Ora conosciamo il patrimonio genetico di una delle vittime che perirono tragicamente quando la città di Pompei fu devastata da un’eruzione vulcanica quasi 2000 anni fa. Gli scienziati sono riusciti a sequenziare il genoma di un uomo che era nella sua mezza età quando morì nella casa pompeiana dell’artigiano, rivelando il suo profilo genetico e il fatto che era stato affetto da tubercolosi durante la sua vita.
L’eruzione del Vesuvio è considerata una delle catastrofi vulcaniche più devastanti della storia umana. Nell’anno 70 d.C., il vulcano esplose uccidendo migliaia di residenti delle vicine città di Ercolano e Pompei e di altri insediamenti.
Queste vittime sono state uccise dall’intenso calore delle ondate piroclastiche con cui il vulcano ha devastato i suoi dintorni, o soffocate dal gas, dalla cenere e dalla pomice che sono poi piovute dal cielo.
In precedenza si era pensato che questo tipo di morte non permettesse il recupero del DNA delle vittime per il sequenziamento, poiché temperature così elevate distruggono efficacemente la matrice ossea in cui risiede il DNA.
D’altra parte, la cenere che ha ricoperto le vittime ne ha preservato i resti dalla decomposizione completa per quasi due millenni, fungendo da scudo contro i fattori ambientali che inducono un ulteriore degrado, come l’ossigeno.
I precedenti tentativi di analizzare il DNA degli antichi pompeiani hanno utilizzato tecniche di reazione a catena della polimerasi, restituendo brevi segmenti di DNA da vittime umane e animali, suggerendo che almeno alcune informazioni genomiche erano sopravvissute alle devastazioni del vulcano e del tempo.
I recenti progressi nel sequenziamento del genoma, tuttavia, hanno aumentato notevolmente la quantità di informazioni che possono essere recuperate da frammenti di DNA che in precedenza sarebbero stati troppo danneggiati per essere sequenziabili.
Nel loro nuovo studio, l’archeologo Gabriele Scorrano dell’Università di Roma ed i suoi colleghi hanno tentato di applicare queste tecniche ai resti di due vittime del Vesuvio.
I due furono ritrovati in una stanza di un edificio oggi conosciuto come la Casa del Fabbro, o Casa dell’Artigiano. Il primo individuo era un uomo, di età compresa tra i 35 ed i 40 anni al momento della morte, ed era alto circa 164,3 centimetri.
Il secondo individuo era una donna, di oltre 50 anni quando morì, che era alta circa 153,1 centimetri. Entrambe queste altezze sono coerenti con le medie romane dell’epoca.
Sopra: i due individui, sdraiati mentre morivano nella Casa dell’Artigiano.
Da questi individui, i ricercatori hanno estratto il DNA dall’osso petroso del cranio, una delle ossa più dense del corpo, e quindi tra quelle che hanno maggiori probabilità di conservare DNA vitale. Utilizzando metodi identici, il materiale è stato estratto e sequenziato da entrambe le ossa. Solo l’osso dell’uomo, tuttavia, ha prodotto DNA sufficiente per un’analisi ragionevole.
Il team ha confrontato il campione con i genomi di 1.030 individui eurasiatici occidentali antichi e 471 moderni. I risultati suggeriscono che l’uomo fosse italiano, con la maggior parte del suo DNA coerente con persone del centro Italia, sia in epoca antica che moderna.
Tuttavia, c’erano alcuni geni che non si vedono nelle persone della terraferma italiana, ma si trovano nell’isola di Sardegna. Questo, dicono i ricercatori, suggerisce che c’era un alto livello di diversità genetica in tutta la penisola italiana durante il periodo in cui l’uomo è vissuto.
Questo ha senso, visto quanto si spostavano gli antichi romani e quanti schiavi importavano da altre regioni. Ma l’elevata percentuale di geni associati alla popolazione italiana suggerisce che l’uomo fosse italiano, non uno schiavo.
È interessante notare che il materiale genetico ottenuto dal suo osso petroso mostra prove della presenza del DNA del Mycobacterium tuberculosis, il batterio che causa la tubercolosi. Uno studio attento delle sue vertebre suggerisce che fosse affetto da tubercolosi spinale, una forma particolarmente distruttiva della malattia.
Ciò è coerente con documenti scritti più o meno contemporanei di Aulo Cornelio Celso, Galeno, Celio Aureliano e Aretaeus di Cappadocia. L’emergere di uno stile di vita urbano e il conseguente aumento della densità di popolazione durante l’Impero Romano facilitarono la diffusione della tubercolosi che, probabilmente non era una malattia rara in quel periodo.
Nessuno di questi risultati è necessariamente sorprendente, ma il fatto che siano stati ottenuti è incredibile e la svolta significa che potremmo avere una nuova finestra sulla vita dei pompeiani, la cui morte è stata così incredibilmente sorprendente.
“Il nostro studio – anche se limitato a un individuo – conferma e dimostra la possibilità di applicare metodi paleogenomici per studiare i resti umani da questo sito unico“, scrivono i ricercatori nel loro articolo.
“Le nostre scoperte iniziali forniscono una base per promuovere un’analisi intensiva di individui pompeiani ben conservati. Supportati dall’enorme quantità di informazioni archeologiche raccolte nel secolo scorso per la città di Pompei, le loro analisi paleogenetiche ci aiuteranno a ricostruire il stile di vita di questa affascinante popolazione del periodo imperiale romano“.
La ricerca è stata pubblicata su Scientific Reports.