martedì, Aprile 22, 2025
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3 miliardi di anni fa, la Terra potrebbe essere stata un mondo acquatico senza continenti

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Le osservazioni effettuate su un’antica sezione della crosta terrestre suggeriscono che circa tre miliardi di anni fa la Terra fosse un mondo acquatico. Se ciò fosse vero, significherebbe che gli scienziati dovranno rivedere alcune ipotesi sugli esopianeti e sull’abitabilità, riconsiderando anche le loro idee riguardo l’inizio della vita sul nostro pianeta.
Un nuovo documento presenta questi risultati sulla rivista Nature Geoscience; il titolo è “Limited Archaean continental emergence reflected in an early Archaean 18O-enriched ocean“. I co-autori sono Boswell Wing dell’Università del Colorado, Boulder, e il suo ex studente post-dottorato, Benjamin Johnson della Iowa State University.
Lo studio si concentra su un’area nell’outback australiano chiamata distretto Panorama. In quella regione del nord-ovest dell’Australia, è stata trovata una lastra di fondo oceanico risalente a 3,2 miliardi anni fa. Questa lastra contiene indizi chimici relativi all’acqua del mare ai tempi della Terra primordiale.
Non abbiamo a disposizione campioni di acqua oceanica molto antichi, ma abbiamo delle rocce che hanno interagito con quell’acqua di mare e, dunque, potrebbero essere utili per il nostro studio“, ha dichiarato Johnson in un comunicato stampa.
Nell’introduzione all’articolo sopracitato, i due autori affermano che “L’origine e l’evoluzione della biosfera terrestre sono state modellate dalle storie fisiche e chimiche degli oceani. I sedimenti chimici marini e la crosta oceanica conservano una documentazione geochimica di queste storie“.
I sedimenti marini sono stati ben studiati nel tempo, ma gli autori di questo studio hanno invece osservato la crosta antica. Gli oceani primordiali contenevano diversi tipi di ossigeno che venivano poi depositati sulla crosta. Gli scienziati hanno raccolto oltre 100 campioni di roccia per analizzare due isotopi di ossigeno: ossigeno-16 e ossigeno 18.
I loro risultati hanno mostrato più ossigeno-18 nella crosta quando si è formata 3,2 miliardi di anni fa, quindi l’oceano in quel momento aveva più ossigeno-18. La coppia di ricercatori afferma che ciò significa che quando quella crosta si è formata, non c’erano continenti. Questo perché quando i continenti si formano, contengono delle argille che avrebbero assorbito l’ossigeno-18. Quindi se ci fossero stati continenti 3,2 miliardi di anni fa, i loro campioni di crosta avrebbero avuto un valore più basso di ossigeno-18.
La conclusione generale del loro lavoro è che gli oceani della Terra hanno attraversato due stati distinti: uno prima della formazione dei continenti e uno dopo la formazione dei continenti.
I sedimenti chimici marini sono stati ampiamente studiati per cercare di comprendere al meglio la formazione dei continenti sulla Terra primordiale. Come afferma lo studio, quegli antichi sedimenti includono carbonati, fosfati, silice microcristallina e ossidi di ferro. I sedimenti sono come un “archivio dati” della Terra, e quelli più vecchi mostrano valori di ossigeno-18 in costante aumento nel tempo, fino ad oggi. Ma questo è in contrasto con ciò che è stato detto prima, infatti gli autori suggeriscono che l’ossigeno-18 nell’acqua di mare è diminuito nel tempo.
La coppia di scienziati ha costruito un modello della Terra antica, dimostrando che solo dopo la formazione dei continenti, si può parlare di valori di ossigeno-18 simili ai valori moderni.
Sebbene questo studio indichi la possibilità che la Terra alle sue origini fosse stata un mondo acquatico, ciò non significa che il pianeta fosse privo di qualsiasi forma di continenti. A quel tempo esistevano aree delle dimensioni di un’isola, o addirittura micro-continenti di natura vulcanica e molto rocciosi. I grandi continenti che abbiamo oggi, ricchi di terra e alte catene montuose, potrebbero non essere esistiti in principio, poiché, diversamente, il contenuto di ossigeno-18 sarebbe stato più simile a quello di oggi.

Quando si sono formati esattamente i continenti?

È probabile, secondo alcune prove, che i continenti possano essersi formati solo quando il nucleo della Terra si è raffreddato abbastanza. In ogni caso, i continenti moderni non hanno preso forma se non dopo il Giurassico.
Prima di allora, il singolo super-continente “Gondwana” copriva circa un quinto della superficie terrestre. Wing vuole, quindi, esaminare le aree più giovani della crosta terrestre per cercare di determinare più chiaramente quando si sono formati i continenti moderni.
La scienza ha “dipinto un quadro” per spiegarci come potrebbe essere apparsa la Terra primordiale e quale fosse la natura degli oceani. Ma è tutt’altro che completo.
Fonte: Universe Today

Gli esopianeti super leggeri potrebbero essere più strani di quanto immaginato

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La nostra galassia, la Via Lattea, ospita potenzialmente miliardi di esopianeti e ne abbiamo già individuati diverse migliaia. Gli astronomi hanno scoperto pianeti di ogni tipo, giganti gassosi, esopianeti più piccoli e rocciosi e oggetti che non esistono nel nostro sistema solare. Questi ultimi sembrano essere dei pianeti paragonabili ai giganti gassosi ma molto meno densi e sono stati soprannominati esopianeti puff o superleggeri.
Questi oggetti sono un enigma spaziale che ha messo a dura prova le teorie formulate per spiegarne l’esistenza, in quanto a parità di dimensioni, alcuni di essi presentano una massa pari a l’uno percento rispetto alla massa di un gigante gassoso. Oggi però qualcosa sembra suggerire una risposta agli astronomi:
E se questi strani esomondi fossero dei piccoli pianeti circondati da giganteschi anelli?
Un pianeta roccioso, di piccole dimensioni, circondato da grandi anelli potrebbe spiegare alcune caratteristiche di questi oggetti superleggeri rivelando una caratteristica ancora non osservata negli esopianeti: gli anelli.
In linea di principio, gli anelli dovrebbero essere rilevabili da modifiche fotometriche o spettroscopiche osservando i transiti. La difficoltà è che tali segnali sono difficili da estrapolare nei dati attuali“, hanno scritto i ricercatori nel loro articolo. “C’è chiaramente ancora molto che non sappiamo sugli anelli degli esopianeti“.
Uno dei metodi per rilevare gli esopianeti è il metodo del transito. Se un esopianeta passando davanti alla sua stella occulta una piccola parte della sua luce producendo un avvallamento nel segnale ricevuto e se questi avvallamenti hanno la medesima profondità e durata si può essere sicuri della presenza in orbita di un pianeta extrasolare.
La quantità di luce mancante può essere utilizzata per calcolare la dimensione fisica dell’esopianeta.
Esiste un secondo metodo che viene usato per calcolare la massa di un esomondo, questo metodo sfrutta l’attrazione gravitazionale dei pianeti mentre orbitano attorno alla loro stella madre. Questo fa oscillare di pochissimo la stella e queste piccole oscillazioni possono essere misurate per determinare la massa del pianeta che la provoca.
Quando si determina il passaggio di un esomondo ultraleggero le misurazioni e i calcoli restituiscono una dimensione sproporzionata rispetto alla massa calcolata in base all’oscillazione della stella madre. Questo ha indotto gli astronomo Anthony Piro della Carnegie Institution for Science e Shreyas Vissapragada del Caltech a chiedersi quali oggetti potrebbero avere dimensioni così grandi, ma una densità così insignificante. Questa idea li ha portati a considerare gli anelli planetari.
Abbiamo iniziato a pensare, se questi pianeti non fossero affatto leggeri come lo zucchero filato“, ha detto Piro. “E se i pianeti puff sembrano così grandi perché in realtà sono circondati da anelli?
I giganti gassosi del sistema solare, Giove, Saturno, Nettuno e Urano presentano anelli ma solo quelli di Saturno sono di dimensioni rilevanti e visibili anche con piccoli telescopi.
Se molti pianeti del Sistema Solare presentano anelli, è chiaro che anche molti esopianeti potrebbero averli. Calcolando la presenza degli esopianeti da distanze immense, la gran parte delle volte non possiamo vederli direttamente e rilevare la presenza degli anelli è praticamente impossibile. O forse no?
Vissapragada spiega: “Abbiamo iniziato a chiederci, se un astronomo alieno dovesse osservare il sistema solare da un mondo lontano, riconoscerebbe Saturno come un pianeta inanellato o vedrebbe un pianeta superleggero?”. Per capire se la presenza degli anelli potesse fornire una spiegazione alla dimensione dei pianeti ultraleggeri i due astronomi hanno creato dei modelli che hanno dato una risposta positiva solo in alcuni casi.
Questi pianeti tendono ad orbitare in prossimità delle loro stelle ospiti, il che significa che gli anelli dovrebbero essere rocciosi, piuttosto che formati da ghiaccio“, ha detto Piro. “Ma i raggi dell’anello roccioso possono essere solo così grandi, a meno che la roccia non sia molto porosa, quindi non tutti i super-leggeri si adattano a questi vincoli“.
Esopianeti dotati di anelli dovrebbero essere fortemente schiacciati, un po’ come Saturno che presenta questa caratteristica molto marcata a causa della sua elevata velocità di rotazione attorno al proprio asse. Esopianeti bloccati in modo ordinato sulla loro stella madre presentano una rotazione pari a quella del periodo orbitale ruotando troppo lentamente per subire una deformazione simile.
Dati questi vincoli, tre esopianeti in particolare sono da considerarsi buoni candidati per possedere gli anelli: Kepler 87c e Kepler 117c entrambi più grandi di Nettuno, ma con masse molto basse di appena 6,4 e 7,5 volte superiori a quelle della Terra.
Il terzo, HIP 41378f è stato annunciato mentre Piro e Vissapragada stavano finendo il loro studio trovandolo “particolarmente eccitante” nel contesto delle loro scoperte, dato che soddisfa perfettamente tutti i loro vincoli. In effetti, il documento che annunciava la scoperta menzionava persino gli anelli come un potenziale modo di spiegare le strane proprietà dell’esopianeta.
I nostri strumenti attuali non sono abbastanza potenti per vedere gli anelli, ma il team ritiene che il telescopio spaziale James Webb, che verrà lanciato il prossimo anno, sarà all’altezza del compito. Sperano che osservazioni più dettagliate aiuteranno a capire il mistero di almeno alcuni super-leggeri – e infine ci riveleranno in dettaglio i gloriosi anelli degli esopianeti.
La conferma della presenza di anelli rocciosi in alcuni casi non sarebbe solo una straordinaria nuova scoperta, ma fornirà anche importanti informazioni su questi pianeti“, hanno scritto nel loro articolo.
Fonte: https://www.sciencealert.com/the-puffiness-of-super-puff-planets-could-be-huge-rings

Nessun rischio per la Terra dall’asteroide 52768 (OR2 1998) che passerà vicino alla Terra il prossimo mese

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Il 29 aprile, un asteroide di grandezza stimata tra i due ed i tre chilometri si avvicinerà alla Terra ma non costituirà nessun pericolo per il nostro pianeta. l’asteroide si chiama 52768 (OR2 1998), è stato individuato nel 1998 ed è “abbastanza grande da causare effetti globali“, dichiarò la NASA, quando l’asteroide fu scoperto.

L’enorme roccia spaziale si avvicinerà a quasi 6 milioni di chilometri dalla Terra, muovendosi ad una velocità di quasi 30.000 chilometri l’ora.
Il flyby dovrebbe avvenire mercoledì 29 aprile alle 4:56 ET, secondo il Center for Near Earth Object Studies della NASAla divisione dell’agenzia spaziale americana che traccia gli oggetti che potrebbero scontrarsi con la Terra.
L’asteroide è stato classificato come un oggetto potenzialmente pericoloso perché passa vicino all’orbita terrestre, ma non è attualmente nell’elenco della NASA di potenziali eventi di impatto terrestre futuri. Questi vengono tracciati e monitorati dal Sentry System della NASA, “un sistema di monitoraggio delle collisioni altamente automatizzato che esegue la scansione continua del catalogo di asteroidi più aggiornato alla ricerca di possibilità di impatto futuro con la Terra nei prossimi 100 anni“.
52768 (OR2 1998) è l’asteroide più grande che passerà nei pressi del nostro pianeta nei prossimi due mesi, ma non è il più grande di sempre.
Tale onore appartiene all’asteroide 3122 Florence (1981 ET3), che sfiorò la Terra rischiando al collisione 1 settembre 2017. Questo asteroide si avvicinerà di nuovo al nostro pianeta il 2 settembre 2057. Si stima che le sue dimensioni siano comprese tra i quattro ed i sette chilometri di larghezza.
Oltre a localizzare gli oggetti vicino alla Terra che potrebbero rappresentare una minaccia, la NASA e altre agenzie hanno attualmente in corso missioni per studiare gli asteroidi vicini alla Terra e studiare sistemi per mitigare il pericolo di una collisione.
Conoscere le dimensioni e l’orbita di un asteroide è fondamentale, in quanto consente di prevedere le traiettorie degli oggetti che passano vicino alla Terra.
Quest’anno, il nuovo Osservatorio Vera C. Rubin andrà online e consentirà la scoperta di decine di migliaia di asteroidi su orbite che potrebbero avvicinarli alla Terra, come ha spiegato Ed Lu, direttore esecutivo dell’Asteroid Institute e ex astronauta della NASA.
È un momento entusiasmante per la difesa planetaria perché siamo sull’orlo di un’inondazione assoluta di nuove osservazioni che ci consentiranno di rintracciare 10 volte più asteroidi di quanto non abbiamo mai tracciato prima“, ha detto Lu.
Missioni come OSIRIS-REx della NASA e Hayabusa2 della JAXA stanno esplorando asteroidi nel nostro sistema solare e mirano a riportare campioni sulla Terra nei prossimi anni. La Near-Object Object Camera, chiamata NEOCam, sta caratterizzando gli oggetti vicino alla Terra.
Sono previste anche altre missioni. Il programma DART della NASA, che sta per Double Asteroid Redirection Test, è un test di difesa planetaria per impedire a un asteroide di colpire la Terra. DART, che ha una finestra di lancio aperta nel luglio 2021, visiterà un sistema binario di asteroidi e tenterà di deviarne la traiettoria.
DART si schianterà contro un moonlet (un piccolo satellite naturale) dell’asteroide Didymos, di dimensioni paragonabili a un asteroide che potrebbe costituire una minaccia.
La missione complementare Hera, dell’Agenzia spaziale europea, misurerà con precisione l’eventuale deviazione che subirà l’asteroide più grande e studierà il cratere creato dall’impatto di DART sul moonlet.

La particella d-star hexaquark è il nuovo candidato per la materia oscura

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Un team di ricercatori ha identificato una particella subatomica che avrebbe potuto formare la “materia oscura” nell’Universo durante il Big Bang.
Sembra che fino all’80% della materia presente nell’universo sia materia oscura, ma nonostante molti decenni di studio, la sua origine fisica è rimasta un enigma. Sebbene non possa essere vista direttamente, gli scienziati sanno che esiste perché interagisce attraverso la gravità con la materia barionica che forma stelle, pianeti e galassie, influenzandola. La materia oscura è composta da particelle che non assorbono, riflettono o emettono luce.
Ora, i fisici nucleari dell’Università di York stanno proponendo un nuovo candidato per la materia oscura, una particella scoperta di recente chiamata d-star hexaquark.
Quersta particella è composta da sei quark: quelle particelle fondamentali che di solito si combinano in gruppi di tre per formare protoni e neutroni. È importante sottolineare che i sei quark in una d-star producono un bosone, il che significa che quando sono presenti molte d-star, queste possono combinarsi insieme in modi molto diversi rispetto ai protoni e ai neutroni.
Il gruppo di ricerca di York suggerisce che nelle condizioni presenti poco dopo il Big Bang, molti d-star hexaquark. avrebbero potuto raggrupparsi mentre l’universo si raffreddava e si espandeva per formare il quinto stato della materia: il condensato di Bose-Einstein.
Il dott. MIkhail Bashkanov e il professor Daniel Watts del dipartimento di fisica dell’Università di York hanno recentemente pubblicato la prima valutazione della fattibilità di questo nuovo candidato alla materia oscura.
L’origine della materia oscura nell’universo è una delle maggiori domande della scienza che fino ad ora è rimasta senza risposta. I nostri primi calcoli indicano che i condensati delle d-star sono un nuovo candidato possibile per la materia oscura. Questo nuovo risultato è particolarmente eccitante poiché non richiede concetti nuovi per la fisica“, ha spiegato Watts.
Il co-autore dell’articolo, Mikhail Bashkanov ha dichiarato che “Il prossimo passo per stabilire se questo nuovo candidato per la materia oscura è attendibile sarà quello di ottenere una migliore comprensione di come interagiscono le stelle D, quando si attraggono e quando si respingono.
Stiamo conducendo nuove misurazioni per creare stelle a D all’interno di un nucleo atomico e vedere se le loro proprietà sono diverse rispetto a quando sono nello spazio libero“.
L’articolo “A new possibility for light-quark dark matter” è stato pubblicato su the Journal of Physics G Letters.
 

Ulteriori informazioni: M Bashkanov et al, A new possibility for light-quark dark matter, Journal of Physics G: Nuclear and Particle Physics (2020). DOI: 10.1088 / 1361-6471 / ab67e8

Gli astronomi hanno registrato la più grande esplosione mai vista nell’universo

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A centinaia di milioni di anni luce di distanza, vi è un buco nero supermassiccio che si trova al centro di un ammasso di galassie chiamato Ofiuco. Sebbene i buchi neri siano famosi per assorbire il materiale circostante, a volte espellono il materiale attraverso dei getti. Questo buco nero è il luogo di un’esplosione quasi inimmaginabile, avvenuta quando venne espulsa un’enorme quantità di materiale.
L’ammasso di galassie di Ofiuco è a circa 390 milioni di anni luce di distanza. Al centro dell’ammasso c’è una galassia con un buco nero supermassiccio. Gli astronomi che utilizzavano i dati dell’Osservatorio a raggi X Chandra e del veicolo spaziale XMM Newton dell’ESA hanno assistito all’esplosione del buco nero. Per questi studi si sono anche serviti delle osservazioni radio del Murchison Widefield Array (MWA) in Australia e del Giant Metrewave Radio Telescope (GMRT) in India.
Il team che ha condotto questo studio, ha pubblicato i risultati su The Astrophysical Journal. Il loro articolo è intitolato “Scoperta di un gigantesco radio fossile nel cluster della galassia di Ofiuco“. L’autore principale del documento è Simona Giacintucci del Naval Research Laboratory di Washington, DC.
Questa esplosione ha avuto una potenza enorme, un po’ come la potenza dell’eruzione del monte Sant’Elena nel 1980 ha distrutto la cima della montagna “, ha dichiarato la Giacintucci, autrice principale di questo studio.
Il buco creato dall’esplosione si chiama radio fossile. È stato generato dai getti di materiale surriscaldato espulsi dal buco nero e scontratisi con il materiale circostante. Questi getti sono il risultato di ciò che gli astronomi chiamano nuclei galattici attivi, o AGN. In questo caso, l’area coinvolta è stata individuata per la prima volta nelle immagini di Chandra, dalle quali si poteva osservare un insolito bordo curvo; queste immagini sono state inserite in un documento del 2016.
Gli autori di quel documento si chiedevano se un buco nero potesse produrre un bordo curvo. L’idea venne successivamente scartata poiché pensarono che nessun buco nero potesse essere così potente da creare un bordo di quel tipo. In quel documento, affermavano: “Concludiamo che questa caratteristica è molto probabilmente dovuta alla dinamica del gas associata a una fusione“.
Nel lavoro pubblicato di recente, invece, gli autori sono giunti ad una conclusione diversa. “Sembra essere un fossile molto vecchio del più potente sfogo di AGN visto in qualsiasi ammasso di galassie“.
La quantità di energia liberata nell’esplosione è sbalorditiva. Ha rilasciato cinque volte più energia rispetto al precedente detentore del record e centinaia di migliaia di volte in più rispetto ai tipici cluster.
Secondo questo nuovo documento, “L’AGN è attualmente “affamato” di gas fresco perché il picco di densità del gas viene spostato dallo sloshing del nucleo“, affermano gli autori. “Lo sloshing stesso avrebbe potuto essere scatenato da questa straordinaria esplosione se si fosse verificato in un nucleo di gas asimmetrico“.
Gli astronomi usano il termine “sloshing” per descrivere lo spostamento del gas. È simile a un liquido che scorre in un contenitore. Lo sloshing è di solito innescato dalla fusione di due ammassi di galassie, ma gli astronomi pensano che in questo caso potrebbe averlo causato l’esplosione.
Mentre il precedente documento del 2016 era basato esclusivamente sui dati dei raggi X di Chandra, il nuovo documento ha utilizzato i dati dei raggi X dell’XMM Newton dell’ESA per individuare e confermare l’insolita caratteristica curva. Sono stati anche usati i dati radio di due osservatori per esaminare ulteriormente la regione.
Questi dati hanno confermato che il bordo curvo è davvero il bordo di un gigantesco buco fossile radio. Le chiavi di ciò sono le emissioni radio fuori del buco, che sono state accelerate a velocità quasi relativistiche. Una fusione non avrebbe potuto farlo.
Come spesso accade in astrofisica, abbiamo davvero bisogno di osservazioni a più lunghezze d’onda per comprendere veramente i processi fisici in atto“, ha affermato Melanie Johnston-Hollitt, coautrice del documento e membro dell’International Center for Radio Astronomy in Australia. “Grazie alle informazioni combinate dai raggi X e dai radiotelescopi abbiamo osservato questi dati straordinari, ma saranno necessari più elementi per rispondere alle molte domande riguardanti questo tema“.
Fonte: https://www.universetoday.com/145196/astronomers-have-recorded-the-biggest-explosion-ever-seen-in-the-universe/

Nuovo coronavirus, in Italia un totale di 2.502 persone hanno contratto il virus; 79 i morti e 160 i guariti

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Nelle ultime 24 ore, ben 466 nuove persone sono state riscontrate positive al test per il nuovo coronavirus, portando il totale degli infettati nel nostro paese a 2.502. Di questi, 79 sono i decessi finora registrati e 160 i pazienti dichiarati guariti.
Al momento, quindi, sono 2.263 le persone infette dal coronavirus. C’è da ricordare che, in Italia, attualmente non vengono effettuati i tamponi su persone asintomatiche, i numeri effettivi potrebbero quindi essere diversi.
Il commissario della Protezione Civile, Angelo Borrelli ha comunicato anche che ci sono “1000 persone in isolamento domiciliare, 1034 ricoverati con sintomi e 229 in terapia intensiva“.
Stiamo valutando l’opportunità di estendere la zona rossa sulla base di alcuni criteri epidemiologici, geografici e di fattibilità della misura“. Lo ha detto il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro nella stessa conferenza stampa parlando dell’area del bergamasco.

Il governo keniota ha sospeso i voli da e per il nord Italia, ha dichiarato il comitato nazionale di risposta alle emergenze del paese in una nota. La sospensione è stata decisa dopo aver consultato l’ambasciata italiana a Nairobi e le parti interessate locali ed è in seguito al nuovo focolaio di coronavirus in quella parte d’Italia.

A Roma un poliziotto è risultato positivo ed è ricoverato allo Spallanzani insieme ad altri 4 casi e alla coppia cinese ormai guarita. Nella capitale, viene sottolineato, non c’è un vero e proprio focolaio e si tratta solo di contagi ‘importati’.
In Lombardia è risultato positivo e ricoverato il consigliere regionale Alessandro Mattinzoli.
Gli eventi sportivi professionistici in Spagna si terranno a porte chiuse, senza spettatori, ha annunciato il ministro della salute del paese.
Una scuola è stata evacuata a Pomezia e sono state sospese le lezioni universitarie alla Sapienza. Questa settimana sarà decisiva per capire l’andamento dell’epidemia sul territorio italiano, secondo gli esperti. Positive anche due pazienti a Latina Fiuggi. Ua scuola è stata chiusa anche a Castel madama dove sono in corso accertamenti su alcune persone.
Ci sono 106 casi del nuovo coronavirus negli Stati Uniti, secondo i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie, così come i governi statali e locali.
L’epidemia di coronavirus ‘sta diventando sempre piu’ complessa. Il Covid-19 non è Sars, non è Mers e non è influenza. E’ un virus unico con caratteristiche uniche è per questo la crisi ‘non puo’ essere risolta dall’organizzazione della sanità da sola o da un paese da solo, serve collaborazione e coordinamento globale’. Lo ha detto Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), durante la conferenza stampa di aggiornamento sull’epidemia di coronavirus Covid-19, ricordando che ‘sono stati varati protocolli su quello che deve essere fatto e incoraggiamo tutti i paesi ad attenersi’. Rispetto alla normale influenza, ha spiegato il numero uno dell’Oms, il coronavirus ‘è più grave’, perché a livello globale ‘circa il 3,4% dei contagiati è morto, mentre per l’influenza stagionale il tasso di mortalità è inferiore all’1%’, e, ‘mentre abbiamo vaccini per l’influenza, al momento per il Covid-19 non ci sono vaccini e terapie specifiche per la cura, anche se a livello globale oltre venti vaccini sono in fase di sviluppo’.
 

Il primo ghetto ebraico della storia

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Siamo nel 1508 a Cambrai una cittadina francese al confine con il Belgio. Qui in tutta segretezza viene stipulata un’alleanza anti veneziana tra le maggiori potenze europee (Sacro Romano Impero, Francia e Spagna). La coalizione dopo aver sbaragliato le forze veneziane nella battaglia di Agnadello e averne distrutto la flotta nella battaglia di Polesella, giungono quasi sulle coste di Venezia.
Molti abitanti di Mestre, tra cui numerosi ebrei cercarono rifugio in Venezia. La Serenissima aveva un disperato bisogno di soldi per continuare la guerra contro la Lega di Cambrai (il conflitto durerà fino al 1511), gli ebrei avevano bisogno di un posto sicuro dove rifugiarsi. Gli interessi coincidenti fecero si che Venezia non applicasse la legge che permetteva agli ebrei un limite di soggiorno di quindici giorni in città.
La comunità ebraica iniziò a prosperare. Se però essi erano riusciti momentaneamente a sottrarsi alla furia distruttrice della guerra, la loro tranquillità fu messa a dura prova dalla predicazione dei francescani che infervoravano le masse asserendo che Venezia avrebbe perso il conflitto se continuava ad ospitare gli uccisori di Cristo.
Nel frattempo il Papa che aveva sostenuto la Lega di Cambrai si era convinto che il maggior pericolo per i suoi interessi temporali proveniva dalla Francia e con un disinvolto voltafaccia aveva deciso di appoggiare Venezia. La Serenissima pertanto, per ovvie ragioni politiche e militari non poteva ignorare la profonda avversione delle gerarchie cattoliche nei confronti degli ebrei.
Nel Consiglio cittadino iniziarono ad emergere profondi sentimenti antisemiti. Uno degli interpreti maggiori di questi sentimenti era il nobile Zaccaria Dolfin che il 26 marzo 1516 lanciò un durissimo attacco contro gli ebrei accusandoli di essere un corpo estraneo della società veneziana e di essere responsabili di tutte le disavventure ed i mali della città lagunare.
Dolfin propose la sua soluzione: raccogliere tutti gli ebrei in una zona della città delimitata da varchi che rendessero possibili il controllo sugli accessi. Tre giorni dopo il 29 marzo veniva emanato un decreto che istituiva un istituto ed una parola nuova: il ghetto.
Il piccolo quartiere ebraico che avrebbe avuto una triste diffusione in tutto il mondo nei secoli a seguire era recintato e con solo quattro varchi che venivano sbarrati a mezzanotte e riaperti la mattina. Due barche (pagate forzatamente dagli ebrei) pattugliavano nelle ore notturne i canali per controllare il rispetto di questa segregazione.
Pur costretti a vivere in uno spazio delimitato e che con il tempo si rivelerà angusto, il ghetto rappresentava almeno un posto sicuro per gli ebrei dove potevano svolgere in relativa sicurezza i loro riti religiosi ed i loro affari. Inoltre la Serenissima applicò le norme più restrittive con una certa flessibilità perché era cosciente dell’importanza degli ebrei non soltanto nel finanziamento delle numerose guerre intraprese dai veneziani ma anche del loro ruolo strategico all’interno dello sviluppo economico della città.
Il ghetto non era però l’unica misura restrittiva a cui erano costretti gli ebrei, quando uscivano dal loro quartiere dovevano portare una rotella gialla cucita sugli abiti successivamente sostituita da una berretta dello stesso colore. Inoltre nel periodo di Pasqua non potevano uscire dal ghetto per non incorrere nelle ire di coloro che li ritenevano responsabili dell’assassinio di Cristo.
L’idea del ghetto piacque molto a Papa Carafa che salito al soglio pontificio nel 1555 con il nome di Paolo IV né istituì uno anche a Roma, il secondo ghetto più antico del mondo.

Come funzionano i vaccini

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La COVID19, la malattia provocata dal virus SARS-COC-2, il cosiddetto nuovo coronavirus, è sul punto di diventare una pandemia a tutti gli effetti.
Sessantacinque i paesi dove si sono registrati casi conclamati del nuovo cornonavirus, circa 90.000 casi di contagio ufficiali in tutto il mondo con oltre 3.000 morti. Particolarmente difficile la situazione italiana, terzo paese al mondo per numero di contagi accertati, con quasi 1,700 infetti e 34 morti.
Si tratta di una crisi sanitaria globale, sociale ed economica che sarà destinata ad accompagnarci nella migliore delle ipotesi fino ad estate inoltrata. I sistemi sanitari nazionali saranno messi sotto stress (in Italia questo è già avvenuto per i reparti di terapia intensiva del Nord), le abitudini delle persone sconvolte da un virus per cui al momento non esistono cure efficaci acclarate.
Per COVID19 non esiste ancora l’arma principale per contrastare gli agenti patogeni virali ovvero il vaccino.
Ma cosa è e come funziona un vaccino?
Il vaccino è una preparazione che utilizza lo stesso virus responsabile della malattia, opportunamente trattato, allo scopo di fornire un’immunità acquisita. Il vaccino utilizza la memoria immunologica del sistema immunitario di una persona consentendo all’organismo di sviluppare un sistema di difesa contro l’agente patogeno primadi venire a contatto con esso.
Esistono varie tipologie di vaccino:

  • vaccini vivi attenuati (come per morbillo, rosolia, parotite, varicella, febbre gialla e tubercolosi): prodotti a partire da agenti infettivi resi non patogeni
  • vaccini inattivati (come per l’epatite A, la poliomielite e l’antinfluenzale split): prodotti utilizzando virus o batteri uccisi tramite esposizione al calore oppure con sostanze chimiche
  • vaccini ad antigeni purificati (come per la pertosse acellulare, l’antimeningococco e l’antinfluenzale a sub-unità): prodotti attraverso raffinate tecniche di purificazione delle componenti batteriche o virali
  • vaccini ad anatossine (come per tetano e difterite): prodotti utilizzando molecole provenienti dall’agente infettivo, non in grado di provocare la malattia ma sufficienti ad attivare le difese immunitarie dell’organismo
  • vaccini a Dna ricombinante (come per epatite B e meningococco B): prodotti clonando e producendo una grande quantità di un determinato antigene.

I vaccini attivano una risposta immunologica del tutto simile a quella che avviene spontaneamente ogni qualvolta il nostro organismo è invaso da materiale biologico estraneo. La differenza sostanziale è che questa risposta immunitaria artificiale avviene al netto della malattia e delle sue complicanze.
Il principio alla base di questo meccanismo è la memoria immunologica: la capacità del sistema immunitario di ricordare quali microrganismi estranei hanno attaccato il nostro organismo in passato e di rispondere velocemente (l’assenza di una memoria immunologica è il motivo per cui i bambini piccoli vanno incontro alle malattie infettive più frequentemente dell’adulto).
Un soggetto non vaccinato impiega anche fino a due settimane per sviluppare una risposta immunitaria adeguata. Un periodo decisamente sufficiente affinché la malattia produca danni seri e talvolta irreversibili.
Di norma occorre vaccinarsi prima di entrare in contatto con un agente patogeno ma ci sono vaccini che possono essere somministrati anche dopo l’avvenuta infezione. E’ il caso di quello contro la rabbia (l’agente patogeno che senza il vaccino avrebbe una letalità del 100% dei casi). Questo perché   il virus della rabbia necessita di un certo tempo per raggiungere il sistema nervoso e causare i sintomi della malattia, tempo durante il quale il vaccino è in grado di stimolare una risposta immunitaria che elimina il virus prima che la malattia diventi sintomatica.
Un discorso a parte meritano i vaccini anti influenzali. Il virus dell’influenza muta ogni anno per questo è necessario predisporre ogni stagione un vaccino diverso che inglobi su indicazione dell’Organizzazione mondiale della Sanità i ceppi che si prevede circoleranno maggiormente durante il periodo invernale.
Per COVID19 siano ancora lontani dalla messa a punto  di un vaccino. E’ di qualche giorno fa la notizia che la società farmaceutica statunitense  Moderna Inc. ha spedito il primo lotto del suo vaccino contro il coronavirus  ai ricercatori del governo degli Stati Uniti, che lanceranno i primi test umani per verificare se il vaccino sperimentale possa aiutare a contrastare l’epidemia originaria della Cina.
La sperimentazione dovrebbe partire a fine aprile su 25 volontari sani ma la comunità scientifica internazionale al momento è fortemente dubbiosa che un vaccino efficace possa essere messo in circolazione nel 2020.

Materia oscura, il progetto Euclide

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Cos’è la materia oscura, perché supponiamo che esista senza averla mai osservata né misurata in nessun esperimento?

Gran parte della massa dell’universo, secondo astronomi ed astrofisici, è composta da materia oscura, in quantità molto maggiore della materia ordinaria che compone galassie, stelle, pianeti ed esseri umani e per comprenderla dobbiamo studiarne il comportamento e dove si nasconde nel cosmo.

La materia oscura viene chiamata appunto “oscura” perché non interagisce con le radiazioni elettomagnetiche, dunque è invisibile ai nostri occhi e ai nostri strumenti e per poterla osservare avremo bisogno di uno strumento particolare, un telescopio che mapperà la struttura dell’universo e ci insegnerà molte cose su questa massa nascosta dandoci inoltre qualche indizio sull’energia oscura. Questo nuovo telescopio chiamato Euclide sarà realizzato dall’ESA.

Il coordinatore scientifico di Euclide, Leida Henk Hoekstra, spiega come la scienza si è accorta dell’esistenza della materia oscura: “Stiamo orbitando attorno al centro della nostra galassia a 220 chilometri al secondo”, afferma Hoeksta. Una velocità straordinaria, che fortunatamente non avvertiamo. Tuttavia, sta succedendo qualcosa di strano. “In base al numero di stelle nella nostra Via Lattea, le stelle ai margini della Via Lattea dovrebbero possedere una velocità molto più bassa, tuttavia si muovono velocemente quanto il Sole. Eppure queste stelle non vengono espulse dalla Via lattea e lanciate nell’universo. Qualcosa le tiene insieme”.

La spiegazione a questo effetto può essere che esiste della materia che non possiamo vedere ma che esercita una forza di attrazione gravitazionale extra, in parole semplici la materia oscura.

Hoekstra aggiunge: “O, in alternativa, la teoria della gravità è sbagliata. Ma tutto indica che esiste la materia oscura, solo che ancora non sappiamo cosa sia. Ciò che sappiamo è che non interagisce con la luce“.

Ma le stranezze non finiscono qui, dal 1998 sappiamo che l’universo si espande in maniera accelerata e per spiegare questo meccanismo è necessario aggiungere un ingrediente ancora più strano: l’energia oscura.

Perché abbiamo bisogno di Euclide

Abbiamo alcune lacune nella conoscenza e queste non possono essere colmate con osservazioni esistenti. Pertanto, l’unica strada da percorrere è eseguire misurazioni migliori“. Ed è qui che entra in nostro soccorso Euclide, il satellite che l’Agenzia spaziale europea lancerà nel 2022.

Posto a una distanza di 1,5 milioni di chilometri dalla Terra, Euclide mapperà un terzo del cielo. Quindi potremo rispondere a domande su come si forma la struttura nell’universo sotto l’influenza della gravità o come viene distribuita tutta la materia nell’universo e come cambia nel tempo. Hoekstra aggiunge: “Una risposta all’ultima domanda ci consentirà di testare direttamente i modelli per l’energia oscura“. Hoekstra è uno dei quattro cosmologi coordinatori e leader del progetto ‘weak lensing” sul quale afferma: “investigheremo su come la materia oscura distorce lo spazio-tempo“.

L’universo è come un serbatoio d’acqua pieno di monete

Ma in che modo?

Hoekstra continua: “La massa distorce lo spazio-tempo attorno ad essa. Puoi misurare quell’effetto, anche se non riesci a vedere la materia oscura“.

Hoeskra utilizza un’analogia illuminante per spiegare come la massa genera la distorsione. “Confrontiamo lo spazio-tempo con un serbatoio di acqua contenente una moneta. Se tocchi il serbatoio, l’acqua si increspa e sembra deformare la moneta. Scatta diverse foto della moneta e vedrai che la moneta appare diversa ogni volta“.

Supponi di avere un sacco di monete e sai che sono originariamente rotonde, così puoi capire quanta acqua c’è in quel serbatoio“. Con la materia oscura è esattamente lo stesso, dice il cosmologo. “La materia oscura provoca una leggera deformazione delle galassie sullo sfondo. Potremo misurare questa distorsione con Euclide calcolando la media delle forme del maggior numero possibile di galassie“.

Più ce n’è meglio è

Più materia oscura c’è, più le galassie sullo sfondo appariranno distorte. In questo modo, si potrà determinare la distribuzione della materia oscura nell’universo. Ma prima, sono necessarie molte immagini nitide. “Più galassie misuriamo, più affidabili saranno i risultati. Quindi stiamo parlando di big data, non solo per la quantità di dati ma anche per la loro complessità. Il numero di immagini che il telescopio Hubble ha raccolto negli ultimi 25 anni è quello che raccoglieremo in pochi giorni“.

La più grande collaborazione di astronomia di sempre

Non solo la raccolta di dati sarà grande, lo sarà anche il numero degli astronomi coinvolti nel progetto Euclide.

Sarà il più grande team di astronomia del mondo, con circa 1500 scienziati, ingegneri e tecnici. Tuttavia, il numero di astronomi che beneficeranno di Euclide sarà molto più grande: i dati saranno infine pubblicati e di libero accesso e potranno essere utilizzati per vari scopi, come scoprire i quasar più distanti e identificare stelle massicce nelle galassie vicine“. All’inizio, i dati saranno disponibili solo per i partecipanti a Euclide, dopodiché avremo i cosiddetti rilasci di dati. Per dare alla gente un’idea dei primi risultati, avremo anche alcune versioni rapide. E quelli saranno fenomenali”, afferma Hoekstra.

Fonti: Phys.org; Galileo.

Assistere alla nascita di piccoli universi 46 volte: lo spazio è un’informazione codificata?

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Come si è formato l’universo?
In che modo la meccanica quantistica, lo studio delle cose più piccole sono in relazione con la gravità e lo studio delle cose grandi?
Queste sono alcune delle domande su cui i fisici si sono soffermati da quando Einstein ha esposto la sua teoria della relatività.
Le formule mostrano che piccoli universi entrano ed escono dall’universo principale. Tuttavia, non ci rendiamo conto o comunque, in quanto esseri umani, non riusciamo a sperimentare questo fenomeno. Per calcolare come il fenomeno tenda a verificarsi, i fisici teorici hanno ideato la cosiddetta gravità JT, che trasforma l’universo in un modello simile a un giocattolo con una sola dimensione di tempo o spazio. Questi parametri limitati consentono di avere un modello grazie al quale gli scienziati possono testare le proprie teorie.
Basandosi su alcuni studi fatti precedentemente, il professor Kazumi Okuyama della Shinshu University, in collaborazione con Kazuhiro Sakai dell’Università Meiji Gakuin, ha iniziato a dimostrare che ci potrebbe essere un collegamento tra la gravità JT, l’equazione di KdV e il ciclo macroscopico, provando così che la gravità e la meccanica quantistica sono in relazione tra di loro.
Nel corso di questo studio sono riusciti a calcolare 46 volte la nascita di piccoli universi, cosa che non era mai stata fatta in precedenza, poiché essa più viene calcolata, più rende le cose complesse. Prima di questo nuovo studio, Peter Zograf era riuscito a calcolare solo 20 volte la nascita di piccoli universi.
Negli anni 90 del ‘900, si è cominciato ad associare l’equazione matematica di KdV, formulata alla fine del XIX secolo, alla gravità. L’equazione di KdV è stata utilizzata per la prima volta per mostrare come si comportano le onde marine, ad esempio all’interno dei canali navigabili dell’Olanda, per osservare i solitoni (onde solitarie auto-rinforzanti causate dalla concomitanza, con cancellazione reciproca, tra effetti non lineari e dispersivi in un mezzo di propagazione) e per osservare come una cresta di un’onda d’acqua continui a rimanere invariata per lungo tempo quando non viene disturbata. Sempre negli anni ’90, si è associato il ciclo macroscopico alla gravità.
Le onde e la gravità sono ritenute comparabili grazie al modo in cui si manifestano. Il principio olografico è stato introdotto da Gerard ‘t Hooft come un modo per capire come funzionano la gravità e la meccanica quantistica.
Il professor Okuyama è stato in grado di dimostrare in questo studio che la gravità JT, l’equazione di KdV e l’anello macroscopico sono strettamente collegati, indicando che la meccanica quantistica e la gravità sono effettivamente collegate olograficamente in questo modello. Okuyama spera di poter continuare la ricerca per elaborare un metodo per calcolare la nascita di piccoli universi non solo nel “modello giocattolo” ma nell’universo esistente.
Riferimenti:“Gravità JT, equazioni di KdV e operatori di loop macroscopici” di Kazumi Okuyama e Kazuhiro Sakai, 24 gennaio 2020, Journal of High Energy Physics. DOI: 10.1007 / JHEP01 (2020) 156
FONTE: https://scitechdaily.com/witnessing-the-birth-of-baby-universes-46-times-space-is-information-encoded-in-a-lower-dimensional-boundary/