L’alcol è una sostanza che può avere effetti positivi o negativi sulla salute, a seconda della quantità e della frequenza con cui lo si consuma. Mentre un consumo moderato di alcol può apportare benefici come la riduzione dello stress, il miglioramento dell’umore e la prevenzione di alcune malattie cardiovascolari, un consumo eccessivo o problematico (PAU) può causare gravi danni fisici, psicologici e sociali.
Il PAU è definito come un consumo di alcol che supera i limiti raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che sono di 14 drink a settimana per gli uomini e 7 drink a settimana per le donne.
Tra le altre cose, è associato a un aumentato rischio di sviluppare oltre 200 malattie e lesioni, tra cui cirrosi epatica, cancro, depressione, violenza, incidenti stradali e suicidio, senza dimenticare che è anche la principale causa di morte per le persone tra i 15 e i 49 anni, secondo l’OMS.
Ma perché alcune persone sviluppano questa condizione e altre no? Quali sono i fattori che ne influenzano la vulnerabilità o la resistenza? Queste sono alcune delle domande che si pongono gli scienziati che studiano questa condizione, cercando di capire le sue cause e le sue conseguenze.
Tra i vari fattori che possono influire, uno dei più importanti è la genetica, infatti si stima che il 40-60% della variabilità individuale nel PAU sia dovuto a fattori ereditari, cioè ai geni che riceviamo dai nostri genitori.
Per scoprire quali sono i geni coinvolti e come essi interagiscono con l’ambiente e con il cervello, un gruppo di ricercatori ha condotto il più grande studio sulla PAU fino ad oggi, analizzando il DNA di più di un milione di persone provenienti da diverse parti del mondo.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Communications, ha identificato numerosi nuovi geni di rischio per il PAU e ha scoperto nuovi meccanismi biologici che spiegano come il PAU influenzi il funzionamento del cervello.
Lo studio è stato condotto da un team di ricercatori del VA Connecticut Healthcare Center/Yale, in collaborazione con altri istituti di ricerca internazionali. I ricercatori hanno utilizzato diverse fonti di dati per raccogliere le informazioni genetiche e comportamentali delle persone affette da PAU.
Una delle principali fonti è stata il Million Veteran Program (MVP), un programma di ricerca nazionale che esamina l’impatto dei geni, dello stile di vita, dell’esperienza militare e delle esposizioni alla salute sui veterani. Il MVP ha fornito i dati di oltre 300.000 veterani americani, che sono stati integrati con i dati di altre grandi banche dati genetiche, come il UK Biobank, il 23andMe e il Psychiatric Genomics Consortium.
In totale, lo studio ha incluso i dati di oltre 1 milione di persone affette da PAU, appartenenti a diversi gruppi ancestrali, tra cui europei, africani, latinoamericani, asiatici orientali e asiatici meridionali.
L’obiettivo dello studio era di identificare le regioni del genoma, chiamate loci, che sono associate alla condizione, cioè che mostrano una differenza di frequenza tra le persone affette da PAU e quelle non affette, per di più queste regioni possono contenere uno o più geni che l’influenzano, direttamente o indirettamente.
Come si è svolto lo studio sul PAU e cosa i ricercatori hanno ottenuto
Per fare questo, i ricercatori hanno utilizzato una tecnica chiamata meta-analisi, che combina i risultati di diversi studi per aumentare la potenza statistica e la precisione. Hanno anche utilizzato diversi metodi per escludere i falsi positivi, cioè le regioni che sembrano associate al PAU per caso o per fattori di confondimento.
I risultati dello studio sono stati sorprendenti e rivelatori. I ricercatori hanno identificato 110 loci associati alla condizione, di cui 99 erano nuovi e 11 erano già noti da studi precedenti. Questi loci contengono 261 geni candidati per sviluppare la condizione, che sono coinvolti in diverse funzioni biologiche, come il metabolismo dell’alcol, la trasmissione nervosa, lo sviluppo cerebrale, il sistema immunitario e il ciclo circadiano.
Alcuni di questi geni sono anche associati ad altre malattie psichiatriche, come la schizofrenia, il disturbo bipolare, la depressione e il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD).
I ricercatori hanno anche scoperto che l’architettura genetica del PAU è sostanzialmente condivisa tra le diverse popolazioni ancestrali, cioè che le stesse regioni e gli stessi geni sono associati al PAU in tutti i gruppi. Questo suggerisce che il PAU abbia una base genetica comune e antica, che risale a migliaia di anni fa, quando le popolazioni umane si sono differenziate.
Tuttavia, ci sono anche alcune differenze genetiche tra i gruppi, che potrebbero riflettere le diverse pressioni selettive e le diverse influenze ambientali sul PAU.
Per capire meglio come i geni associati alla condizione influenzino il cervello, i ricercatori hanno utilizzato diversi metodi per analizzare l’espressione genica e l’interazione della cromatina nel cervello. L’espressione genica è il processo con cui i geni producono le proteine che svolgono le funzioni biologiche.
L’interazione della cromatina è il modo in cui i geni si organizzano nello spazio tridimensionale del nucleo cellulare, influenzando la loro attivazione o disattivazione.
I ricercatori hanno scoperto che molti dei geni associati al PAU sono espressi in diverse regioni del cervello, in particolare nell’amigdala, nell’ippocampo, nel nucleo accumbens e nella corteccia prefrontale, che sono aree coinvolte nella regolazione delle emozioni, della memoria, della ricompensa e del controllo degli impulsi.
Hanno anche scoperto che molti dei geni associati a questa condizione interagiscono tra loro e con altri geni importanti per il cervello, formando una rete complessa che modula la risposta all’alcol.
Uno dei prodotti più importanti di questa ricerca è l’informazione fornita sul rischio PAU nell’intero genoma, che può essere utilizzata per calcolare i “punteggi di rischio poligenetico”, o PRS, che possono essenzialmente mostrare la propensione genetica di un individuo al PAU. I PRS sono calcolati sommando gli effetti di tutte le varianti genetiche associate al PAU in un individuo, pesandole in base alla loro importanza.
Più alto è il PRS, maggiore è il rischio genetico di sviluppare questa condizione. I ricercatori hanno calcolato i PRS per il PAU utilizzando i dati dello studio e li hanno confrontati con i dati clinici e comportamentali delle persone affette da PAU, ed hanno scoperto che i PRS sono correlati con diversi aspetti, come l’età di inizio, la frequenza, la quantità, la dipendenza e le conseguenze negative del consumo di alcol.
Hanno anche scoperto che i PRS sono correlati con altri fattori di rischio per il PAU, come il sesso, il fumo, il BMI, la personalità e il disturbo post-traumatico da stress (PTSD).
I PRS per il PAU sono uno strumento potenziale per la prevenzione e il trattamento della condizione, in quanto possono aiutare a identificare le persone a maggior rischio e a personalizzare le strategie di intervento. Tuttavia i ricercatori sottolineano che i PRS calcolati nel loro studio non sono pronti per l’uso clinico, in quanto hanno una bassa accuratezza predittiva e sono influenzati da molti altri fattori ambientali e sociali che non sono inclusi nel modello genetico.
Inoltre, i PRS non devono essere usati per discriminare o stigmatizzare le persone affette da PAU, ma per offrire loro un supporto adeguato e personalizzato.
Lo studio identifica anche diversi farmaci esistenti che potrebbero aiutare a trattare il PAU, in base alla loro azione sui geni e sui meccanismi biologici coinvolti, tra questi farmaci ci sono il naltrexone, un antagonista degli oppioidi che riduce il desiderio di alcol, il baclofen, un rilassante muscolare che modula il sistema GABAergico, il topiramato, un anticonvulsivante che agisce sul sistema glutammatergico, e il disulfiram, un inibitore dell’alcol deidrogenasi che provoca effetti avversi se assunto con alcol.
Questi farmaci sono già approvati per altre indicazioni, ma potrebbero essere riposizionati per il trattamento del PAU, previa ulteriore validazione clinica. Lo studio dimostra anche il valore della collaborazione tra diversi istituti di ricerca e della condivisione dei dati genetici, che possono arricchire la conoscenza della biodiversità umana e della salute.
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