Sempre più aspre le discussioni tra gli scienziati riguardo le caratteristiche necessarie per l’abitabilità degli esopianeti

Ancora non sappiamo con precisione quali siano le caratteristiche necessarie affinché un pianeta sia realmente adatto ad ospitare la vita.

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Poco meno di un mese fa, gli scienziati hanno annunciato di avere individuato in K2-18b un esopianeta a 110 anni luce da noi con vapore acqueo nell’atmosfera. Fondamentalmente, il pianeta si trova posto nella “zona abitabile” della sua stella (la regione attorno a una stella che è abbastanza temperata per permettere la presenza di acqua liquida sulla sua superficie).

L’uso di questa definizione è, però, piuttosto controverso. Anche se è abbastanza certo che su K2-18b gli esseri umani non potrebbero vivere, essendo un pianeta sub-nettuniano, sono in corso accese discussioni tra gli esperti sul fatto se sia possibile che una qualche forma di vita microbica estremofila possa esservisi sviluppata.

insomma, K2-18b probabilmente è nella zona abitabile della sua stella ma non si trova un accordo sulla possibilità che sia davvero abitabile.

Questo disaccordo è in parte dovuto al fatto che non c’è un consenso sul tipo di pianeta che è K2-18b, ma anche anche al fatto che ci sono molti modi diversi di definire l’abitabilità. Alcuni scienziati ritengono che una superficie rocciosa sia essenziale. Altri pensano che forme di vita microbiche potrebbero svilupparsi anche in un’atmosfera adatta.

Ovviamente, tutto questo non costituisce una sorpresa: abitabilità è un termine vago e anche un po’ gergale. Se chiedessimo a un centinaio di scienziati di definire ciò che rende abitabile un pianeta, otterremmo cento risposte diverse.

Gran parte della discussione è stata guidata da ciò che è noto e quale tecnologia ci servirebbe per elaborare modelli al computer di questi pianeti“, afferma Rory Barnes, astronomo e astrobiologo presso il Virtual Planet Laboratory dell’Università di Washington.



In precedenza, i dati forniti dalle osservazioni astronomiche erano estremamente limitati. Ad esempio, nel 2007 gli scienziati scoprirono Gliese 581c, il primo esopianeta roccioso individuato nella zona abitabile. “All’epoca, questi erano i due requisiti di cui le persone avevano bisogno per alzarsi dal letto la mattina e pensare che c’era qualcosa a cui valeva la pena prestare attenzione“, afferma Barnes.

L’acqua è essenziale per la vita come la conosciamo, quindi la sua presenza è stata considerata da sempre il primo requisito per selezionare quali nuovi mondi dovrebbero attirare la nostra attenzione. D’altra parte, non si possono trascurare altre esigenze della vita come la conosciamo, come una fonte di carbonio, una fonte di energia e sostanze nutritive essenziali, come ha spiegato Stephanie Olson, una ricercatrice planetaria dell’Università di Chicago.

Un pianeta privo di queste altre cose è praticamente inabitabile come Plutone

Inoltre, un pianeta non deve risiedere nella zona abitabile per essere abitabile. La luna Europa di Giove, e le lune di Saturno, Titano ed Encelado, sono solo alcuni esempi di possibili “mondi oceanici” che suscitano l’interesse degli astrobiologi nonostante siano ben al di fuori della zona abitabile del sole.

Parte del problema è che abbiamo isolato in modo inappropriato queste indagini da altre scienze. “Dico sempre agli astronomi che se vogliono sapere cos’è l’abitabilità, studia la biologia“, afferma Abel Méndez, un astronomo planetario e direttore del Planetary Habitability Laboratory dell’Università di Puerto Rico ad Arecibo. Molti sono preoccupati che gli astronomi stiano applicando in modo inappropriato lezioni di biologia e scienze del clima ai mondi extraterrestri e che questo sia ciò che sta causando così tante controversie.

Al contrario, “esiste il pericolo di essere troppo incentrati sulla Terra“, afferma Barnes. “Comprendiamo come la Terra funzioni davvero bene e potremmo ingannarci nel pensare che certe firme siano automaticamente un segno di vita o neghino la possibilità della vita. La vita potrebbe esistere su Titano o Europa, o forse anche su Venere, ma non siamo pronti a trovarla se si baserà su una chimica diversa da quella derivata dalla nostra esperienza.

Migliorare il nostro approccio significa che abbiamo bisogno di migliorare lo scambio di formazione e dati tra i diversi campi della scienza. Questo ci porta al Virtual Planet Lab, fondato nel 2001 per capire come si forma e si evolve un pianeta abitabile e come possiamo effettivamente osservare quel processo su un vero esopianeta. La formazione del lab, che comprende scienziati del clima, ricercatori dell’atmosfera, informatici, biologi, geofisici e astronomi, riflette l’approccio multidisciplinare che la scienza planetaria dovrebbe perseguire.

Il laboratorio ha recentemente presentato VPLanet, un software aperto che simula l’evoluzione di un pianeta per miliardi di anni, principalmente (anche se non esclusivamente) per valutare se quel pianeta è, o una volta era, potenzialmente abitabile e possa supportare l’acqua liquida sulla sua superficie.

I modelli di VPLanet tengono conto di una serie di diverse dinamiche, tra cui processi interni e geologici, l’evoluzione del campo magnetico, clima, fuga atmosferica, effetti di rotazione, forze di marea, orbite, formazione ed evoluzione delle stelle, condizioni insolite come i sistemi di stelle binarie e perturbazioni gravitazionali da corpi di passaggio. Altri ricercatori possono programmare nuovi moduli che simulano altri processi fisici e collegarli al software.

Uno strumento come VPLanet ha lo scopo di aiutare ad individuare quali pianeti delle zone abitabili (e altri buoni candidati) vale la pena di studiare in profondità con gli strumenti esistenti e quelli nuovi che presto saranno attivi. Ma i suoi tentativi di caratterizzare la storia di un pianeta potrebbero anche spingerci a guardare alcuni esopianeti che normalmente non considereremmo. Tendiamo a pensare alla storia della Terra come ua qualcosa di unico e particolare, ma Barnes ha suggerito che potrebbe effettivamente essere un’esperienza abbastanza comune per molti altri esopianeti che stiamo identificando ora.

“I pianeti in orbita attorno a stelle a bassa massa, come Proxima b, hanno probabilmente subito una notevole evoluzione“, afferma Barnes. La luminosità delle loro stelle ospiti è diminuita molto rapidamente, inoltre sono stelle che emettono più radiazioni di fascia alta dannose per le atmosfere planetarie e inducono più effetti di marea sui pianeti in orbita. queste sono solo alcune delle cose che potrebbero indurci a scartare un pianeta come potenzialmente adatto alla vita.

Altri modelli possono aiutarci a riconoscere diversi tipi di dinamiche che potrebbero promuovere o ostacolare la vita. Alcuni hanno rivisto i limiti della zona abitabile sulla base di una scienza climatica più approfondita. Recentemente Olson è stato coautore di un documento che ha esaminato quale tipo di dinamiche oceaniche potrebbe essere fondamentale per sostenere un ciclo nutrizionale favorevole alla vita. La semplice presenza di un oceano, sostiene, non stabilisce se un nuovo mondo sia abitabile o meno. Senza, ad esempio, abbastanza forza di rotazione o un’atmosfera densa, un oceano non sarebbe significativo per avere maggiori prospettive di abitabilità.

Alla fine abbiamo bisogno di migliorare la rappresentazione della biologia nei nostri modelli“, afferma Olson. “I biologi hanno i loro modelli, gli scienziati del clima hanno i loro giocattoli, e poi ci sono gli astronomi. Dobbiamo trovare il modo di accoppiare i dati“.

Ma i modelli sono solo una parte dell’equazione. Dobbiamo anche ottenere osservazioni migliori di questi mondi. Vogliamo vedere se un pianeta ha un’atmosfera densa composta dai tipi di elementi importanti per la vita. Vogliamo cercare la presenza di biosignature come il metano che sono prodotte da processi biologici. Strumenti come i telescopi spaziali Hubble e Kepler della NASA hanno avuto un impatto enorme, ma le loro capacità sono già al limite (Kepler è stato ritirato l’anno scorso e Hubble è ormai al massimo delle sue possibilità).

Il successore di Hubble, il James Webb Space Telescope, ci aiuterà a spingere la nostra comprensione di questi esopianeti a nuovi livelli. La sua ottica impareggiabile e la capacità di fare osservazioni senza pari agli infrarossi significa che dovrebbe essere in grado di caratterizzare le atmosfere di esopianeti distanti con poca difficoltà. Il telescopio spaziale ARIEL dell’ESA, previsto per il lancio nel 2029, è specificamente progettato per osservare le strutture chimiche e termiche delle atmosfere degli esopianeti.

Méndez pensa anche che sia saggio essere aperti al rilevamento di tecnosignature quando pensiamo all’abitabilità, forse sotto forma di emissioni radio, luci o prodotti chimici della produzione industriale. “Esistono altri modi per guardare un sistema e vedere alcune indicazioni della vita“, afferma.

Ma il fatto è che “l’unico vero modo per capire se un posto è abitabile non è misurare queste diverse variabili: è trovare la vita“, sostiene Méndez. “In biologia, questa è la risposta finale. Non c’è altro modo di farlo”.

Insomma, per ora tutto quello che capiamo e sappiamo è solo un’approssimazione, una valutazione della potenziale abitabilità. Quindi, inevitabilmente, le discussioni continueranno.

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