno sa veramente come questa antica tradizione sia iniziata, ma è il cuore della festa, se non c’è il su filindeu, non c’è festa di San Francesco”.
Ma dopo più di 300 anni nello stesso albero genealogico matrilineare, questi “Fili di Dio” potrebbero essere alla fine. Le generazioni future potrebbero non vedere più questo tipo di pasta. Solo una delle figlie degli Abraini conosce la tecnica di base ma manca della passione e della pazienza delle sua antenate.
“Questo è uno degli alimenti più a rischio di estinzione, in gran parte perché è una delle paste più difficili da produrre”, sostiene Raffaella Ponzio, coordinatore capo dell’Arca del Gusto, un’iniziativa che mira a classificare e conservare le tradizioni culinarie più minacciate al mondo. Di 3.844 elementi elencati nel progetto, nessu di Slow Food Internazional. Nessun altro tipo pasta dipende da così pochi produttori come il su filindeu e questo la rende la pasta più rara e a maggior rischio di scomparsa al mondo.
Il su filindeu non è solo una forma d’arte culinaria, ma anche un pezzo di identità culturale.
Consapevole di questo, Paola Abraini si è rassegnata a tentare di insegnare alle ragazze di altre famiglie di Nuoro come preparare la pasta ma le cose non vanno bene, le autorità hanno rifiutato finanziamenti per una piccola scuola e questo ha costretto Paola a invitare in casa sua le aspiranti allieve, molte delle quali, però, una volta vista la tecnica, la pazienza e la fatica necessaria finiscono per rinunciare.
Eppure, Paola rifiuta di lasciare svanire la tradizione e sta tentando di trovare allieve disposte ad imparare in tutto il mondo. Il Gambero Rosso l’ha invitata a Roma due volte per poter filmare l’intero processo di preparazione del piatto.
Recentemente, poi, Paola ha cominciato a fare i su filindeu per tre ristoranti della zona affinché possano essere assaggiati anche da chi non ha effettuato il pellegrinaggio.
In uno di questi ristoranti, Al Ciusa, i su filindeu preparati con pasta tinta al nero di seppia ha vinto il premio Porcino d’Oro della Sardegna per il miglior piatto nel 2010.
Nel 2010, il nero di seppia su filindeu ha vinto il premio Porcino d’Oro della Sardegna per il miglior piatto (Credit: Eliot Stein)
In un altro,Il Refugio, è la voce più popolare sul menu.
Dove provare i Su Filindeu:
Se sarete in Sardegna tra l’1 ed il 9 maggio o a ottobre tra l’1 ed il 4, basterà seguire la lunga fila di pellegrini alla chiesa di San Francesco fuori Lula. In caso contrario, si può provare in questi tre ristoranti:
Agriturismo Testone, dove è possibile provare i su filindeu, la pasta di Paola Abraini, servita con il tradizionale brodo di pecora condita con il pecorino sardo.