Le allarmanti notizie che provengono dalla Cina sull’epidemia del nuovo coronavirus che dai pipistrelli, passando per i serpenti, ha fatto il salto di specie, stanno preoccupando l’opinione pubblica internazionale per una possibile, pericolosa e letale pandemia.
Ci sono però malattie che ancora oggi mietono un pesante tributo di vittime umane e di cui forse in occidente abbiamo una percezione molto limitata.
La malaria è probabilmente la malattia che ha causato il maggior numero di morti nella storia dell’umanità. Ancora oggi, secondo stime al ribasso, ci sono da 300 ai 500 milioni di nuovi casi di malaria l’anno, con almeno 2 milioni di decessi concentrati soprattutto in Africa.
La parola malaria significa letteralmente “aria cattiva” per la convinzione largamente diffusa in Italia per molti secoli che questa terribile malattia fosse provocata da nebbie tossiche e miasmi provenienti da aree paludose e stagnanti. Ci sono quattro specie diverse del parassita responsabile della malaria (genere Plasmodium): il P. Vivax, il P. Falciparum, il P. Malarie e il P. Ovale.
Tutti causano i sintomi classici della malaria febbre alta, brividi e feroci mal di testa. Il più letale di questi parassiti è il P. Falciparum che spesso conduce alla morte. Come è noto la malaria si trasmette agli esseri umani attraverso la puntura della zanzara anofele. Noi oggi consideriamo la malaria una malattia tropicale o sub tropicale ma fino a poche decine di anni fa questo flagello era diffuso in larga parte del mondo arrivando ad infestare persino zone della Scandinavia.
In tutti i luoghi dove la zanzara anofele prosperava, lì i focolai di malaria erano periodici e talvolta devastanti. Molte sono state le vittime illustri nel corso della storia di questa malattia che colpiva indiscriminatamente ricchi e poveri. Solo per citarne due, il grande condottiero macedone Alessandro Magno è morto probabilmente in seguito ad un attacco di malaria così come, molti secoli dopo, l’esploratore inglese David Livingstone.
La malaria è stata un grave problema a livello mondiale fino al XX secolo inoltrato. Ancora nel 1914 nei soli Stati Uniti si registrarono 500.000 casi di malaria e nel 1945 due miliardi di esseri umani vivevano in zone malariche.
Va da sé che l’uomo ha sempre cercato rimedi contro questo flagello e la prima molecola veramente efficace per contrastare gli effetti della malattia fu la chinina, uno dei trenta alcaloidi presenti nella corteccia dell’albero della china.
Sull’origine della scoperta di questa preziosa molecola ci sono varie leggende, una delle più accreditate riguarda la seconda moglie del viceré del Perù Luis Jerónimo de Cabrera, Francisca Henríquez de Ribera che, ammalatasi di malaria fu curata con delle bacche di chinina guarendo. Al di la della veridicità di questa ricostruzione su cui gli storici avanzano oggi seri dubbi, le proprietà della corteccia dell’albero di “cinchona” sono indiscutibili. La fama che la corteccia di china era in grado di guarire dalla malaria si diffuse rapidamente in Europa.
Intorno al 1630 il gesuita Bernabé Cobo (1582-1657), che esplorò Messico e Perù, introdusse il chinino in Europa. Portò le bacche da Lima in Spagna, e poi a Roma ed in altre parti d’Italia nel 1632. Il conclave del 1655 fu il primo in cui, grazie all’assunzione di quella che veniva chiamata anche “la polvere dei gesuiti” non morì nessun cardinale per malaria.
Il chinino venne estratto dalla corteccia dell’albero della china e fu isolato e così chiamato nel 1817 dai ricercatori francesi Pierre Joseph Pelletier e Joseph Bienaimé Caventou. Il nome deriva dalla parola originale quechua (Inca) usata per la corteccia dell’albero cinchona, “Quina” o “Quina-Quina”.
La domanda di chinino aumentò in tutto il mondo anche in relazione al processo di colonizzazione in atto. Soprattutto gli inglesi ne divennero grandi consumatori utilizzando il chinino anche come terapia preventiva prima di inviare funzionari o soldati nello sterminato impero coloniale britannico. Anche stavolta come già accaduto in passato per altre molecole, furono trafugati i semi dell’albero di cinchona per non dipendere dalle importazioni sud americane. Stavolta a riuscire nell’impresa furono gli olandesi che trapiantarono questa pianta a Giava che nel 1930 divenne il centro esportatore del 95% della chinina.
A debellare la malaria soprattutto nella parte occidentale del mondo fu però l’uso massiccio di un’altra molecola, Il para-diclorodifeniltricloroetano o DDT.
Fu il primo insetticida moderno ed è senz’altro il più conosciuto; venne usato dal 1939, soprattutto per debellare la malaria. In Italia si ricorda, in particolare, il suo uso a questo scopo in Sardegna, dove la malattia era endemica e ne consentì l’eradicazione. La sua scoperta come insetticida va attribuita al chimico svizzero Paul Hermann Müller, alla ricerca di un prodotto efficace contro i pidocchi, ma la sua nascita risale al chimico austriaco Othmar Zeidler, che lo sintetizzò nel 1873.
Fu scelto come prodotto per combattere la zanzara anofele, responsabile della diffusione della malaria, in quanto si credeva che, sebbene altamente tossico per gli insetti, fosse innocuo per l’uomo. Successivamente il DDT fu indicato come possibile cancerogeno e bandito nel 1972 negli Stati Uniti e nel 1978 anche in Italia.
Dobbiamo però a quest’insetticida se Europa e Stati Uniti hanno debellato questa terribile malattia che continua a prosperare in altre parti del pianeta.
Fa più morti la malaria che…
I posti più sicuri dove sopravvivere ad una pandemia in grado di sterminare l’umanità
Quale sarebbe la migliore strategia di sopravvivenza se accadesse il peggio?
Se, ad esempio, un’improvvisa pandemia globale o qualche altro tipo di crisi minacciasse di provocare l’estinzione dell’umanità?
La triste verità è che, se ci si trovasse a ridosso di un focolaio apocalittico, potrebbe non esserci via di fuga, ma trovandosi nel posto giusto al momento giusto, come un’isola naturalmente isolata dalla diffusione del contagio, si potrebbe riuscire a sopravvivere per poi procedere al ripopolamento della Terra.
Con queste allegre prospettive in mente, un gruppo di ricercatori hanno identificato e persino classificato quelli che sostengono essere potenzialmente i migliori rifugi insulari durante una simile crisi: luoghi che potrebbero meglio garantire la sopravvivenza umana a lungo termine di fronte a catastrofiche pandemie e altre potenziali minacce all’esistenza dell’umanità.
Può sembrare qualcosa tratto da un film di fantascienza distopico, ma il team avverte che il pericolo, sebbene non imminente, è del tutto plausibile.
“Le scoperte nella biotecnologia potrebbero permettere di creare con l’ingegneria genetica una pandemia capace di minacciare la sopravvivenza della nostra specie“, afferma l’epidemiologo Nick Wilson dell’Università di Otago in Nuova Zelanda. “Sebbene i portatori di malattie possano facilmente aggirare i confini terrestri, un’isola autosufficiente e posta in quarantena potrebbe ospitare una popolazione isolata, tecnologicamente esperta che potrebbe ripopolare la Terra in seguito a un disastro“.
Per identificare i rifugi più efficaci per questo tipo di crisi, i ricercatori non hanno preso in considerazione le isole piccole che potrebbero non avere abbastanza risorse da garantire la sopravvivenza a lungo termine se isolate dal resto del mondo. Gruppi isolati di persone potrebbero benissimo sopravvivere senza assistenza, però piccole popolazioni senza una vasta gamma di tecnici esperti difficilmente sarebbero in grado di ricostruire e ricreare efficacemente una moderna civiltà tecnologica, affermano i ricercatori.
Per questo motivo, il team ha preso in considerazione solo stati sovrani indipendenti riconosciuti dalle Nazioni Unite, senza confini terrestri condivisi con altri stati (e non collegati ad altre nazioni da un ponte), e con popolazioni di oltre 250.000 persone.
Oltre a ciò, i ricercatori hanno anche tenuto conto di altre caratteristiche che renderebbero un rifugio insulare efficace in uno scenario da giorno del giudizio: caratteristiche della popolazione, posizione fisica del rifugio, disponibilità di risorse naturali e caratteristiche politiche e sociali.
Dopo avere selezionato le nazioni mediante questi attributi, hanno redatto un elenco di 20 nazioni-isole dove le possibilità di sopravvivenza sono migliori, conservando al contempo un’adeguata tecnologia. Tra queste, tre in particolare si sono distinte in base ai loro punteggi.
“Le nazioni insulari dell’Australia (0,71) seguite dalla Nuova Zelanda (0,68) e dall’Islanda (0,64), sembrano avere le caratteristiche necessarie per agire come un rifugio efficace di fronte a una catastrofica pandemia globale, luoghi da cui, successivamente, la società tecnologica potrebbe essere ricostruita con successo su larga scala”, scrivono gli autori nel loro articolo.
A parte questi tre, tutti gli altri ipotetici rifugi insulari tra i primi 20 hanno segnato un punteggio inferiore a 0,50, classificando Giappone, Barbados, Cuba, Figi e Giamaica e molti altri luoghi in definitiva meno adatti a garantire la sopravvivenza dell’umanità.
“In qualche modo non sorprende che ad ottenere i punteggi più alti siano state le nazioni ad alto PIL, autosufficienti nella produzione di cibo e/o energia, e in qualche modo remote“, spiegano i ricercatori .
Alcuni paesi potrebbero essere in grado di migliorare le loro classifiche aumentando la loro produzione di cibo ed energia a livello locale, afferma il team, mentre altre nazioni insulari potrebbero non poter migliorare a causa della loro instabilità politica o l’esposizione a cose come i rischi ambientali naturali, ulteriori fattori di incertezza quando da esse potrebbe dipendere la ricostruzione della civiltà umana.
“Ciò richiederà mobilità post-catastrofe, ampie risorse e una vasta popolazione in grado di diffondersi di nuovo in tutto il mondo“, scrivono gli autori. “Molte delle nazioni insulari esaminate mancano di risorse indipendenti, comprese le forniture energetiche, e non dispongono di un capitale sociale e di una stabilità politica adeguate a rendere probabile una efficace cooperazione post-catastrofe“.
I ricercatori riconoscono che la loro metodologia potrebbe avere delle carenze che possono essere affinate con ulteriori analisi e affermano che anche le ramificazioni dei futuri cambiamenti climatici devono essere esaminate più approfonditamente.
Speriamo che non avremo mai bisogno di fare affidamento su una classifica cupa come questa, ma ciò non significa che non sia estremamente importante valutare le nostre opzioni.
“È come una polizza assicurativa“, afferma Wilson. “Speri di non aver mai bisogno di usarla, ma se si verifica un disastro, la strategia deve essere stata messa in atto tempestivamente“.
Con questo in mente, ora conosciamo i posti migliori dove rifugiarsi per sopravvivere ad una apocalisse virale, batterica o forse fungina.
Precedenti ricerche dello stesso team hanno concluso che “le chiusure di frontiera complete da parte delle nazioni insulari di fronte a situazioni di pandemia estrema sarebbero probabili e giustificate“.
I risultati dello studio sono stati pubblicati su Risk Analysis.
Come si è formata la grande divisione nel sistema solare?
Poco dopo la sua nascita, il Sistema Solare, secondo gli astronomi, ha attraversato una fase chiamata “Great divide” una vera è propria separazione dei pianeti in due gruppi distinti che grazie a un nuovo studio potrà forse essere spiegato.
Il “Great divide” ha diviso il sistema solare in due ambienti distinti, i pianeti rocciosi, di tipo terrestre più vicini al Sole, i giganti gassosi o di tipo Gioviano nelle profondità del sistema solare.
I due gruppi di pianeti sono differenti per dimensioni e composizione. Quelli interni o di tipo terrestre sono rocciosi e poveri di composti organici del carbonio, i giganti gioviani sono costituiti quasi del tutto da gas e ricchi di composti organici.
Come nasce questa dicotomia? Cosa garantisce che il materiale dell’interno del sistema solare non sia mai entrato in contatto con il materiale più esterno durante questi quasi 5 miliardi di anni?
Queste sono domande che meritano una risposta, come afferma il planetologo Ramon Brasser del Tokyo Institute of Technology in Giappone.
Gli scienziati hanno sempre attribuito la responsabilità di questa divisione al gigante del sistema solare, Giove, che grazie alla sua immensa forza gravitazionale ha creato una barriera tra i pianeti interni e quelli esterni.
Ma Brasser e colleghi pensano non sia andata cosi, i loro calcoli rivelano una struttura a forma di anello attorno al Sole, in anticipo, che crea una vera e propria barriera fisica tra le due tipologie di materiali che costituiscono i pianeti.
Secondo lo scienziato Stephen Mojzsis, dell’Università del Colorado, la differenza della composizione esiste perché intrinseca del disco di gas e polveri primordiali.
Grazie a simulazioni computerizzate gli scienziati hanno capito che Giove non sarebbe stato abbastanza massiccio per creare la divisione durante le fasi iniziali del processo di formazione del sistema solare.
Qual è la spiegazione allora?
Gli astronomi hanno scandagliato i dati provenienti dall’Atacama Large Millimeter / submillimeter Array (ALMA) in Cile, che mostrano dischi di gas e polvere attorno a giovani stelle. Se un tale anello si fosse originariamente formato attorno alla nostra stella, avrebbe potuto separare gas e polvere in sacche separate di alta e bassa pressione.
I ricercatori lo descrivono come un “urto di pressione” in grado di ordinare il materiale in due luoghi distinti nei primi giorni del sistema solare. In effetti, potrebbero esserci stati diversi anelli responsabili della creazione della divisione nei tipi di pianeta.
Il modo in cui i materiali sono stati ordinati nei primi attimi di esistenza del Sistema Solare è anche un dato importante per comprendere l’emergere della vita sul nostro pianeta.
A differenza dei pianeti terrestri extrasolari, quelli del nostro sistema invertono la tendenza contenendo materiali organici, suggerendo che quei dischi divisori non sarebbero necessariamente stati completamente non attraversabili – e materiali ricchi di carbonio potrebbero essersi dispersi per avviare la vita sulla Terra.
Questo è un altro esempio di come lo studio dei sistemi stellari in crescita nel cosmo può dirci di più su come è nato il nostro Sistema Solare e anche sulle prime fasi dello sviluppo della vita sulla Terra
La ricerca è pubblicata su Nature Astronomy.
Gli UFO potrebbero essere macchine del tempo?
Michael Masters, professore di antropologia biologica alla Montana Technological University di Butte, nel suo recente libro “Identified Flying Objects: A Multidisciplinary Scientific Approach to the UFO” affronta il tema degli oggetti volanti non identificati da un punto di vista non nuovo ma affascinante.
Secondo Masters, con l’attuale ritmo di progresso tecnologico e scientifico, in un lontano futuro i nostri discendenti impareranno a viaggiare attraverso il tempo grazie a macchine oggi solo teorizzate.
L’obiettivo del libro, ha dichiarato Masters, è di stimolare una nuova e più informata discussione tra credenti e scettici. Masters nel suo libro adotta un approccio multidisciplinare per interpretare le stranezze del fenomeno UFO. Gli UFO, come altri fenomeni misteriosi hanno da decenni un posto importante nell’immaginario collettivo, spesso distorto o confuso, ma che si lega spesso alla domanda che da secoli l’umanità si pone:
C’è qualcuno la fuori?
Una domanda che soprattutto oggi è sul punto di ricevere una risposta visti i continui progressi della caccia agli esopianeti adatti ad ospitare la vita. Il fenomeno, però, non viene visto solo come una possibile manifestazione intelligente e tecnologica di una qualche entità aliena, ma anche come un prodotto della nostra progenie che ha imparato a dominare le forze della natura piegandole ai propri voleri.
Nel suo libro, Masters nota che i presunti “alieni” che fanno capolino dagli UFO sono umanoidi con due braccia, due gambe, glabri e macrocefali in grado di comunicare con noi esseri umani e in possesso di una tecnologia molto avanzata ma ricollegabile alla nostra.
Per questo, Masters ritiene che, grazie all’analisi dei modelli bioculturali a lungo termine e ai progressi compiuti nel campo della fisica, non si deve escludere la possibilità che gli UFO siano macchine che provengono dal nostro stesso futuro, che siano quindi nostri discendenti.
Ma perché escludere che siano alieni?
Secondo Masters la risposta è semplice. Sappiamo che noi siamo qui, abbiamo una storia evolutiva abbastanza lunga e viste le premesse attuali, la nostra tecnologia in futuro sarà molto più avanzata. La risposta secondo Masters non è campata in aria, è una risposta economica, infatti non sappiamo nulla di altre civiltà aliene e in teoria potrebbero non esistere in nessun luogo della galassia.
Masters è un antropologo che ha lavorato e diretto numerosi scavi archeologici in Africa, Francia e in tutti gli Stati Uniti e pensa che si potrebbe imparare molto di più sulla nostra storia e sulla nostra evoluzione se avessimo congegni che ci consentissero di viaggiare nel tempo. Masters ritiene che i rapimenti ad esempio siano effettuati per scopi scientifici e forse gli esseri che si muovono a bordo degli UFO sono studiosi in cerca di informazioni.
Questi viaggi però non sarebbero, secondo Masters, fatti solo con finalità scientifiche, ma anche a scopo turistico. Probabilmente in futuro, ricchi esponenti della popolazione sarebbero disposti a versare cifre enormi pur di osservare dal vivo un particolare periodo storico.
La ricerca di Masters è in evoluzione perché mancano ancora quegli elementi che ci consentano di coniugare relatività generale e meccanica quantistica in un modello di gravità quantistica che permetta di capire i meccanismi che regolano le leggi del cosmo. Il modello offerto da Masters è il migliore che oggi le conoscenze scientifiche consentano.
Secondo l’antropologo il mistero degli UFO necessita di approccio scientifico multidisciplinare e su questo anche Jan Harzan, direttore esecutivo della non profit Mutual UFO Network (MUFON ) concorda. Anche il MUFON ritiene possibile che gli UFO siano i nostri discendenti che viaggiano a ritroso nel tempo.
Ovviamente non tutti condividono queste idee.
Secondo Robert Sheaffer Nel libro non c’è nulla di serio perché il tutto è incentrato sul fatto che il viaggio a ritroso nel tempo sia possibile. Non abbiamo tutti i tasselli, ma sappiamo che le leggi della fisica impediscono un viaggio del genere, la freccia del tempo ha una direzione ben definita, dal passato al futuro e mai all’inverso. Sheaffer chiude affermando che le esperienze di contatto del terzo tipo non vadano prese in modo letterale.
Anche David Darling, astronomo e scrittore scientifico britannico, ha spesso pensato che alcuni UFO fossero mezzi volanti alieni o macchine del tempo del nostro futuro ma ritiene sia improbabile che siano realmente queste cose, ritenendo la tesi di Masters forzata.
Larry Lemke, un ingegnere aerospaziale della NASA in pensione interessato al fenomeno UFO, trova intrigante la prospettiva di visitatori che provengono dal duturo.
“L’unica cosa che è diventata chiara nel corso dei decenni di avvistamenti, se credi nei resoconti, è che questi oggetti non sembrano obbedire alle consuete leggi dell’aerodinamica e della meccanica newtoniana“, ha detto Lemke, riferendosi alla relazione, in “il mondo naturale, tra forza, massa e movimento“. Metti in pratica la teoria della relatività generale di Einstein e le sue conseguenze, come wormhole e buchi neri, insieme ad altre idee di fisica esotica come la bolla di ordito Alcubierre.
“C’è un gruppo di pensatori nel campo degli UFO che sottolineano che i fenomeni riportati intorno ad alcuni UFO sembrano, in effetti, esattamente come effetti di relatività generale“, ha detto Lemke. Il tempo mancante è molto comune“.
Lemke ha detto che l’idea che qualcuno abbia capito come manipolare lo spazio-tempo, su scala locale con un approccio a bassa energia, spiegherebbe molte cose del fenomeno UFO, inclusi quegli sconcertanti oggetti a forma di “Tic-Tac” recentemente riportati da piloti di jet da combattimento e operatori radar.
“Non importa quanta conoscenza abbiamo, quanto pensiamo di sapere, c’è sempre qualche frontiera oltre“, ha detto. “E capire che la frontiera sta diventando sempre più esoterico“.
Certo, si deve fare una sorta di atto di fede, come Lemke “se credi nei resoconti” allora tutto sembra avere una spiegazione, ma in decenni di avvistamenti tutte le prove portate a sostegno della tesi che gli UFO siano qualcosa di reale e tecnologico non hanno mai retto ad un’analisi seria e libera da ogni convinzione.
Qualsiasi cosa sia quella piccola percentuale del fenomeno UFO che non ha spiegazione rimane tale, non identificata, buona per accendere la fantasia, almeno è questo l’unico merito che possiamo riconoscergli.
Fonte: https://www.livescience.com/aliens-time-traveling-humans-ufo-hypothesis.html
Invecchiamento: come i nostri “orologi epigenetici” rallentano invecchiando
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Dal novantenne che fa tip tap al 40enne che fatica a correre per un chilometro, conosciamo tutti persone che sembrano sorprendentemente giovani o più vecchie rispetto alla loro età. Gli scienziati ritengono che sia possibile distinguere tra due tipi di età: l’età biologica, una misura di come funziona il corpo e l’età cronologica, la tua età in anni.
L’epigenetica, la scienza di come i fattori ambientali influenzano i nostri geni, è un modo promettente per comprendere il legame tra i due e l’invecchiamento in generale.
La metilazione del DNA è un meccanismo utilizzato dalle cellule per controllare l’espressione genica, indipendentemente dal fatto che (e quando) un gene sia acceso o spento. Questo processo differisce tra cellule e tessuti e è stato dimostrato che cambia gradualmente con l’età. Il livello di metilazione può quindi aiutare a determinare l’età dei tessuti.
Tracciando come l’età influenza i livelli di metilazione del DNA per tutta la vita, gli scienziati hanno creato un orologio epigenetico. Questo è un metodo ampiamente usato per determinare l’età biologica da un campione di metilazione del DNA basato su centinaia di marcatori epigenetici. Ma la nostra nuova ricerca, pubblicata su Genome Biology, suggerisce che il metodo non è affidabile come si pensava in precedenza.
La versione dell’orologio più comunemente usata è stata originariamente sviluppata da una vasta raccolta di dati presi da una gamma di diversi tipi di tessuti.
Laddove campioni di tessuto provengono da donatori anonimi, l’orologio epigenetico consente ai ricercatori di stimare la loro età cronologica, più o meno qualche anno. Concentrandosi sull’età biologica, è stato proposto che l’orologio epigenetico rifletta la nostra “vera” età cellulare. Ciò può essere modificato dalla nostra salute o dall’ambiente in cui viviamo.
Molti studi hanno esplorato l’accelerazione dell’età cioè come i nostri orologi possono essere accelerati dalla malattia o dall’ambiente e persino in che modo ciò potrebbe essere correlato al rischio di morte. In sostanza, questo metodo calcola la differenza tra l’età cronologica e quella biologica per un gruppo di persone. Quindi prendiamo questa differenza e verifichiamo se è correlata al profilo delle persone che soffrono di una certa malattia.
Ciò probabilmente consente ai ricercatori di esaminare i cambiamenti dello sviluppo, gli effetti ambientali cumulativi e l’invecchiamento cellulare. Ma c’è stato anche un clamore attorno ad esso, compresi i costosi prodotti per i test dei consumatori .
Saperne di più su come invecchiano i nostri corpi e sulla possibilità allettante che in futuro potremmo essere in grado di rallentare, arrestare, o addirittura invertire il processo, rende l’orologio epigenetico di grande interesse. Forse potremmo sviluppare farmaci per rallentare il processo di invecchiamento.
In effetti, una recente scoperta intrigante ma molto preliminare di Steven Horvath, un professore di genetica umana all’Università della California, a Los Angeles, che ha sviluppato il concetto di orologio epigenetico, suggerisce che potrebbe essere possibile. Ma molti ricercatori rimangono scettici.
Informazione mancante
È importante ricordare che non ci sono prove che i cambiamenti di metilazione del DNA usati nell’orologio epigenetico siano qualcosa di più che un sottoprodotto dell’invecchiamento. In effetti, potrebbero non determinare il nostro invecchiamento.
I campioni originali utilizzati nello sviluppo del modello dell’orologio sono stati prelevati prevalentemente da persone giovani e non includevano molti campioni prelevati da persone anziane. Dato ciò che già sappiamo sui cambiamenti biologici che avvengono con l’età, volevamo testare l’accuratezza dell’orologio.

Gli studi sull’invecchiamento devono tenerne conto, altrimenti rischiano di essere ingannati da qualsiasi fenomeno legato all’età che sembra associato alla metilazione del DNA.
Osservando i dati sugli anziani di due grandi studi, uno eseguito su circa 90 cervelli post mortem di anziani e l’altro su sangue proveniente da circa 1.200 persone di tutte le età, abbiamo potuto confrontare due modelli di orologi epigenetici con i nostri risultati di metilazione del DNA.
La nostra analisi delle prestazioni dell’orologio mostra che l’età epigenetica non si muove a un ritmo costante per tutta la vita e che si comporta in modo diverso nei diversi tessuti. Invece, l’orologio rallenta mentre invecchiamo, in particolare quando entriamo nella vecchiaia.
Abbiamo trovato prove evidenti che le età delle persone sono state sistematicamente sottovalutate dall’orologio epigenetico, una volta che le persone avevano più di 60 anni. Al momento, non sappiamo perché il cambiamento della metilazione del DNA rallenta in questo modo e quali siano i meccanismi dietro questo fenomeno.
Sapevamo già che i cambiamenti della metilazione del DNA non sono lineari nel corso della vita. L’orologio è stato aggiornato per tenere conto, ad esempio, dei grandi cambiamenti in atto durante l’infanzia e l’adolescenza. Con la quantità di dati ora disponibili, sono possibili orologi più dettagliati e precisi per specifici tessuti e fasce di età.
Se riusciamo a eliminare la discrepanza tra metilazione del DNA ed età cronologica, cosa significa veramente accelerazione dell’età? Se è diversa per le diverse parti del corpo, è probabile che sia correlata a qualche meccanismo di invecchiamento centrale?
In definitiva, il nostro lavoro mostra che i ricercatori devono stare attenti quando usano l’orologio epigenetico per stimare l’età. L’accelerazione dell’età sembra davvero essere dipendente dall’età e occorre prestare attenzione nell’interpretazione di eventuali associazioni di accelerazione dell’età. Ad esempio, mostriamo che sembra esserci un’accelerazione dell’età nella malattia di Alzheimer, ma questa si rivela un’illusione statistica prodotta dal rallentamento dell’orologio e dal fatto che la malattia di Alzheimer è progressiva.
L’orologio epigenetico è uno strumento utile per i ricercatori, ma data la natura limitata del profilo di metilazione del DNA su cui si basa l’orologio, prenderlo al valore nominale potrebbe portare a risultati fuorvianti.
Cadorna, l’uomo ed il generale
Il conte generale Luigi Cadorna apparteneva ad una famiglia con radicate tradizioni militari. Suo padre Raffaele aveva guidato il 20 settembre del 1870 la presa di Roma e suo figlio Raffaele nel 1944 guiderà il Corpo Volontari della Libertà nel corso della guerra di Liberazione prima di sedere in Parlamento per tre legislature nelle file della Democrazia Cristiana.
La storiografia ha interpretato in modi controversi la figura del Capo di Stato Maggiore generale del Regio Esercito (nominalmente il Comandante Supremo era il Re, che ben si guardava dall’intromettersi nelle competenze militari), incarico che Cadorna ricoprì dal 1914, dopo l’improvvisa morte del generale Alberto Pollio.
Certamente, dopo la disfatta di Caporetto vennero enfatizzati i difetti dell’uomo e del generale che non aveva mai guidato tatticamente sul campo un’unità militare. I soldati lo avevano poco in simpatia al punto da prenderlo in giro con canzonette irriverenti come questa che veniva canticchiata in assenza di ufficiali: “Il general Cadorna/ha detto alla Regina/se vuol veder Trieste/la veda in cartolina.”
I politici lo amavano ancora meno per la totale refrattarietà a qualunque intromissione nelle sue prerogative che Cadorna interpretava in modo autoritario quanto largo. Nel 1917, nell’anno che sarà fatale per la sua carriera, Cadorna aveva 67 anni, cattolico intransigente, con due figlie monache, era un servitore della monarchia sabauda in grado di destreggiarsi abilmente tra cattolici e laici massoni, al punto da sottolineare in un suo scritto la nomina del massone generale Capello come Comandante della zona di Gorizia.
Le principali critiche all’operato del Capo di Stato Maggiore Generale erano incentrate sull’autoritarismo con il quale gestiva i milioni di coscritti, egli era fermamente convinto che la disciplina assoluta ed incondizionata fosse il caposaldo dell’esercito e per ottenerla ricorse in modo più massiccio e scriteriato di qualunque esercito occidentale alle fucilazioni. Il benessere morale e materiale dei soldati al fronte non era tra le priorità di Cadorna.
Peccato che questa spietatezza del carattere di Cadorna alla maggior parte dei contemporanei non appariva tale, ammaliati dal sorriso e dalle buone maniere del generale nato a Pallanza il 4 settembre del 1850. Il colonnello Angelo Gatti, capo dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore, scrive sul suo comandante che è l’uomo giusto al posto giusto e rincara la dose “il nostro Capo (così Cadorna era generalmente chiamato dai suoi ufficiali subalterni) è un monumento granitico per quanto riguarda la saldissima costituzione morale”.
A quest’uomo tutto d’un pezzo i critici rimproverano oltre la rigidezza mentale, l’assoluta insofferenza a qualsiasi critica che presto sfociò nel circondarsi di uno stuolo di adulatori. Il generale Marazzi già nel 1916 scriveva: “Caratteristica della sua personalità è l’immobilità, l’idea fissa per cui quanto presume debba avvenire, facilmente si pieghi ai suoi desideri. Con ciò la discussione non può tollerarsi, diventa indisciplina, l’avvertire una difficoltà è segno di timore”.
Questo giudizio era confortato da quanto pensava anche Don Minozzi un prelato ben introdotto nel Comando Supremo, ideatore delle Case del Soldato, uno dei pochissimi a preoccuparsi del morale delle truppe prima del disastro di Caporetto.
Lo stesso Capello scrive perfidamente in una sua lettera della vanità dell’uomo Cardorna che si circonda di adulatori e lacchè che ben si guardano di mettere in discussione metodi e decisioni del generalissimo.
Altri colleghi, forse un po’ meno malevoli, come il generale Di Giorgio che sarà poi ministro della Guerra con Mussolini dichiarò alla Commissione d’inchiesta parlamentare che Cadorna era un uomo di grandissime qualità ma pessimo organizzatore e rovinato dalla poca conoscenza degli uomini.
Il generale Caviglia, comandante del XXIV Corpo d’Armata a Caporetto, rafforzò questo giudizio affermando che Cadorna non conosceva veramente la guerra vissuta dai suoi soldati e quello che era forse ancora più drammatico non la conoscevano neppure la maggior parte degli ufficiali del suo Stato Maggiore.
Questo scollamento tra la guerra dei coscritti e chi aveva la responsabilità di guidare le operazioni militari fu una delle cause della drammatica rotta di Caporetto. E la disfatta di Caporetto costituirà la fine della carriera del conte Cadorna ed anche la resa dei conti della politica su un uomo che, sia pure in tempo di guerra, aveva assunto quasi le vesti di un dittatore.
Il 6 e 7 novembre 1917 a due settimane circa da Caporetto si svolge la conferenza di Rapallo, un vertice interalleato fra il nuovo Capo del Governo italiano Vittorio Emanuele Orlando, i Primi ministri di Francia e Gran Bretagna e i generali Foch e Robertson. In una riunione propedeutica i rappresentanti stranieri si espressero subito per l’allontanamento di Luigi Cadorna dal comando, e la sua sostituzione con il Duca d’Aosta.
Il Re si rifiutò di nominare il Duca d’Aosta Capo di Stato Maggiore ma il 9 novembre destituì Cadorna e nominò al suo posto il generale Armando Diaz.
Nel dopoguerra Cadorna sedette sugli scranni del Senato fino al 1928 e nel 1924 Mussolini, un po’ a sorpresa, lo nominò Maresciallo d’Italia. Morì a Bordighera il 21 dicembre 1928 alla “Pensione Jolie”, poi divenuta “Hotel Britannique” . Sulla facciata dell’edificio è stata posta una placca commemorativa.
L’Italia degli Anni Cinquanta e la nascita del Festival di Sanremo
Era un’Italia appena uscita da un lungo e difficile dopoguerra quella che a fine gennaio del 1951 teneva a battesimo la manifestazione canora che più di ogni altra infiammerà l’immaginario collettivo della società italiana, oscillando sapientemente tra tratti identitari, tradizioni e innovazioni in settanta anni di vita.
Contrariamente ad una certa vulgata popolare il Festival di Sanremo non è lo specchio della società italiana ma certamente né interpreta e raffigura la parte più nazional-popolare in una accezione che non dobbiamo necessariamente caricare di significati esclusivamente negativi.
In settanta anni di storia, il Festival è stato dato per morto numerose volte, ma anche i dati di ascolto, elevatissimi, delle ultime edizioni confermano invece la vitalità ed il radicamento di un appuntamento che con la sua ritualità consacrata costituisce un elemento di lettura non soltanto dell’evoluzione della canzone italiana ma anche della società di cui è espressione. Anno dopo anno questa manifestazione canora calamita l’attenzione di media, intellettuali e di una parte considerevole degli italiani. Per dar conto dell’ottimo stato di salute di una manifestazione che quest’anno festeggia i 70 anni di vita, gli ascolti della serata finale dell’edizione 2019 del Festival pur in calo rispetto all’edizione del 2018 hanno “catturato” in media 10 milioni e 662mila telespettatori, con uno share del 56,5 per cento.
L’Italia della prima edizione del Festival era però molto diversa da quella di oggi. La guerra era finita da appena sei anni e la ricostruzione del paese ancora non del tutto completata. Nel 1951 terminava il sostegno del Piano Marshall costringendo l’Italia a fare i conti con se stessa per iniziare la trasformazione di un paese ancora prevalentemente agricolo.
Il boom economico è ancora lontano. Il censimento del 1951 definisce il dato della popolazione a poco più di 47,5 milioni di abitanti, 7.581.622 dei quali analfabeti, più di 13 milioni sono privi di qualunque titolo di studio ma sanno leggiucchiare, i laureati sono solo 34.000!
Circolano sulle malconce strade italiane 480.777 autoveicoli: 439.610 vetture, 13.217 autobus e 161.177 autocarri, per la maggior parte residuati bellici riadattati.
Praticamente un’automobile ogni 110 italiani circa. Lo stipendio medio di un operaio oscilla tra le 25.000 e le 30.000 lire al mese e per avere un’idea del costo della vita dell’epoca basti sapere che un giornale costava 20 lire, 30 una tazzina di caffè, 20 un biglietto del tram, un kg di pane 100/110, un kg di pasta 130/140, il burro 1300 lire al chilo ed un kg di carne bovina circa 800 lire al kg.
Una Lambretta della Innocenti (antesignana della Vespa) prodotto in quegli anni al ritmo di circa 300 al giorno grazie ad una nuova catena di montaggio, costa circa 125.000 lire. Una pensione normale non supera le 4500 lire al mese! E’ in questa Italia che il 17 gennaio giunge la visita del generale americano Eisenhower accolto da proteste di piazza senza precedenti.
Le contraddizioni indotte nella società italiana dal modello di sviluppo del dopoguerra e dal confronto est-ovest si scaricarono sul sistema politico ed anche all’interno dei partiti. Il centrismo, affermatosi dopo le elezioni del 1948, non fu in grado di consolidarsi, e dentro il partito di maggioranza si aprì lo scontro tra la corrente riformista, che faceva capo ad Amintore Fanfani ed a Giovanni Gronchi e la corrente conservatrice il cui leader era Giuseppe Pella.
Il ruolo della RAI fu fondamentale nella ricostruzione culturale ed identitaria di un popolo uscito da un ventennio di dittatura, da una guerra persa e trasformatasi negli ultimi due anni in guerra civile. Nel 1949 la RAI Radio Audizioni Italia, società a capitale privato controllato dalla SIP (Società Idroelettrica Piemonte), provvede, in soli 4 anni, alla ricostruzione totale dei trasmettitori distrutti o danneggiati dalla guerra. Nel 1951 la dirigenza decide la ristrutturazione dei programmi preceduta nel 1950 dal varo della rete culturale: il Terzo Programma, a prevalente impronta culturale, diffuso attraverso la nuova rete a modulazione di frequenza. Cominciano le “Serate a soggetto”, tra le rubriche: “Prospettive”, “Dibattito” e “Riviste estere”.
In quegli anni, anche grazie al crescente successo del Festival la radio ha uno sviluppo prodigioso, in genere veniva venduta a rate di 36 o 48 mesi dal negoziante di quartiere che ti convinceva con la formula della rateazione ed una semplice stretta di mano, erano ancora tempi in cui ci si affidava a dei foglietti per regolare i conti con il cliente!
Ed è la RAI uno degli attori protagonisti della nascita del Festival di Sanremo. Nato da un’idea di Amilcare Rambaldi, esponente della sinistra sanremese e animatore negli anni settanta del Club Tenco, il Festival di Sanremo fu utilizzato dalla Rai per rinnovare il repertorio della radio, dando alla canzone italiana una precisa fisionomia che però tenesse conto dei fermenti e delle novità che emergevano sul piano internazionale.
Il progetto nato nell’immediato dopoguerra per rilanciare l’immagine e l’economia della cittadina ligure è raccolto dal maestro Giulio Razzi, il primo Direttore Artistico del Festival, da Pier Bussetti Direttore del Casinò e dalla Rai: l’idea è semplice organizzare un festival della canzone italiana da tenersi a cadenza annuale.
Già negli anni cinquanta un saggista come Filippo Sacchi coglieva un aspetto cruciale di questo fenomeno: «nel gigantesco sviluppo dei mezzi di trasmissione meccanica {…} la canzonetta è entrata come elemento permanente nella vita di milioni e milioni di persone, accompagna il ritmo del loro lavoro, il loro desco, il loro riposo, i loro svaghi, i loro pensieri d’amore, è quasi ormai nell’ossigeno che si respira. La canzonetta è dunque uno spaventoso mezzo indiretto di formazione estetica culturale e mentale del popolo» Ed è in questo contesto che prende vita dal 29 al 31 gennaio del 1951 la prima edizione del Festival di Sanremo.
1951 – L’inizio
La formula del Festival
La formula della prima edizione era molto diversa da quella attuale: vengono selezionate 20 canzoni affidate all’interpretazione di tre cantanti: Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano tutti sotto contratto della casa discografica Cetra, che di fatto monopolizza cosi l’atto nascente della manifestazione.
Il Regolamento della manifestazione era stato messo a punto dal Direttore Artistico Giulio Razzi e dal Direttore del Casino’ Pier Bussetti che ospiterà l’evento nel teatro del Casinò stesso. Vengono presentate 10 canzoni per sera, per i primi due giorni. Al termine di ogni serata il pubblico vota e decide quali sono le cinque canzoni che hanno accesso alla finale e quali vengono eliminate. Il teatro del Casinò era in stile caffè chantant con in platea i tavolini dove il pubblico consumava cibo e bevande ed i camerieri passavano fra i tavoli. Ad ogni partecipante veniva consegnata una scheda per votare la canzone preferita.
I protagonisti
Il presentatore
Il primo presentatore del Festival di Sanremo fu Nunzio Filogamo. Nunzio Filogamo era, all’epoca una vera e propria star della radiofonia. Nato a Palermo nel 1902, fatti gli studi di giurisprudenza alla Sorbona ed all’Università di Torino, Filogamo esercitò per circa un anno la professione di avvocato prima di entrare nel mondo dello spettacolo ed in particolare a teatro dove reciterà con le compagnie di Dina Galli e delle sorelle Gramatica. Nel 1934 entra all’EIAR (la futura RAI) dove interpreterà Aramis nella celebre rivista I quattro Moschettieri. Negli anni della seconda guerra mondiale fu incaricato di presentare gli spettacoli per le forze armate e si puo’ affermare che qui nasce la carriera di presentatore di Filogamo.
Nel 1951, all’età di 49 anni, Filogamo è senza ombra di dubbio l’archetipo del presentatore, uomo di spettacolo completo, aprirà la seconda edizione del Festival nel 1952 con una frase rimasta celebre e che ha rappresentato il suo marchio di fabbrica da quel momento in poi: Miei cari amici vicini e lontani, buonasera ovunque voi siate.
L’Orchestra
Fin dalla prima edizione l’orchestra è stata una dei pilastri del Festival. Gli anni cinquanta sono ancora il periodo delle grandi orchestre che attraverso radio e concerti costituiscono forse ancor più delle canzonette la colonna sonora della gente. In quegli anni si vive il dualismo tra l’orchestra di Cinico Angelini, ancorata alla tradizione classica ed operistica musicale e quella del maestro Pippo Barzizza considerata la promotrice in Italia della musica “all’americana“, con una certa accentuazione ritmica ed un cauto ricorso a dosi di swing.
Cinico Angelini dirigerà l’orchestra nelle tre giornate del Festival. Nato nel 1901 Angelini aveva cominciato a collaborare con l’EIAR già nei primi anni trenta. Assunto nel 1938 Angelini contava nella sua scuderia cantanti del calibro di Nilla Pizzi, Gino Latilòla, Achille Togliani e il Duo Fasano. In quegli anni, all’interno della RAI Angelini riesce ad imporre i suoi protegè grazie ad un accorta politica di acquisizioni dei cantanti più promettenti dell’epoca.Nel 1951 quando si accinge a dirigere l’orchestra per il Festival è legato sentimentalmente proprio a Nilla Pizzi che vincerà la prima edizione.
I Cantanti
In questa edizione iniziale gli interpreti sono solo 3: Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano, i quali erano sostanzialmente impiegati della canzone, tutti dipendenti della Rai, legati all’orchestra diretta da Cinico Angelini.
Nilla Pizzi
Adionilla “Nilla” Pizzi ha 32 anni quando partecipa e vince la prima edizione del Festival. Figlia di un agricoltore, bella di una bellezza che potremmo definire semplice ed accattivante (aveva vinto giovanissima il concorso di bellezza Cinquemila lire per un sorriso, antesignano di Miss Italia), nel settembre del 1940 sposa Guido, un giovane manovale del bolognese. Sempre quell’anno grazie all’appoggio di uno zio influente Nilla inizia ad esibirsi negli spettacoli per le forze armate, scelta che avrà conseguenze sul suo matrimonio. La coppia si separerà definitivamente senza clamore. Nel 1942 vince un concorso per le voci nuove indetto dall’EIAR ed inizia ad esibirsi con l’orchestra Zeme. Nel febbraio del 1944, in piena guerra civile, passa nella formazione del maestro Cinico Angelini. Allontanata per un breve periodo dalla radio perché la sua voce era considerata troppo sensuale, la svolta nella carriera della Pizzi avviene nel 1946 quando firma per la Cetra. Quando partecipa alla prima edizione del Festival di Sanremo è legata sentimentalmente ad Angelini ed è già una cantante molto popolare.
Achille Togliani
Coetaneo di Nilla Pizzi, Achille Togliani è un bell’uomo dalla voce profonda ed armoniosa. Da giovanissimo cerca di sfondare nel mondo del cinema e della rivista (celebre un suo breve flirt con Sophia Loren) ma la carriera d’attore non riesce a decollare e quindi decide di sfruttare le sue qualità canore. Interprete melodico per eccellenza entra alla fine degli Anni Quaranta nella scuderia di Cinico Angelini. Protagonista di quasi tutti i Festival di Sanremo degli anni Cinquanta, Achille Togliani è l’unico caso conosciuto di cantante che viene “costretto” dal pubblico a concedere il bis. L’episodio rimasto famoso negli annali di Sanremo avviene nell’edizione del 1953, Togliani ha appena finito di cantare Lasciami cantare una canzone che il pubblico lo sommerge di applausi e grida di Bis! Bis! L’entusiasmo non accenna a placarsi e quindi ottenuto il consenso del maestro Angelini, Togliani concede il bis.
Il Duo Fasano
Le gemelle torinesi Secondina “Dina” e Terzina “Delfina” Fasano, hanno 27 anni quando partecipano alla prima edizione del Festival. Notate giovanissime, ancora minorenni, dal maestro Carlo Prato in un provino in cui interpretano Pippo non lo sa, colpiscono cosi profondamente Prato che questi chiama i suoi colleghi direttori di orchestra Barzizza, Angelini e Petralia per far ascoltare loro le gemelline che si rifanno ai dettami del più famoso Trio Lescano d’anteguerra con però un’aggiunta di freschezza e di spontaneità che cattura i grandi direttori. Nel 1948 anche loro entrano nell’organico di Cinico Angelini e nella prima edizione del Festival interpretarono ben sette canzoni.
La gara
La prima edizione del Festival si svolse in tono minore per quanto riguarda la partecipazione del pubblico ed i riscontri sulla stampa. Nella seconda giornata molti tavolini vuoti del teatro del Casinò furono riempiti dall’organizzazione con persone attratte dalla gratuità offerta (il costo del biglietto d’ingresso era piuttosto contenuto per l’epoca, 500 lire).
Anche il riscontro sulla stampa fu modesto, poche righe in cronaca, con non poche ironie sulla modestia dei premi in palio. Dal punto di vista musicale la prima edizione del Festival fu tutta all’insegna della tradizione musicale italiana senza alcun fermento innovatore. Emblematica, sotto questo profilo è la canzone quarta classificata, Al mercato di Pizzighettone. L’autore delle parole di Al mercato di Pizzighettone, Aldo Locatelli, era un giornalista del quotidiano socialista “Avanti!” presentò al Festival questo miscuglio di realtà padana filtrata attraverso la citazione operistica, scrivendo una lirica metricamente rigorosa e con una sola breve ripetizione testuale.
Nella serata finale del 31 gennaio si impone Grazie dei Fiori interpretata da Nilla Pizzi con 50 voti, seconda classificata La luna si veste d’argento cantata sempre da Nilla Pizzi e Achille Togliani che ottiene 30 voti, mentre chiude il podio con 20 voti ricevuti Serenata a Nessuno cantata da Togliani. Quanto modesto fu il concorso di pubblico in quel di Sanremo ed il riscontro sulla stampa nazionale e locale, tanto significativo fu invece l’ascolto del Festival alla radio, si stima in oltre venti milioni di persone coloro che seguirono le tre serate della manifestazione canora.
L’Edizione del 1952
La seconda edizione mantiene sostanzialmente l’impianto e la formula della prima, si svolge tra il 28 ed il 30 gennaio del 1952 sempre al Salone delle Feste del Casinò di Sanremo. L’attesa presso gli addetti ai lavori è altissima ed alla commissione esaminatrice costituita da Giulio Razzi Direttore Artistico del Festival, Guido Morbelli scrittore, paroliere ed autore radiofonico ed in seguito televisivo, Pier Bussetti Direttore del Casinò e Angelo Nizza, giornalista e paroliere arrivano 319 brani inediti presentati dalle più importanti case discografiche italiane, oltre 200 in più della prima edizione.
La commissione ne seleziona venti come da regolamento, le 10 più votate dal pubblico in sala parteciperanno alla serata finale del 30 gennaio. L’orchestra è sempre diretta dal maestro Cinico Angiolini e si è arricchita di altri componenti, mentre ai tre cantanti della prima edizione si aggiungono Gino Latilla e Oscar Carboni.
Gino Latilla, figlio d’arte, suo padre Mario era cantante a sua volta, si era formato come interprete prevalentemente all’estero, in Germania e negli Stati Uniti. Nel 1952 era stato assunto dalla RAI come cantante della radio grazie all’interessamento dell’onnipresente Cinico Angelini. Oscar Carboni era il meno giovane dei cinque interpreti, trentottenne, ventunesimo figlio di una numerosissima famiglia cominciò a cantare prima come esecutore di serenate su commissione e poi negli anni trenta nelle balere del ferrarese, sua terra d’origine. Aveva una voce sottile, quasi femminea ed uno stile accurato e rigoroso, nel dopoguerra restò nell’organico RAI per diversi anni per poi intraprendere un lungo soggiorno artistico in Sud America dove riscosse un notevole successo.
La sua prolungata assenza dall’Italia non giovò alla sua carriera, al rientro infatti la scena gli era stata rubata da Luciano Tajoli e dal giovanissimo astro nascente della canzone italiana Claudio Villa. Angelini lo volle comunque alla seconda edizione del Festival dove cantò tre canzoni, con una delle quali Madonna delle Rose (classificatasi quarta) ebbe uno straordinario successo di vendite, inaugurando così la lunga tradizione sanremese che spesso ha visto brani piazzati nelle posizioni di rincalzo o addirittura negli ultimi posti trionfare nei dati di vendita.
Il prezzo del biglietto per assistere alla seconda edizione del Festival sale vertiginosamente e passa dalle 500 lire del 1951 alle 4.000 lire consumazione compresa del 1952. Nella prima serata, Nunzio Filogamo, confermato nel ruolo di presentatore, pronuncia la sua famosa frase: « Miei cari amici vicini e lontani, buonasera. Buonasera, ovunque voi siate!»
Tra le canzoni in gara si afferma Papaveri e Papere cantata da Nilla Pizzi, parodia garbata e demenziale del rapporto tra la gente comune ed i potenti. L’autore dei testi è Mario Panzeri uno dei più importanti parolieri della scena musicale italiana. Nella seconda serata si impone, sempre cantata da Nilla Pizzi che interpreterà ben sette canzoni, Vola colomba canzone patriottica che allude alle sorti di Trieste occupata dagli Alleati e contesa dalla Yugoslavia di Tito.
Nella finale trionfa Nilla Pizzi, l’unica cantante in tutta la storia del Festival che occuperà tutti e tre i posti del podio con Vola colomba, Papaveri e Papere e Nel Regno dei Sogni. La Pizzi diventa la Regina della canzone italiana, ancora una volta però sarà il secondo brano classificato Papaveri e Papere a trionfare nelle vendite. Tradotta in oltre 40 lingue ed intepretata da artisti del calibro di Bing Crosby, Eddie Costatine, Yves Montand e Beniamino Gigli frutterà più di 40 milioni di lire in diritti d’autore.
Il Festival di Sanremo era definitivamente decollato.
Scusi ha da accendere? Breve storia del fiammifero
Prima dell’avvento degli accendini usa e getta e, fortunatamente, del calo nel consumo del tabacco questa frase risuonava spesso per strada o in qualche locale pubblico. A questa richiesta seguiva il gesto cortese e naturale di estrarre una scatola di fiammiferi per dare fuoco all’immancabile sigaretta.
Anche la storia dell’origine del fiammifero, come quella di moltissime altre scoperte, si perde nei secoli e soprattutto è costellata di episodi curiosi, affascinanti e… Pericolosi.
Il primo prototipo del fiammifero lo ritroviamo nel Seicento. La storia è questa:
Carlo II Re d’Inghilterra (1630-1685) viveva in un classico, tetro castello dell’epoca. Debolmente illuminato e decisamente freddo, era inevitabile che il sovrano la sera cercasse di distrarsi invitando a corte poeti, intellettuali e uomini di spettacolo.
Un giorno invitò un prestigiatore tedesco, un certo Daniel Kraft noto per essere capace di “illuminare” letteralmente una stanza. Questi versò una sostanza molle, simile alla cera, su un monticello di polvere da sparo. L’effetto fu immediato, la polvere da sparo si incendiò illuminando la stanza.
Il sovrano inglese non lo sapeva ma aveva avuto il privilegio di vedere le proprietà del fosforo.
All’esibizione di Kraft aveva assistito anche il filosofo-scienziato Robert Boyle (1627-1691) che ne rimase impressionato al punto da chiedere ad un suo assistente di carpire il segreto di Kraft.
Kraft aveva imparato a produrre fosforo (anche se certamente non lo chiamava così) da un alchimista, Hennig Brandt che l’aveva scoperto nel 1669 facendo evaporare per ebollizione una tinozza piena d’urina.
Scoperto il segreto di produzione Boyle mise a punto uno dei suoi innumerevoli esperimenti memorabili, prese un pezzetto di legno lo immerse nello zolfo e poi lo sfregò su un foglio di carta sul quale aveva cosparso del fosforo.
Il calore generato dall’attrito accese il pezzo di legno. Era nato il prototipo del fiammifero.
Il fiammifero di Boyle non ebbe però un seguito pratico e dobbiamo fare un salto nel tempo fino al 1825 quando un cliente si rivolse al farmacista John Walker per chiedergli di preparare un miscuglio a base di solfuro di antimonio, cloruro di potassio e gomma vegetale avendo sentito che questo preparato si sarebbe acceso per percussione.
Nel preparare questo intruglio Walker si accorse che in punta al bastoncino di legno che usava per miscelare il composto si formava una sorta di goccia a forma di lacrima.
Quando cercò di grattarla via per ripulire il bastoncino questa si accese.
Il buon farmacista iniziò a produrre artigianalmente questi primi rudimentali fiammiferi senza però brevettare la scoperta. Un certo Samuel Jones che aveva utilizzato qualcuno dei fiammiferi di Walker riuscì a migliorarli aggiungendo alla miscela dello zolfo.
Questa aggiunta rendeva più semplice accendere i fiammiferi al prezzo però di una puzza dovuta all’anidride solforosa prodotta dalla combustione.
Il francese Charles Saurie semplificò ancora la ricetta aggiungendo fosforo al composto e di li a poco i fiammiferi iniziarono ad inondare il mercato.
Purtroppo ben presto molti degli operai che li producevano cominciarono ad ammalarsi di una terribile malattia, la necrosi fosforica, dovuta all’alta tossicità del fosforo bianco.
Questo inconveniente fu superato qualche anno dopo facendo immergere uno stecchino di legno in paraffina, ricoprendolo di un misto di zolfo (che è un ottimo combustibile) e potassio clorato (che forniva ossigeno) e colla.
I fiammiferi svedesi si accendevano facilmente sfregandoli su una striscia di fosforo rosso e carta vetrata posta sul retro della scatola con cui venivano venduti.
L’epoca delle pietre focaie e degli acciarini era definitivamente tramontata.
Un nuovo virus in Cina sta contagiando centinaia di persone
Il misterioso virus che si sta diffondendo in Cina, da quanto dichiarato dagli scienziati alla BBC, è riuscito ad infettare un numero rilevante di persone, di gran lunga superiore al numero suggerito dalle cifre ufficiali. Il nuovo coronavirus secondo le stime, ha avuto 60 casi confermati, ma gli esperti del Regno Unito, ritengono che la stima si aggiri intorno ai 1.700 casi. La malattia respiratoria provocata dal virus ha causato due decessi nella città di Wuhan, a dicembre.
Il prof. Neil Ferguson, epidemiologo, ha dichiarato che: “Sono molto più preoccupato oggi, rispetto a ciò che avveniva una settimana fa”.
I controlli sono stati condotti dal Centro MRC per l’analisi globale delle malattie infettive, presso l’Imperial College di Londra, un’università di ricerca che fornisce consulenza a enti, tra cui troviamo il governo del Regno Unito e l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS).
Presso gli aeroporti di Singapore e Hong Kong, sono stati condotti controlli sui passeggeri provenienti da Wuhan, e le autorità statunitensi hanno annunciato che effettueranno lo stesso tipo di misure, a partire da venerdì, negli aeroporti di San Francisco, Los Angeles e New York.
Come sono stati calcolati i numeri?
L’indizio cruciale, per capire l’entità dell’epidemia, sta nei casi rilevati negli altri paesi.
Il prof. Ferguson dichiara di essere molto preoccupato riguardo al virus, aggiungendo che “Il contagio che sta avvenendo a Wuhan, è stato in grado di diffondersi anche in altri paesi, ciò implicherebbe che ci potrebbero essere molti più casi di quanto riportato”.
È impossibile ottenere il numero preciso di persone contagiate, ma la modellazione delle epidemie che si basa sul virus, sulla popolazione locale e sui dati di volo, può riuscire a dare un’idea. L’aeroporto internazionale di Wuhan, serve una popolazione di 19 milioni di persone, ma di essi solo 3.400 viaggiano all’estero ogni giorno. I calcoli dettagliati dei casi di contagio, che sono stati resi noti online, prima di essere pubblicati su una rivista scientifica, risultano in una cifra di 1.700 casi.
Che cosa significa tutto questo?
Il prof. Ferguson ha affermato che, “È troppo presto per essere allarmisti, ma man mano che passano i giorni la mia preoccupazione aumenta”. I funzionari cinesi, hanno affermato che non ci sono stati casi di diffusione del virus da un individuo all’altro, e che esso proviene da animali infetti presenti in un mercato di frutti di mare e fauna selvatica a Wuhan.
Il prof. Ferguson sostiene che, “Le persone dovrebbero considerare la possibilità di una trasmissione del virus da individuo a individuo in maniera più seria di quanto fatto finora. È impensabile per me credere, visto ciò che sappiamo sul coronavirus, che la causa principale di un numero cosi elevato di infezioni umane, possa provenire da un esposizione di animali infetti”.
Riuscire a comprendere come il nuovo virus riesca a diffondersi è un’informazione importante da ottenere per poi riuscire a valutare la minaccia. L’ufficio cinese dell’OMS ha affermato che le analisi del virus sono state utili, e se fossero state fatte in tempo, potevano aiutare i funzionari ad evitare il diffondersi dell’epidemia.
Cos’è questo nuovo virus?
I campioni virali, sono stati prelevati dai pazienti e sono stati analizzati in laboratorio. Grazie a queste indagini, eseguite dai funzionari in Cina e dall’Organizzazione mondiale della sanità, si è potuto concludere che l’infezione è causata da un coronavirus.
I coronavirus sono una vasta famiglia di virus, ma sono solo sei quelli attualmente noti in grado di infettare le persone. La ricerca ne ha aggiunto un altro arrivando cosi a sette tipologie.
L’infezioni più lievi creano al soggetto infettato un comune raffreddore, ma la sindrome respiratoria acuta grave (Sars), è un coronavirus, che è riuscito a causare, su 8.098 persone infettate, in un epidemia scoppiata in Cina nel 2002, 774 decessi.
L’analisi del codice genetico del nuovo virus, ha mostrato che è strettamente correlato a quello della Sars, a differenza di tutti gli altri scoperti in precedenza che hanno infettato l’uomo.
Il virus ha causato la polmonite in alcuni pazienti ed è stato fatale per due di essi.
Il parere degli esperti
Il dott. Jeremy Farrar direttore dell’ente benefico per la ricerca medica Wellcome, ha dichiarato che “Ci sono ancora molte ricerche da fare riguardo questa nuova epidemia, perché rimangono ancora molte incertezze. Ad oggi, l’unica cosa che sappiamo sul virus e che riesce a trasmettersi da un individuo all’altro. Stiamo verificando l’esistenza di altri casi in Cina ed è probabile che ci saranno molti altri casi a noi non pervenuti in altri paesi”.
Il prof. Jonathan Ball dell’Università di Nottingham, ha dichiarato che “Ciò che conta è che, fino a quando non si effettueranno ulteriori test di laboratorio su larga scala, non sarà possibile poter dare un numero reale sui casi in circolazione. Ad oggi dobbiamo prendere in considerazione, fino a quando non ci saranno altri riscontri, 41 casi di trasmissione, avvenute da animali a individui. Probabilmente l’infezione avrà provocato più casi di quanti riportati fin’ora”.
UFO/OVNI: secondo l’aeronautica militare sono stati 140 gli avvistamenti catalogati in Italia tra il 2001 ed il 2019
L’Aeronautica militare italiana li cataloga come Ovni, ovvero “Oggetti volanti non identificati”. Significa che non stiamo parlando necessariamente di veicoli alieni ma potrebbero essere fenomeni naturali, droni o altri velivoli militari.
Già, perché l’aeronautica militare italiana già dal lontano 1978 si occupa di catalogare e cercare di spiegare gli avvistamenti di Oggetti volanti non identificati.
Fu l’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti che, a seguito dell’ondata di avvistamenti di Oggetti Volanti Non Identificati (OVNI) del 1978, designò l’Aeronautica Militare quale Organismo Istituzionale deputato a raccogliere, verificare e monitorizzare le segnalazioni inerenti gli OVNI.
Attualmente tale attività viene svolta dal Reparto Generale Sicurezza dello Stato Maggiore Aeronautica. Chiunque desideri segnalare un evento correlabile ad un O.V.N.I. può farlo utilizzando la modulistica presente sul sito istituzionale che, dopo averla compilata, dovrà consegnare alla più vicina stazione dei Carabinieri.
Questa azione consente all’Aeronautica Militare di avviare un’indagine tecnica per identificare l’esistenza di una correlazione con eventi umani e/o fenomeni naturali che, se necessario, coinvolge anche altri organi competenti presenti sul territorio nazionale.
Tale attività ha lo scopo di garantire la sicurezza del volo e nazionale. Una volta terminati gli accertamenti, gli episodi vengono pubblicati e, se non è stato possibile individuare una giustificazione tecnica o naturale, si classifica l’episodio come avvistamento di Oggetto Volante Non Identificato. Per quanto riguarda gli avvenimenti antecedenti il 2001, è in corso, ad opera del Reparto Generale Sicurezza, un riordino dei dati al fine di una prossima pubblicazione.
Il più recente avvistamento UFO in Italia è avvenuto nei cieli di Val d’Ossola al confine con Canton Ticino. In realtà, sarebbe stato il trenino dei satelliti Starlink di SpaceX lanciati in orbita il 7 gennaio ad allarmare i testimoni. Lo confermerebbe il sito di tracciamento satellitare Heavens Above. Gli oggetti avvistati insomma farebbero parte di un progetto nato per creare una costellazione di piccoli satelliti a banda larga e per fornire così agli utenti di tutto il mondo un accesso a Internet ad alta velocità.
Nel database dell’aeronautica troviamo in testa alla classifica degli avvistamenti la Campania con 20 segnalazioni ancora non spiegate. Al secondo posto c’è la Lombardia con 19 avvistamenti, seguono la Toscana con 16 oggetti non identificati, il Lazio con 14, l’Emilia-Romagna con 13 e il Veneto con 10 oggetti. All’ultimo posto c’è Sicilia con 9 Ufo. I dischi volanti non sembrano amare invece i cieli di Val d’Aosta, Molise, Umbria e Sardegna, come riportato in articolo pubblicato oggi da La Stampa.
Qualcuno sarà sicuramente contento di questo annuncio e starà magari speculando su questi dati. A questo proposito è da segnalare un recente servizio delle iene, per conto delle quali Enrico Lucci è andato a parlare con alcuni seguaci del culto raeliano in Italia. siamo andati a parlare, nel servizio che potete vedere qui sopra, con i raeliani, seguaci di un culto secondo cui alcuni extraterrestri scientificamente avanzati, chiamati Elohim, avrebbero creato la vita sulla Terra attraverso l’ingegneria genetica.
“Ho visto degli Ufo durante alcuni incontri raeliani”, racconta Marco Franceschini, uno dei 90mila raeliani presenti nel mondo. I nostri creatori sono buonissimi. “Hanno la pelle olivastra”, spiega un altro adepto a Le Iene, “e sono alti circa 1 metro e 25”.