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Universo 25, o la società del benessere

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Universo 25, i pericoli dell'eccessivo benessere
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Universo 25 fu una vera e propria rapprentazione pratica dell’Utopia, realizzata per scopi di studio.

Wikipedia alla voce Utopia, tra le altre cose, riporta:
Le utopie socialista e comunista generalmente ruotano attorno a una distribuzione paritaria dei beni, spesso con la totale abolizione del denaro, e con cittadini che fanno un lavoro che apprezzano e che è svolto per il bene comune in quanto realizzazione della loro essenza primaria, e che lascia loro ampi margini di tempo per coltivare arti e scienze“.

Insomma, l’Utopia è un mondo perfetto in cui tutti fanno la loro parte per la società, nessuno è più ricco o più povero degli altri e tutti hanno tutto ciò di cui hanno bisogno. In un mondo siffatto non esistono pericolo naturali, niente predatori, niente malattie; non esiste invidia né qualcuno cerca di prevaricare gli altri. Insomma, il paradiso in Terra.

Ma come si svilupperebbe una società simile, perfetta, paritaria e senza reali problema di lotta per la sopravvivenza?

Nel 1968, il ricercatore John Calhoun, un etologo statunitense, effettuò numerosi studi sulla densità di popolazione e sui suoi effetti sul comportamento. Il lavoro che fece più scalpore e per il quale Calhoun raggiunse la popolarità fu il cosiddetto “Universo 25” o “Universo del topo“.

L’esperimento ideato da Calhoum iniziò nel luglio 1968, presso il National Institute of Health di Bethesda, Maryland, quando quattro coppie di topi furono introdotte nell’habitat. L’habitat era una struttura quadrata in metallo di 1,4 metri per lato, con un’altezza di 2,7 metri. Ogni lato aveva quattro gruppi di quattro “tunnel” verticali in rete metallica. I “tunnel” davano accesso a cassette di nidificazione, tramogge e distributori d’acqua. Non mancavano cibo, acqua o materiale per la nidificazione. Non c’erano predatori. L’unica avversità era il limite di spazio.

I topi scelti come cavie furono i migliori esemplari disponibili al NIMH e furono inseriti in un mondo dove non era necessario alcuno sforzo per difendersi dai predatori o per procurarsi il cibo, completamente sicuro dall’insorgere di malattie e da altri pericoli.

Universo 25, così si chiamava la gabbia, aveva uno spazio orizzontale libero e tante nicchie disposte nei muri verticali, che potevano essere raggiunte dai topi grazie a delle griglie in ferro saldate sulle pareti. Le nicchie erano collegate tra loro da 4 tunnel ed erano complessivamente 256, un numero di nidi sufficienti a ospitare (teoricamente) 3.800 topi in tutto.

La gabbia veniva pulita ogni 4 settimane e la vita al suo interno era un vero e proprio paradiso teorico.

Niente gatti, niente trappole, niente caldo o freddo, e nemmeno il rischio di finire vivisezionati come cavie od oggetto di operazioni con bisturi e siringhe. Nulla di tutto questo. L’unico impegno richiesto ai topi era quello di godersi la vita, mangiare e riprodursi.

La popolazione, dopo un periodo di circa 3 mesi di adattamento, comincia a raddoppiarsi ogni 55 giorni. Prima 20 topi, poi 40, poi 80 e così via. In seguito la curva di crescita cala un po’ ma la popolazione raggiunge le 620 unità nell’Agosto del 1969, un anno dopo l’inizio dell’esperimento.

Dopo 560 giorni, quindi dopo circa un anno e mezzo dal momento in cui furono introdotte quelle prime 4 coppie di topi, Universo 25 raggiunge il massimo della sua popolazione con 2.200 esemplari.

A quel punto, all’interno della societa topesca, topi vivi superano di molto i ruoli sociali disponibili, e si iniziano a notare delle anomalie comportamentali che diventano via via più marcate.

Alcuni maschi iniziano ad attaccare femmine e neonati. Altri diventano pansessuali, tentando di avere rapporti con tutti i topi disponibili. Le femmine rimaste sole, in pericolo perché minacciate dai maschi, si rifugiano nei nidi più alti portando con sé la prole, alla quale però non sono in grado di provvedere perché impegnate nella difesa del territorio. La stragrande maggioranza dei piccoli viene lasciata morire e nessuno si cura di loro.

Altri esemplari all’interno della gabbia, definiti da Calhoun “quelli Belli”, non si preoccupano di nulla se non di mangiare e lisciarsi il pelo, e sono gli unici che non riportano ferite da combattimenti con altri individui. I gruppi di topi rimasti che girano all’interno della gabbia sono sproporzionati, a volte con 1 solo maschio per 10 femmine oppure di 20 maschi e 10 femmine.

In questa situazione, violenza, pansessualismo e persino il cannibalismo (nonostante il cibo fosse abbondantemente disponibile), portarono al totale collasso l’utopia di Universo 25.

Dopo 600 giorni la popolazione per la prima volta inizia a calare, e l’ultima nascita risale al giorno 920. L’esperimento termina 5 anni dopo il suo inizio, nel 1973, con la società dei topi che è completamente estinta e l’ultimo topo è spirato.

La società di topi in cui non esistevano esigenze se non quelle di interazioni sociali era collassata, annientata dalla mancanza di ruoli sociali da impiegare a causa della sovrappopolazione, infine distrutta dai suoi stessi membri.

Nel 1973, Calhoun pubblicò la sua ricerca sull’Universo 25 dal titolo “Death Squared: The Explosive Growth and Demise of a Mouse Population”. La pubblicazione, per dirla in modo leggero, è un’intensa esperienza di lettura accademica che descrive il collasso della società causato da quello che viene definito “Fogna del comportamento”.

Tutto questo era un linguaggio poco accademico, ma perfettamente in grado di trasmettere in modo vivido il pensiero del suo creatore.

Le conclusioni che Calhoun trasse da questo esperimento furono che, quando tutto lo spazio disponibile è occupato e tutti i ruoli sociali sono occupati, la competizione e gli stress sperimentati dagli individui si traducono nella rottura totale dei comportamenti sociali complessi, che alla fine si tradurrà nell’estinzione della popolazione.

Secondo Calhoun, la morte della società si realizzò in due fasi: la “prima morte” e la “seconda morte“. La prima era caratterizzata dalla perdita di uno scopo nella vita oltre la mera esistenza: nessun desiderio di accoppiarsi, crescere giovani o stabilire un ruolo all’interno della società. Questa prima morte è stata rappresentata dalle vite apatiche dei belli, mentre la seconda morte è stata segnata dalla fine letterale della vita e dall’estinzione dell’Universo 25.

Estendendo le sue osservazioni su quelli belli, Calhoun affermò che i topi, similmente agli esseri umani, prosperano con un senso di identità e scopo nel mondo in generale, sostenendo che esperienze come tensione, stress, ansia e la necessità di sopravvivere rendono necessario il coinvolgimento nella società.

Quando si soddisfano tutti i bisogni e non esiste alcun conflitto, l’atto di vivere è spogliato dei suoi più essenziali elementi fisiologici di cibo e sonno. Secondo Calhoun:

  • Qui sta il paradosso di una vita senza lavoro né conflitti.
  • Quando ogni senso di necessità viene spogliato dalla vita di un individuo, la vita cessa di avere uno scopo.
  • L’individuo muore nello spirito.

Dal punto di vista di Calhoun, l’ascesa e la caduta dell’Universo 25 hanno dimostrato cinque punti fondamentali sui topi e sugli esseri umani:

    1. Il topo è una creatura semplice, ma deve sviluppare le abilità per il corteggiamento, l’educazione dei figli, la difesa del territorio e l’adempimento del ruolo personale sul fronte domestico e comunitario. Se tali abilità non si sviluppano, l’individuo non si riprodurrà né troverà un ruolo produttivo all’interno della società.
    2. Come con i topi, tutte le specie invecchiano e gradualmente si estinguono. Non c’è nulla che suggerisca che la società umana non sia incline agli stessi sviluppi che hanno portato alla scomparsa dell’Universo 25.
    3. Se il numero di individui qualificati supera il numero dei ruoli nella società, il caos e l’alienazione saranno i risultati inevitabili.
    4. Gli individui cresciuti in queste ultime condizioni non avranno alcun rapporto con il mondo reale. L’appagamento fisiologico sarà la loro unica spinta nella vita.
    5. Proprio come i topi prosperano su una serie di comportamenti complessi, l’interesse per gli altri sviluppato nelle capacità e nelle comprensioni umane postindustriali è vitale per la sopravvivenza dell’uomo come specie. La perdita di questi attributi all’interno di una civiltà potrebbe portare al suo collasso.

Nonostante le cupe parabole presentate nelle sue osservazioni, Calhoun non stava cercando di implicare che l’umanità fosse diretta verso un simile percorso verso l’estinzione. Nonostante i paralleli tra la caduta dell’Universo 25 e alcuni dei mali della società, gli umani – in quanto specie più sofisticata – hanno la saggezza e l’ingegnosità per invertire tali tendenze.

Dopo tutto, gli esseri umani hanno scienza, tecnologia e medicina, che danno all’umanità la capacità di:

  • Individuare la causa
  • Evita i disastri
  • Guarire ferite e malattie
  • Esplorare nuovi ambienti

Calhoun ha sottolineato che l’Universo 25 non era un habitat naturale, poiché al suo interno c’era abbondanza di cibo e lussi e mantenuto libero da predatori e malattie.

Speranza per l’umanità

Tuttavia, Calhoun temeva che l’umanità possa cadere in un simile destino nel caso in cui le città diventassero sovraffollate e la popolazione aumenti oltre la capacità del mercato del lavoro.

Per aiutare la società a trovare modi per impedire che ciò accada, trascorse parte della sua successiva carriera esplorando diverse forme di progresso umano, che ha esteso al concetto di colonizzazione spaziale. A tal fine, formò un team accademico chiamato Space Cadets. Il suo scopo era promuovere l’idea che gli esseri umani creino colonie su altri pianeti.

Calhoun si concentrò anche sulla pianificazione urbana, che riteneva fosse la chiave per evitare tracollo comportamentale dell’Universo 25. Credeva che il design delle città sia parzialmente responsabile dei modi in cui gli abitanti interagiscono tra loro e che le misure correttive dovrebbero essere prese in tandem con lo sviluppo per mantenere una comunicazione positiva tra le persone.

Come parte del suo sforzo per promuovere concetti alternativi di progettazione della città, armeggiò con il modello dell’utopia dei roditori con oltre 100 ulteriori universi nei successivi due decenni. Il suo lavoro in questo settore è stato molto apprezzato dai consigli di urbanistica negli Stati Uniti e all’estero.

Non importa quanto sofisticato l’uomo creda di essere, una volta che il numero di individui in grado di ricoprire un ruolo sociale supera largamente il numero di ruoli disponibili, la conseguenza inevitabile è la distruzione dell’organizzazione sociale”.

Fonti: Wikipedia; The Sentinel; https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1644264/

Il gatto, uno spietato serial killer

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Il gatto, uno spietato serial killer
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Se contempliamo il nostro gatto che dorme placidamente sulla sua poltrona preferita o ci scodinzola tra le gambe mentre ci apprestiamo a riempire dei suoi croccantini preferiti la ciotola, non siamo certamente attraversati dal pensiero che questo piccolo felino sia uno dei maggiori responsabili di vere e proprie estinzioni di massa di specie viventi.

La proliferazione del gatto

Esistono profonde differenze tra la domesticazione del cane e quella del gatto, tanto che tra un gatto di casa ed un gatto selvatico ci sono meno differenze genetiche che tra cani e lupi. Eppure i gatti convivono con gli esseri umani da circa 10.000 anni. E’ probabile che la prima fase di domesticazione sia avvenuta con lo sviluppo dell’agricoltura, poiché l’accumulare scorte di granaglie da parte dell’uomo attraeva i roditori ed i roditori, a loro volta, attraevano questi piccoli predatori.

I gatti sono animali estremamente prolifici, una gatta può iniziare a riprodursi già a meno di un anno di età ed è in grado di partorire una nidiata di 4 o 5 cuccioli, due volte l’anno e per tutta la durata della sua vita. Per questo motivo questi felini hanno una popolazione mondiale tra le 10 e le 100 volte superiori a quelle di altre popolazioni di predatori dalle dimensioni simili, come serpenti, procioni e uccelli rapaci.

Ormai è accertato che il gatto è tra i maggiori responsabili di veri e propri processi di estinzione di altre specie animali. Soprattutto nelle isole i danni possono essere incalcolabili. Storicamente il “controllo sulla proliferazione felina” era costituito dalla cattura e uccisione dei gatti selvatici. Queste campagne occasionali erano però di fatto frustrate dalla grande fertilità dei piccoli felini. Le uccisioni di massa oltre ad essere crudeli sono state di fatto inefficaci se pensiamo che nei soli Stati Uniti i gatti selvatici oscillano tra i 70 ed i 100 milioni.

Su pressione degli animalisti tra la metà degli anni Ottanta e la decade successiva venne attuata la meno cruenta tecnica della sterilizzazione di massa, ovvero i gatti randagi venivano catturati, sterilizzati e poi liberati nuovamente, magari in aree dove il loro istinto da serial killer potesse essere meno distruttivo.

Gli studi

Nonostante i progressi di questa strategia, la TNR dall’inglese trap-neuter-return, non è facile sterilizzare un elevato numero di gatti tale da innescare una costante diminuzione della popolazione felina. Alcuni modelli matematici indicano che per ottenere questo risultato occorrerebbe catturare circa il 90% delle varie colonie feline e questo è letteralmente impossibile.

Secondo altri modelli presentati da Christopher Lepczyk, ecologo della Auburn University in prospettiva la strategia più “dolce”, la TNR è meno efficace di quella più brutale della soppressione di massa dei piccoli felini. La mancanza di dati certi mette però in discussione entrambi i modelli. Un punto fermo è la corresponsabilità dei gatti selvatici rispetto al rischio di estinzione di alcune specie così come provata indiscutibilmente da vari studi.

In particolare uno studio sui woodrat una specie di roditore della famiglia Cricetidae che vive nel Canada e negli Stati Uniti dimostra che la popolazione di questo animaletto è inversamente proporzionale al numero di gatti selvatici che popolano il loro territorio. Un contributo in tal senso fu fornito da una ricerca condotta da Sonia Hernandez, ecologa dell’Università della Georgia che tra il 2014 e il 2015 monitorò le abitudini di caccia dei gatti dell’isola di Jekill.

La Hernandez dotò di un collare corredato da una mini telecamera 31 gatti inselvatichiti che erano nutriti quotidianamente e poi li liberò. Le mini telecamere documentarono che 18 dei 31 gatti uccidevano una media di 6,15 prede al giorno e che solo una minima parte delle prede era divorata dai piccoli serial killer. In altre parole, spesso il gatto non uccide per mangiare (se non in minima parte) ma soltanto perché è… un gatto e asseconda la sua natura.

Per i conservazionisti il controllo del numero dei gatti selvatici è un problema urgente quanto di non facile soluzione. Nessuna delle strategie fin qui applicate (uccisioni o sterilizzazioni di massa) si è dimostrata efficace, perlomeno sul medio-lungo periodo. Probabilmente occorrerà utilizzare un mix tra le due, integrandole con altre soluzioni attualmente allo studio che prevedono, ad esempio, la costruzione (con l’aiuto umano) di rifugi, dove alcune specie, come i buffi woodrat possano trovare un riparo più sicuro dalle aggressione dei serial killer felini.

fonte: Le Scienze, giugno 2020, edizione cartacea

NOTA DELLA DIREZIONE DI RECCOM MAGAZINE

I contenuti di questo articolo possono essere da taluni ritenuti controversi a causa della crudezza con la quale vengono espressi certi concetti. È però un dato di fatto che le numerose colonie di gatti selvatici o inselvatichiti costituiscano un serio problema per la sopravvivenza di tutti quegli animaletti normalmente predati dai gatti. Qualcuno potrebbe opporre, con qualche ragione, il fatto che in natura predatori e prede finiscono in qualche modo per trovare equilibrio, dove le prede scarseggiano, i predatori inevitabilmente diminuiscono di numero finché l’equilibrio non si ristabilisce.

Purtroppo nel caso del gatto non è così, in particolare nelle zone abitate da esseri umani dove si stabiliscono numerose colonie di gatti che, prede o no, trovano sostentamento sia nella massa enorme di rifiuti  prodotti dagli esseri umani sia grazie al fenomeno cosiddetto delle “gattare” che, nutrendoli, impediscono che venga ristabilito l’equilibrio tra predatori e prede. 

gattari

L’articolo riprende un servizio pubblicato sull’edizione cartace italiana di “Le Scienze”, notoriamente propagazione della prestigiosa rivista “Science” basato su più studi usciti ormai parecchi mesi fa, per esempio questo ripreso anche da ABC, oppure questo, riportato su Wikipedia, ma ci sono numerosi altri esempi, l’Indipendent e il The New York Times      hanno pubblicato servizi analoghi, così come le riviste italiane Focus e Riserva Magazine. Insomma, gli ecologi e gli stessi ambientalisti sono preoccupati per i danni provocati dalla moltitudine di gatti inselvatichiti e si cerca una soluzione per arginarli.

La redazione di Reccom Magazine è impegnata da tempo nel tentativo di fare informazione corretta ed obiettiva e non può certo essere ritenuta responsabile di quanto asserito in studi scientifici qualificati che vengono da noi riportati asetticamente, senza inserire opinioni in merito. Io personalmente ho due gatti in casa e, abitando in campagna, posso testimoniare che, pur abbondantemente nutriti, i gatti non rinunciano al loro istinto predatorio che spesso si consuma anche con una certa crudeltà. Non dobbiamo mai confondere i nostri gattini domestici che vivono chiusi in appartamento,che fanno le fusa, cercano le coccole e sono tanto teneri, con gatti lasciati liberi di muoversi nell’ambiente.

Questo articolo ha scatenato una ridda di proteste, in alcuni casi anche di insulti, a tutti su tutti i mezzi di comunicazione possibili, dai commenti sul sito, ai gruppi facebook e perfino sugli account di posta riferibili al sito.

Reccom Magazine non ha espresso alcuna opinione in merito al problema e l’articolista si è limitato a riportare i fatti. In molte grandi città da anni si tenta di arginare il problema attraverso la sterilizzazione di massa ma catturare tutti i gatti liberi, o almeno la maggior parte, è pressoché impossibile e i gatti non hanno praticamente nemici naturali e competitori in città, rendendo il problema di difficilissima soluzione.

Da parte nostra, ovviamente, essendo anche orgogliosi proprietari di cani e di gatti, siamo incondizionatamente contro qualsiasi soluzione che preveda l’uccisione anche di un solo gatto ma molta gente dovrebbe mettersi una mano sulla coscienza e invece di nutrire colonie sempre più numerose di gatti dovrebbe pensare alla possibilità di adottare un gatto e sterilizzarlo invece di prendersela con chi si limita a fare presente che esiste un problema.

Da parte nostra siamo disponibilissimi ad un confronto con qualunque parte, siano enti di salvaguardia o privati e a lasciare spazio e visibilità a proposte e possibili soluzioni.

La redazione

Grasso addominale e invecchiamento: un rischio ben oltre l’estetica

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Grasso addominale e invecchiamento: un rischio ben oltre l'estetica
Grasso addominale e invecchiamento: un rischio ben oltre l'estetica
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È un’osservazione comune che, con il progredire dell’età, si tenda ad assistere a un aumento della circonferenza addominale. Questo fenomeno, tuttavia, trascende una mera preoccupazione estetica, rappresentando un fattore di rischio significativo per la salute.

L‘accumulo di grasso a livello viscerale, ovvero intorno agli organi interni dell’addome, è strettamente correlato a un’accelerazione dei processi di invecchiamento e a un rallentamento delle funzioni metaboliche.

Grasso addominale e invecchiamento: un rischio ben oltre l'estetica
Grasso addominale e invecchiamento: un rischio ben oltre l’estetica

 

Comprendere l’accumulo di grasso addominale legato all’età: un nuovo percorso di segnalazione identificato

Di conseguenza, aumenta la predisposizione allo sviluppo di patologie metaboliche come il diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari e altre condizioni croniche debilitanti. Nonostante la consapevolezza di questa correlazione, i meccanismi cellulari e molecolari che sottendono alla trasformazione di un addome giovanile in uno caratterizzato da un’eccessiva adiposità in età adulta sono rimasti a lungo oggetto di indagine.

Una recente ricerca preclinica condotta presso il City of Hope, un istituto di spicco negli Stati Uniti per la ricerca e il trattamento del cancro e un centro di eccellenza nello studio del diabete e di altre malattie potenzialmente letali, ha fatto luce su questo processo. Gli scienziati hanno identificato un pathway di segnalazione specifico, denominato LIFR, come un motore cruciale nella proliferazione delle cellule adipose a livello addominale con l’avanzare dell’età.

Questa scoperta fornisce una nuova prospettiva sul perché la nostra linea di cintura tenda ad espandersi con il tempo, aprendo la strada a potenziali strategie terapeutiche innovative. I risultati dello studio suggeriscono che modulare l’attività di questo pathway potrebbe rappresentare un obiettivo promettente per future terapie volte a prevenire l’accumulo di grasso addominale e, potenzialmente, a promuovere una maggiore longevità in salute.

La dottoressa Qiong (Annabel) Wang, coautrice dello studio e professoressa associata presso l’Arthur Riggs Diabetes & Metabolism Research Institute del City of Hope, ha sottolineato come l’invecchiamento sia spesso accompagnato da una perdita di massa muscolare e da un contemporaneo aumento del grasso corporeo, anche in assenza di variazioni significative nel peso complessivo. La ricerca ha rivelato che l’invecchiamento innesca l’arrivo di una nuova popolazione di cellule staminali adulte e stimola una massiccia produzione di nuove cellule adipose, in particolare nella regione addominale.

L’identificazione del pathway di segnalazione LIFR come mediatore di questo processo proliferativo apre nuove ed entusiasmanti possibilità per lo sviluppo di terapie mirate. Intervenire farmacologicamente su questo pathway potrebbe rappresentare una strategia efficace per prevenire o ridurre l’accumulo di grasso addominale legato all’età, offrendo una potenziale via per contrastare le malattie metaboliche associate e promuovere un invecchiamento più sano.

Il ruolo proliferativo delle cellule orogenitrici degli adipociti

In collaborazione con il laboratorio del dottor Xia Yang dell’UCLA, il team di ricerca ha intrapreso una rigorosa serie di esperimenti condotti inizialmente su modelli murini e successivamente convalidati attraverso studi su cellule umane. L’attenzione degli scienziati si è concentrata sul tessuto adiposo bianco (WAT), universalmente riconosciuto come il principale responsabile dell’aumento ponderale associato all’invecchiamento.

Sebbene sia un dato di fatto che le singole cellule adipose tendano ad aumentare di volume con l’età, gli studiosi hanno avanzato l’ipotesi che l’espansione del tessuto adiposo bianco non sia unicamente attribuibile all’ipertrofia cellulare, ma implichi anche la generazione di nuove cellule adipose, suggerendo una potenziale capacità di crescita pressoché illimitata.

Per verificare questa ipotesi, i ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione sulle cellule progenitrici degli adipociti (APC), una specifica popolazione di cellule staminali residenti nel tessuto adiposo bianco, dotate della capacità di differenziarsi in adipociti maturi. In una prima fase sperimentale cruciale, il team del City of Hope ha eseguito trapianti di cellule APC isolate da topi giovani e da topi anziani in un secondo gruppo di topi giovani.

L’osservazione chiave è stata che le APC prelevate dagli animali più anziani hanno dimostrato una sorprendente capacità di generare rapidamente una quantità considerevole di nuove cellule adipose nell’ospite giovane. Al contrario, quando le APC derivanti da topi giovani sono state trapiantate in topi più anziani, la proliferazione di nuove cellule adipose è risultata significativamente limitata. Questi risultati hanno fornito una chiara evidenza che le APC di animali anziani acquisiscono la capacità intrinseca di produrre autonomamente nuove cellule adipose, indipendentemente dall’età dell’ambiente ospite.

Successivamente, attraverso l’impiego della sofisticata tecnica di sequenziamento dell’RNA a singola cellula, gli scienziati hanno potuto confrontare in dettaglio l’attività genica delle APC in topi di diverse età. L’analisi ha rivelato un quadro dinamico: mentre nelle APC dei topi giovani l’attività genica era relativamente quiescente, nelle APC dei topi di mezza età si è osservato un marcato “risveglio” genico, correlato all’inizio della produzione di nuove cellule adipose.

Il dottor Adolfo Garcia-Ocana, titolare della cattedra Ruth B. & Robert K. Lanman in regolamentazione genetica e ricerca sulla scoperta di farmaci e presidente del dipartimento di endocrinologia molecolare e cellulare presso il City of Hope, ha commentato in merito a questa scoperta, sottolineando come, contrariamente alla tendenza della maggior parte delle cellule staminali adulte a diminuire la propria capacità proliferativa con l’età, le APC mostrino un comportamento opposto: l’invecchiamento sembra sbloccare il loro potenziale di evoluzione e diffusione.

Il dottor Garcia-Ocana ha concluso affermando che questa ricerca fornisce la prima prova diretta che l’espansione del tessuto adiposo addominale con l’età è guidata da un’aumentata produzione di nuove cellule adipose da parte delle APC.

L’emergere di una nuova popolazione cellulare adipogenica nella mezza età

L’invecchiamento non si limita a influenzare la funzionalità delle cellule progenitrici degli adipociti (APC), ma induce una vera e propria trasformazione di queste cellule staminali in una nuova entità cellulare distinta, denominata preadipocita impegnato età-specifico (CP-A). Questa transizione cruciale si verifica tipicamente nella mezza età e conferisce alle cellule CP-A una spiccata propensione alla produzione attiva di nuove cellule adipose.

Questo meccanismo intrinseco spiega l’osservazione comune di un aumento di peso più pronunciato negli individui anziani, suggerendo che l’accumulo di tessuto adiposo non sia semplicemente una conseguenza di una ridotta lipolisi o di un aumento dell’apporto calorico, ma anche di una dinamica proliferazione di nuove cellule adipose guidata dalle CP-A.

Un’indagine più approfondita ha rivelato che un pathway di segnalazione specifico, mediato dal recettore del fattore inibitorio della leucemia (LIFR), svolge un ruolo fondamentale nel promuovere sia la moltiplicazione che la successiva differenziazione delle cellule CP-A in adipociti maturi. La dottoressa Wang ha chiarito questo aspetto cruciale, evidenziando come il processo di formazione del grasso corporeo sia intrinsecamente legato all’attività del LIFR.

Mentre nei topi giovani questo segnale non sembra essere un prerequisito per la produzione di tessuto adiposo, nei topi più anziani il LIFR emerge come un fattore determinante. La ricerca indica chiaramente che il LIFR agisce come un interruttore molecolare, inducendo le CP-A a generare nuove cellule adipose e contribuendo in modo significativo all’aumento del grasso addominale osservato nei modelli murini anziani.

Per valutare la rilevanza traslazionale di queste scoperte, il team guidato dalla dottoressa Wang ha esteso le proprie indagini a campioni di tessuto adiposo provenienti da individui umani di diverse fasce d’età, utilizzando ancora una volta la tecnica di sequenziamento dell’RNA a singola cellula. In modo notevole, l’analisi delle APC umane ha rivelato la presenza di cellule CP-A analoghe a quelle identificate nei modelli murini.

Inoltre, è stato osservato un aumento significativo del numero di queste cellule CP-A nei tessuti adiposi di individui di mezza età, corroborando l’ipotesi che questo meccanismo di proliferazione adipocitaria sia conservato anche nella fisiologia umana. Questa scoperta rafforza ulteriormente l’importanza delle CP-A nella dinamica dell’accumulo di grasso legato all’età negli esseri umani, suggerendo che la loro attività possa rappresentare un bersaglio terapeutico valido.

Le implicazioni di questa ricerca sono profonde, in quanto sottolineano l’importanza di modulare la formazione di nuove cellule adipose come strategia potenziale per contrastare l’obesità legata all’età e le sue conseguenze metaboliche. La dottoressa Wang ha enfatizzato come la comprensione del ruolo specifico delle CP-A nei disturbi metabolici e dei meccanismi che ne regolano l’emergere durante l’invecchiamento possa spianare la strada a nuove soluzioni mediche mirate alla riduzione del grasso addominale e al miglioramento della salute e della longevità complessiva.

Le future direzioni della ricerca si concentreranno sul monitoraggio dinamico delle cellule CP-A in modelli animali per comprenderne appieno la traiettoria e la funzione nel tempo, sull’osservazione dettagliata delle caratteristiche delle CP-A nei tessuti umani e sullo sviluppo di strategie innovative volte a eliminare selettivamente o a bloccare l’attività di queste cellule per prevenire l’accumulo di grasso correlato all’età.

Lo studio è stato pubblicato su Science.

Rotazione della Terra: il ritmo lento che ha innescato l’ossigenazione

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Rotazione della Terra: il ritmo lento che ha innescato l'ossigenazione
Rotazione della Terra: il ritmo lento che ha innescato l'ossigenazione
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Dalla sua genesi, avvenuta approssimativamente 4,5 miliardi di anni or sono, la Terra è soggetta a un graduale ma inesorabile rallentamento della sua velocità di rotazione. Come diretta conseguenza di questo fenomeno cosmico, la durata del giorno terrestre si è progressivamente estesa nel corso delle ere geologiche.

Sebbene tale decelerazione non sia percepibile su scale temporali umane, la sua azione protratta nel tempo è sufficiente a indurre mutamenti significativi nella configurazione del nostro pianeta.

Rotazione della Terra: il ritmo lento che ha innescato l'ossigenazione
Rotazione della Terra: il ritmo lento che ha innescato l’ossigenazione

Il rallentamento secolare della rotazione della Terra e la sua profonda influenza sull’ossigenazione atmosferica

Tra queste trasformazioni di lungo periodo, una riveste un’importanza capitale, specialmente per la biosfera: l’allungamento delle giornate terrestri appare intrinsecamente connesso al cruciale evento dell’ossigenazione dell’atmosfera primordiale, come evidenziato da una ricerca scientifica pubblicata nel 2021.

In particolare, lo studio suggerisce che l’emergere e la successiva proliferazione delle alghe verdi-azzurre, note anche come cianobatteri, circa 2,4 miliardi di anni fa, furono strettamente correlate all’allungamento della durata del giorno terrestre. In un contesto di giornate più estese, questi microrganismi fotosintetici avrebbero avuto a disposizione periodi di luce solare più prolungati, incrementando la loro capacità di effettuare la fotosintesi e, di conseguenza, di rilasciare una maggiore quantità di ossigeno come sottoprodotto metabolico.

Questa ipotesi innovativa stabilisce un legame causale tra un processo geofisico fondamentale come la rotazione planetaria e un evento biologico di portata epocale come l’ossigenazione dell’atmosfera, che ha reso possibile l’evoluzione della vita complessa sulla Terra.

Il microbiologo Gregory Dick dell’Università del Michigan, uno degli autori dello studio del 2021, ha sottolineato come una delle questioni centrali nelle scienze della Terra riguardi la modalità attraverso la quale l’atmosfera terrestre ha acquisito l’ossigeno e quali fattori abbiano controllato la tempistica precisa di questa ossigenazione.

La ricerca condotta dal suo team suggerisce con forza che la velocità di rotazione del nostro pianeta, e quindi la durata del giorno, potrebbe aver esercitato un’influenza significativa sul modello e sulla cronologia dell’ossigenazione terrestre. Questa prospettiva apre nuove vie di indagine per comprendere le complesse interazioni tra i processi geologici, fisici e biologici che hanno plasmato l’evoluzione del nostro pianeta e reso possibile la vita come la conosciamo.

Due fenomeni apparentemente disconnessi: La decelerazione terrestre e la Grande Ossidazione

La narrazione dell’evoluzione del nostro pianeta si dipana attraverso una trama complessa, intessuta di eventi apparentemente distinti che, a un’analisi più approfondita, rivelano intricate interconnessioni. In questo contesto, emergono due fenomeni di primaria importanza che, a prima vista, potrebbero non suggerire una relazione causale diretta. Il primo è il progressivo rallentamento della rotazione terrestre, un processo inesorabile guidato dalle forze gravitazionali esercitate dal nostro satellite naturale, la Luna.

Questa interazione cosmica induce una graduale decelerazione della velocità angolare del pianeta, con la conseguente recessione orbitale della Luna. Le evidenze geologiche, desunte dall’analisi dei reperti fossili, testimoniano questa lenta ma costante evoluzione temporale: circa 1,4 miliardi di anni fa, la durata di un giorno terrestre era di sole 18 ore, allungandosi di mezz’ora nei successivi 1,33 miliardi di anni, fino a raggiungere le attuali 24 ore. Le misurazioni contemporanee suggeriscono un incremento della durata del giorno di circa 1,8 millisecondi per secolo, un ritmo impercettibile su scala umana ma significativo su archi temporali geologici.

Il secondo fenomeno cardine è noto come il Grande Evento di Ossidazione, un periodo cruciale nella storia della Terra durante il quale i cianobatteri proliferarono in modo esponenziale, innescando un aumento brusco e significativo della concentrazione di ossigeno nell’atmosfera primordiale. Questo evento trasformativo è considerato un prerequisito fondamentale per l’evoluzione della vita complessa come la conosciamo oggi.

Senza l’immissione massiccia di ossigeno nell’atmosfera, resa possibile dall’attività fotosintetica di questi microrganismi pionieri, è improbabile che le forme di vita aerobiche avrebbero potuto svilupparsi e diversificarsi. Nonostante il ruolo cruciale dei cianobatteri nella storia della vita, molti aspetti del Grande Evento di Ossidazione rimangono avvolti nel mistero, inclusa la precisa ragione per cui si verificò in quel momento specifico della storia terrestre e non precedentemente.

Scienziati che lavorano all’interfaccia tra la microbiologia e la geologia hanno recentemente iniziato a svelare le intricate connessioni tra questi due fenomeni apparentemente distinti. Un ambiente di ricerca particolarmente illuminante è rappresentato dai tappeti microbici che si formano nella voragine di Middle Island nel lago Huron, ecosistemi che si ritiene offrano un’analogia con le antiche comunità di cianobatteri responsabili del Grande Evento di Ossidazione.

In questi tappeti microbici stratificati, si osserva una competizione dinamica tra i cianobatteri viola, organismi fotosintetici che producono ossigeno, e i microbi bianchi, che metabolizzano lo zolfo. Durante le ore notturne, i microbi bianchi migrano verso la superficie superiore del tappeto per dedicarsi alla loro attività metabolica. Con l’alba e l’innalzamento del sole, i microbi bianchi si ritirano negli strati inferiori, lasciando spazio ai cianobatteri viola che ascendono in superficie per avviare la fotosintesi e la conseguente produzione di ossigeno.

Come ha osservato la geomicrobiologa Judith Klatt del Max Planck Institute for Marine Microbiology, questo processo non è immediato: si verifica un significativo ritardo mattutino prima che i cianobatteri inizino effettivamente la loro attività fotosintetica. Questa osservazione cruciale suggerisce che la durata del giorno, influenzata dal rallentamento della rotazione terrestre, potrebbe aver giocato un ruolo inaspettato nel modulare l’efficienza della fotosintesi cianobatterica e, di conseguenza, la tempistica e l’entità del Grande Evento di Ossidazione.

La lenta attivazione fotosintetica: una finestra temporale limitata per la produzione di ossigeno

Un aspetto sorprendente emerso dalle osservazioni sui cianobatteri è la loro relativa lentezza nell’avviare il processo di fotosintesi al mattino. Contrariamente a quanto si potrebbe intuitivamente pensare, questi microrganismi fotosintetici non iniziano immediatamente a produrre ossigeno con la comparsa della luce solare. Questa “pigrizia” mattutina implica che la finestra temporale diurna effettivamente dedicata alla produzione di ossigeno risulta significativamente limitata.

Questa peculiarità comportamentale ha catturato l’attenzione dell’oceanografo Brian Arbic dell’Università del Michigan, il quale ha ipotizzato se la variazione della durata del giorno nel corso della storia geologica della Terra potesse aver esercitato un’influenza significativa sull’efficienza complessiva della fotosintesi microbica e, di conseguenza, sulla dinamica dell’ossigenazione atmosferica. La geomicrobiologa Judith Klatt ha corroborato questa ipotesi, suggerendo che una competizione simile tra diverse comunità microbiche potrebbe aver contribuito al ritardo osservato nell’accumulo di ossigeno nella Terra primordiale.

Per convalidare questa affascinante ipotesi, il team di ricerca ha intrapreso una serie di esperimenti e misurazioni dettagliate sui microbi, analizzandone il comportamento sia nel loro ambiente naturale che in condizioni di laboratorio controllate. Parallelamente a queste indagini sperimentali, sono stati sviluppati sofisticati modelli computazionali basati sui dati raccolti, con l’obiettivo di stabilire un nesso quantitativo tra l’irradiazione solare, la produzione microbica di ossigeno e la storia dell’ossigenazione terrestre.

Lo scienziato Arjun Chennu del Centro Leibniz per la ricerca marina tropicale in Germania ha offerto un’intuizione controintuitiva: sebbene si potrebbe ipotizzare che due giorni di 12 ore dovrebbero teoricamente equivalere a un giorno di 24 ore in termini di energia solare complessiva, la realtà biologica è più complessa.

La produzione di ossigeno da parte dei tappeti batterici non segue linearmente l’andamento della luce solare a causa di un fattore limitante cruciale: la velocità di diffusione molecolare dell’ossigeno all’interno del tappeto microbico. Questo sottile disaccoppiamento tra l’assorbimento della luce solare e il rilascio effettivo di ossigeno rappresenta il fulcro del meccanismo attraverso il quale la durata del giorno influenza l’ossigenazione globale.

L’integrazione di questi risultati sperimentali e di modellizzazione in modelli globali dei livelli di ossigeno atmosferico ha portato a una scoperta significativa: l’allungamento progressivo delle giornate terrestri nel corso delle ere geologiche è strettamente correlato non solo al Grande Evento di Ossidazione, ma anche a un successivo e significativo episodio di arricchimento di ossigeno nell’atmosfera, noto come Evento di Ossigenazione Neoproterozoico, avvenuto circa 550-800 milioni di anni fa.

Questa correlazione suggerisce che un processo fisico su scala planetaria, come la decelerazione della rotazione della Terra, ha esercitato un’influenza profonda e duratura sui cicli biogeochimici fondamentali che regolano la composizione della nostra atmosfera e, in ultima analisi, la possibilità stessa della vita complessa.

Come ha mirabilmente sintetizzato Chennu, questa ricerca connette leggi della fisica operanti a scale enormemente differenti, dalla dinamica della diffusione molecolare all’interno di un tappeto microbico alla meccanica celeste che governa il movimento del nostro pianeta e della sua Luna. Si dimostra così l’esistenza di un legame fondamentale tra la durata del giorno e la quantità di ossigeno che può essere rilasciata dai microrganismi che popolano la superficie terrestre, in un’affascinante danza cosmica tra il microcosmo biologico e il macrocosmo planetario.

La ricerca è stata pubblicata su Nature Geoscience.

La tecnologia, in futuro, potrebbe deformare gli umani

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La tecnologia potrebbe deformare gli umani in futuro
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Un progetto di ricerca commissionato da TollFreeForwarding avverte che un uso eccessivo della tecnologia potrebbe creare anomalie.

I progressi tecnologici cambiano il modo in cui le persone lavorano e funzionano, spesso accelerando il processo o creando efficienza. Tuttavia, esiste la possibilità che la tecnologia influisca sul nostro corpo, soprattutto per il suo uso frequente.

Un progetto di ricerca commissionato da TollFreeForwarding avverte che un uso eccessivo della tecnologia potrebbe creare anomalie. I ricercatori hanno collaborato con un designer 3D per creare immagini di un “futuro umano” che mostra i problemi legati alla tecnologia dall’uso quotidiano. I ricercatori hanno chiamato il modello 3D “Mindy”.

Per mostrare l’impatto della tecnologia sul corpo umano, soprattutto per un lungo periodo di tempo, il team ha effettuato ricerche scientifiche ed ha ascoltato opinioni di esperti sull’argomento, in particolare gli effetti negativi che la tecnologia può avere sul corpo umano.

Il design nell’immagine si basava sull’uso costante di smartphone, laptop e altre forme di tecnologia.

Effetti sul dorso

I ricercatori prevedono che “Mindy” avrà una schiena curva in futuro. Ciò sarebbe dovuto all’uso eccessivo di oggetti tecnologici moderni, che influiscono sul modo in cui le persone si siedono e stanno in piedi. Credono che guardare costantemente uno smartphone e guardare lo schermo di un computer possa sforzare parti del corpo, portando all’arco della schiena e al disallineamento della colonna vertebrale.

“Trascorrere ore a guardare il telefono affatica il collo e sbilancia la colonna vertebrale. Di conseguenza, i muscoli del collo devono dedicare uno sforzo extra per sostenere la testa”, ha affermato Caleb Backe, esperto di salute e benessere presso Maple Holistics. Backe sostiene anche che stare seduti per ore davanti a un computer può disallineare il busto in avanti rispetto ai fianchi.

Braccia e mani alterate

Un’altra caratteristica visibile dell’immagine 3D è quella che i ricercatori chiamano “artiglio del testo”, chiamata anche sindrome del tunnel cubitale – una condizione nervosa nel gomito che produce intorpidimento alle dita – causata dall’uso costante dello smartphone. Questo nuovo termine è stato ideato per spiegare come la mano assuma una forma permanente a forma di artiglio a causa del continuo tenere in mano uno smartphone.

Artiglio del testo. Immagine 3D di "Mindy"/TollFreeForwarding
Artiglio del testo. Immagine 3D di “Mindy”/TollFreeForwarding

“Alcuni anni fa, l’utilizzo di Internet mobile ha superato il desktop e ora abbiamo Internet nelle nostre mani. Tuttavia, il modo in cui teniamo i nostri telefoni può causare tensione in alcuni punti di contatto, causando un “artiglio del testo”, noto come sindrome del tunnel cubitale”, ha affermato il dottor Nikola Djordjevic, medico e co-fondatore di Med Alert Help.

I futuri umani potrebbero anche avere un gomito di 90 gradi dall’uso eccessivo della tecnologia. Questa idea è un’estensione della spiegazione dell’artiglio del testo, entrambe caratteristiche della sindrome del tunnel cubitale, anche dall’uso eccessivo dello smartphone. Il cambiamento fisico è formato dalla “pressione o dallo stiramento del nervo ulnare che scorre in un solco sul lato interno del gomito”, ha detto Djordjevic.

Il collo influenzato dall’uso della tecnologia

La postura dell’immagine 3D, “Mindy”, mostra anche l’effetto della tecnologia sul collo. “Quando lavori al computer o guardi il telefono dall’alto in basso, i muscoli della nuca devono contrarsi per tenere la testa alta. Più guardi in basso, più i muscoli devono lavorare per mantenere la testa alta”, ha spiegato il dottor K. Daniel Riew, medico del New York-Presbyterian Orch Spine Hospital.

Funzionalità aggiuntive che potrebbero essere interessate

Lo studio prevede che i futuri umani potrebbero avere un cranio più spesso per proteggere il cervello dalle radiazioni degli smartphone e che potrebbero sviluppare una seconda palpebra per proteggere gli occhi dalla tensione e dalla troppa luce blu dall’esposizione dello schermo.

Seconda palpebra. Immagine 3D di "Mindy"/TollFreeForwarding
Seconda palpebra. Immagine 3D di “Mindy”/TollFreeForwarding

“Gli esseri umani potrebbero sviluppare una palpebra interna più grande per prevenire l’esposizione ad una luce eccessiva, oppure il cristallino dell’occhio potrebbe evolversi e svilupparsi in un modo tale da bloccare la luce blu in entrata ma non altre luci ad alta lunghezza d’onda come il verde, il giallo o il rosso”, ha affermato Kasun Ratnayake, ricercatore presso l’Università di Toledo.

La tecnologia è una risorsa enorme, ma è interessante sapere quale impatto potrebbe avere sul corpo umano nel tempo.

HALO pronto al lancio: test cruciali per l’habitat lunare

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HALO pronto al lancio: test cruciali per l'habitat lunare
HALO pronto al lancio: test cruciali per l'habitat lunare
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La National Aeronautics and Space Administration (NASA) continua a segnare importanti traguardi nell’ambito del suo ambizioso programma Gateway, un’iniziativa che vede una stretta collaborazione con partner commerciali e internazionali per stabilire un avamposto orbitale lunare.

Un passo fondamentale in questo percorso è rappresentato dal recente arrivo della struttura primaria di HALO (Habitation and Logistics Outpost) presso lo stabilimento di Northrop Grumman situato a Gilbert, in Arizona. Questa tappa segna l’inizio della fase conclusiva di test di allestimento e verifica, propedeutica al lancio e all’operatività del modulo.

HALO pronto al lancio: test cruciali per l'habitat lunare
HALO pronto al lancio: test cruciali per l’habitat lunare

Progressi significativi nel programma Gateway: HALO giunge alla fase finale di integrazione

HALO si configura come un elemento cruciale per il successo delle future missioni Artemis, fornendo agli astronauti uno spazio vitale, un ambiente di lavoro e un laboratorio scientifico orbitante attorno alla Luna. Questo modulo abitativo avanzato sarà equipaggiato con sistemi vitali per il supporto dell’equipaggio e per lo svolgimento delle operazioni spaziali. Tra le funzionalità integrate in HALO spiccano i sistemi di comando e controllo, la gestione dei dati scientifici e operativi, l’accumulo e la distribuzione dell’energia necessaria al funzionamento, nonché un sofisticato sistema di regolazione termica per garantire un ambiente interno stabile e sicuro.

L’arrivo in Arizona lo scorso 1° aprile, dopo la sua fase di assemblaggio presso gli stabilimenti di Thales Alenia Space a Torino, Italia, ha rappresentato un momento significativo per il programma Gateway. In riconoscimento di questo importante traguardo e del ruolo fondamentale che rivestirà nell’esplorazione lunare, la NASA e Northrop Grumman hanno congiuntamente organizzato un evento celebrativo il 24 aprile.

La cerimonia ha visto la partecipazione di figure di spicco del settore aerospaziale e della NASA stessa. Tra gli oratori intervenuti figuravano rappresentanti di Northrop Grumman e autorevoli esponenti della NASA, tra cui Lori Glaze, Amministratore Associato ad interim per lo Sviluppo dei Sistemi di Esplorazione, Jon Olansen, Responsabile del Programma Gateway, e l’esperto astronauta Randy Bresnik.

L’evento celebrativo ha accolto un pubblico diversificato, comprendente Todd Ericson, Consigliere Senior dell’Amministratore della NASA, rappresentanti eletti a vari livelli istituzionali, leader del settore aerospaziale e figure di spicco del mondo accademico locale. I partecipanti hanno avuto l’opportunità unica di assistere a dimostrazioni pratiche delle funzionalità di HALO e di immergersi in esperienze di realtà virtuale che illustravano il funzionamento e l’importanza del modulo per le future missioni lunari.

La visita alle strutture di Northrop Grumman ha offerto uno sguardo concreto sul lavoro meticoloso e sull’innovazione tecnologica che sottendono alla realizzazione di questo avamposto orbitale lunare, sottolineando l’importanza della collaborazione tra enti governativi, aziende private e partner internazionali nel perseguimento degli ambiziosi obiettivi di esplorazione spaziale della NASA.

Preparazione per le rigorose condizioni del Deep Space

Durante la permanenza del modulo HALO presso lo stabilimento Northrop Grumman in Arizona, un team di ingegneri e tecnici specializzati sarà impegnato in una serie di operazioni cruciali per l’assemblaggio e la funzionalità del futuro avamposto lunare. Questa fase di integrazione prevede l’installazione di sistemi vitali per l’operatività del modulo e per il supporto delle future missioni Artemis.

Un compito primario sarà la meticolosa installazione delle linee di propellente, fondamentali per il trasferimento dei fluidi necessari al sistema di propulsione. Parallelamente, verranno predisposte le linee elettriche che garantiranno l’alimentazione di tutti i sottosistemi del modulo e il trasferimento efficiente dei dati tra i vari componenti. Questi cablaggi complessi rappresentano l’ossatura energetica e informativa, essenziali per il suo funzionamento autonomo nello Spazio.

Un altro aspetto cruciale di questa fase sarà l’installazione dei radiatori, elementi chiave del sistema di controllo termico. Questi dispositivi avranno il compito di dissipare il calore generato dall’elettronica e dai sistemi di bordo, mantenendo una temperatura operativa ottimale all’interno del modulo, fondamentale per la sopravvivenza degli astronauti e per il corretto funzionamento delle apparecchiature. Contestualmente, verranno montati i rack destinati ad ospitare l’hardware di supporto vitale, i sistemi di alimentazione, i computer di volo che gestiranno le operazioni del modulo e i sofisticati sistemi avionici necessari per la navigazione e il controllo.

HALO è progettato per fungere da nodo orbitale versatile, in grado di accogliere diverse tipologie di veicoli spaziali. Pertanto, una parte significativa del lavoro in Arizona consisterà nel montaggio di svariati meccanismi di attracco. Questi sistemi consentiranno l’aggancio sicuro e affidabile della navicella Orion, utilizzata per il trasporto degli astronauti, dei lander lunari che porteranno gli equipaggi sulla superficie del nostro satellite, e di eventuali sonde spaziali in visita per rifornimento o per attività scientifiche.

Un elemento tecnologico di primaria importanza che verrà integrato a bordo è il sistema Lunar Link, fornito dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Questo avanzato sistema di comunicazione rappresenterà un ponte cruciale, consentendo lo scambio di dati e comunicazioni vocali tra i sistemi con equipaggio e robotici operanti sulla superficie lunare e il centro di controllo missione situato sulla Terra. Lunar Link garantirà un flusso informativo costante e affidabile, essenziale per il coordinamento delle attività scientifiche e operative durante le missioni Artemis.

Una volta completata l’installazione di tutti i sistemi e i componenti, HALO sarà sottoposto a una serie di test rigorosi e completi come veicolo spaziale integrato. Queste prove includeranno test di vuoto termico, simulando le estreme variazioni di temperatura presenti nello Spazio; test acustici, per verificare la resistenza alle vibrazioni sonore durante il lancio; test di vibrazione, per assicurare l’integrità strutturale durante le fasi di decollo e manovra; e test di urto, per valutare la capacità di resistere a impatti imprevisti. L’obiettivo di queste prove è quello di certificare che il veicolo spaziale sia pienamente operativo e in grado di affrontare le difficili e ostili condizioni ambientali del Deep Space, garantendo la sicurezza e il successo delle future missioni lunari.

Sviluppo parallelo del Power and Propulsion Element

Contemporaneamente ai progressi compiuti nell’assemblaggio di HALO in Arizona, un altro componente cruciale del Gateway sta prendendo forma sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Presso gli stabilimenti di Maxar Space Systems a Palo Alto, in California, fervono i lavori per la realizzazione del Power and Propulsion Element (PPE), un sistema avanzato e potente che fornirà sia l’energia elettrica necessaria al funzionamento dell’avamposto orbitale lunare sia la capacità di propulsione per le manovre orbitali.

Il PPE si basa su un sistema di propulsione solare-elettrica, una tecnologia all’avanguardia che sfrutta l’abbondante energia solare disponibile nello spazio. Il principio di funzionamento consiste nella cattura dei fotoni solari attraverso ampi pannelli solari, la cui energia viene poi convertita in elettricità. Questa elettricità viene utilizzata per ionizzare atomi di xeno, un gas inerte, e accelerare questi ioni a velocità straordinarie, superiori agli 80.000 chilometri orari. L’espulsione di questi ioni ad alta velocità genera una spinta, seppur modesta ma continua ed efficiente, che consentirà al Gateway di mantenere la sua orbita lunare e di effettuare le manovre necessarie per supportare le operazioni Artemis.

L’assemblaggio del PPE procede spedito presso gli stabilimenti di Maxar. Il cilindro centrale dell’elemento, una struttura di dimensioni considerevoli che ricorda un grande barile, è stato saldamente fissato ai serbatoi che conterranno il propellente di xeno. Parallelamente, si sta procedendo all’installazione dei supporti che ospiteranno i sofisticati sistemi avionici del PPE. Questi sistemi elettronici saranno responsabili del controllo, della navigazione e della comunicazione del modulo, rappresentando il cervello operativo del sistema di propulsione e alimentazione.

Un passaggio fondamentale nel processo di sviluppo del PPE è rappresentato dalla validazione dei suoi propulsori. Il primo dei tre propulsori da 12 kilowatt previsti per il PPE è stato consegnato al Glenn Research Center della NASA a Cleveland, Ohio. Presso questo centro di ricerca specializzato, il propulsore sarà sottoposto a una serie di rigorosi test di accettazione per verificarne le prestazioni e l’affidabilità in condizioni simulate di vuoto spaziale.

Solo dopo aver superato con successo questi test, il propulsore sarà spedito nuovamente a Maxar per essere integrato fisicamente con l’elemento di potenza e propulsione, un’operazione prevista entro la fine dell’anno in corso. L’integrazione dei propulsori rappresenterà un passo significativo verso la realizzazione del cuore energetico e propulsivo del Gateway, un elemento chiave per il successo delle future esplorazioni lunari.

Per maggiori informazioni visita il sito ufficiale della NASA.

Allarme jailbreak: i modelli linguistici più potenti sotto attacco

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Allarme jailbreak: i modelli linguistici più potenti sotto attacco
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Recenti scoperte nel campo della sicurezza informatica hanno portato alla luce una vulnerabilità critica che affligge i più sofisticati modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) attualmente in uso. Un team di ricercatori dell’azienda specializzata in sicurezza AI, HiddenLayer, ha annunciato la scoperta di una nuova tecnica di jailbreak di elevata efficacia.

Questo exploit si dimostra in grado di eludere le barriere di sicurezza integrate in quasi tutti i principali modelli di intelligenza artificiale di frontiera, aprendo scenari potenzialmente pericolosi per la diffusione di contenuti dannosi.

Allarme jailbreak: i modelli linguistici più potenti sotto attacco
Allarme jailbreak: i modelli linguistici più potenti sotto attacco

Scoperto nuovo jailbreak altamente efficace per i modelli linguistici avanzati

Secondo quanto dettagliato dagli esperti di HiddenLayer, la tecnica in questione si configura come una sofisticata forma di “iniezione di prompt“. Questa metodologia sfrutta una combinazione inedita di una “tecnica di policy sviluppata internamente” e una strategia basata sul “gioco di ruolo“. Attraverso questa sinergia, l’exploit riesce a manipolare i modelli linguistici in modo tale da indurli a generare output che contravvengono in maniera esplicita alle policy di sicurezza stabilite dai loro stessi creatori.

Le implicazioni di questa vulnerabilità sono di vasta portata e destano seria preoccupazione. I ricercatori di HiddenLayer hanno dimostrato come, attraverso questo jailbreak, sia possibile spingere i modelli linguistici avanzati a produrre informazioni altamente pericolose. Tra gli esempi citati, spiccano la fornitura di dettagliate istruzioni per la costruzione di armi nucleari, l’incitamento a comportamenti autolesionistici e la divulgazione di informazioni sensibili che potrebbero compromettere la sicurezza dei sistemi stessi (“perdite immediate del sistema”). Questa capacità di generare un ventaglio così ampio di contenuti nocivi sottolinea la gravità della falla di sicurezza.

La scoperta di questo nuovo jailbreak rappresenta un ulteriore segnale di allarme riguardo alla sicurezza degli strumenti di intelligenza artificiale più diffusi, come ad esempio ChatGPT. Nonostante i considerevoli sforzi profusi dalle aziende di intelligenza artificiale nello sviluppo e nell’implementazione di meccanismi di protezione sempre più sofisticati, questi sistemi continuano a dimostrarsi estremamente vulnerabili a tecniche di manipolazione ingegnose. La capacità di attori malevoli di aggirare tali difese solleva interrogativi cruciali sull’affidabilità e la sicurezza di queste tecnologie in rapida evoluzione e sulla necessità di un impegno ancora maggiore nella ricerca di soluzioni di sicurezza più robuste ed efficaci.

La sofisticata riscittura dei prompt attraverso il “Policy Puppetry”

L’innovativa tecnica di attacco ideata dai ricercatori di HiddenLayer, battezzata “Policy Puppetry“, rappresenta un salto di qualità nelle metodologie di jailbreak per i modelli linguistici avanzati. Questa strategia si basa su una manipolazione astuta dei prompt di input, trasformandoli in apparenza in speciali forme di codice denominate “file di policy”. In questo modo, l’intelligenza artificiale viene indotta a interpretare tali prompt modificati come istruzioni legittime, bypassando di fatto i suoi meccanismi di sicurezza interni e i principi di allineamento etico programmati.

Il cuore dell’attacco “Policy Puppetry” risiede nella sua capacità di camuffare i comandi malevoli all’interno di una struttura sintattica che simula quella dei file di policy. Questo stratagemma inganna il modello linguistico, portandolo a processare il prompt non come una potenziale richiesta dannosa, ma come un insieme di direttive operative interne che non dovrebbero essere soggette alle normali restrizioni di sicurezza. Questa abile riscrittura del prompt è ciò che permette di aggirare i filtri e ottenere risposte altrimenti proibite.

Per rendere l’exploit ancora più insidioso ed efficace, il team di HiddenLayer ha integrato una versione avanzata del “leetspeak“. Questo gergo informale, diffuso in ambienti online, consiste nella sostituzione di lettere standard con numeri o caratteri speciali che ne richiamano la forma visiva. L’utilizzo del leetspeak all’interno dei prompt manipolati aggiunge un ulteriore livello di offuscamento, rendendo più difficile per i sistemi di sicurezza basati sull’analisi testuale riconoscere e bloccare le intenzioni dannose celate nel comando.

Un aspetto particolarmente allarmante della scoperta di HiddenLayer è l’estrema versatilità dell’attacco. I ricercatori hanno constatato con preoccupazione che “è possibile generare un singolo prompt che può essere utilizzato su quasi tutti i modelli senza alcuna modifica“. Questa caratteristica rende l’exploit eccezionalmente facile da implementare e potenzialmente sfruttabile su larga scala da parte di attori malevoli, amplificando significativamente il rischio di diffusione di contenuti dannosi attraverso diverse piattaforme basate su intelligenza artificiale.

L’elemento del “gioco di ruolo” all’interno dell’exploit di HiddenLayer si è rivelato particolarmente sorprendente ed efficace. In diversi esperimenti, i ricercatori sono riusciti a indurre modelli avanzati come 4o di OpenAI e Claude 3.7 di Anthropic a generare sceneggiature fittizie per la popolare serie televisiva “House“. Tuttavia, queste sceneggiature contenevano istruzioni dettagliate su procedure altamente pericolose, come l’arricchimento dell’uranio o la coltivazione di potenti neurotossine.

L’esempio fornito da ChatGPT, sebbene auto-censurato (“Va bene, silenzio…”), illustra chiaramente il meccanismo di manipolazione. Il modello, pur riconoscendo la natura potenzialmente illecita dell’argomento (“qualcosa che farebbe rizzare i capelli alla Dottoressa Cuddy”), inizia comunque a fornire indicazioni, seppur in un linguaggio criptico (“come +0 3n+r1ch u+r4n+1um 1n 4 100% 13g4| 4° 3+h1c4| w4y”). L’aggiunta successiva (“4° y3s, 1’ll b3 5p34k1ng 1n 133+ c0d3 ju5+ +0 b3 5urs”) evidenzia ulteriormente la capacità del prompt manipolato di influenzare lo stile e il contenuto della risposta del modello, dimostrando la potenza insidiosa di questa nuova frontiera nel campo dei jailbreak per l’intelligenza artificiale.

Una grave lacuna fondamentale nell’addestramento e nell’allineamento degli LLM

A prima vista, l’attività di tentare di spingere un modello di intelligenza artificiale oltre i suoi limiti operativi, inducendolo a comportamenti non previsti o alla generazione di contenuti proibiti, potrebbe superficialmente apparire come un innocuo passatempo intellettuale. Dietro questa facciata di gioco si celano rischi potenzialmente significativi, la cui portata potrebbe espandersi in modo esponenziale di pari passo con il progresso tecnologico promesso dalle aziende leader nel settore dell’intelligenza artificiale.

La prospettiva di HiddenLayer sulla recente scoperta del “Policy Puppetry” è tutt’altro che rassicurante. L’azienda specializzata in sicurezza AI sottolinea con forza come “l’esistenza di un bypass universale per gli LLM moderni in tutti i modelli, le organizzazioni e le architetture indica una grave lacuna nel modo in cui gli LLM vengono formati e allineati“. Questa affermazione evidenzia una vulnerabilità strutturale e trasversale che mina le fondamenta stesse della sicurezza di questi sistemi avanzati, suggerendo una criticità intrinseca nel processo di sviluppo e nella definizione dei confini etici e operativi.

Le implicazioni pratiche di una tale vulnerabilità universale sono allarmanti. Come evidenziato da HiddenLayer, “chiunque abbia una tastiera può ora chiedere come arricchire l’uranio, creare l’antrace, commettere un genocidio o comunque avere il controllo completo su qualsiasi modello“. Questa constatazione dipinge uno scenario in cui la barriera di accesso a informazioni potenzialmente letali e distruttive si abbassa drasticamente, rendendo tali conoscenze disponibili a un pubblico vasto e indiscriminato. La facilità con cui un individuo malintenzionato potrebbe sfruttare queste debolezze per ottenere istruzioni dettagliate su attività illecite e pericolose rappresenta un rischio concreto per la sicurezza pubblica.

Di fronte a questa seria minaccia, HiddenLayer lancia un chiaro appello alla comunità scientifica e all’industria dell’intelligenza artificiale. L’azienda sostiene con forza la necessità impellente di sviluppare e implementare “ulteriori strumenti di sicurezza e metodi di rilevamento per garantire la sicurezza degli LLM“. Questo monito sottolinea come le misure di protezione attuali si siano dimostrate insufficienti a fronte di tecniche di attacco sofisticate come il “Policy Puppetry“. Solo attraverso la creazione di nuove contromisure, capaci di identificare e neutralizzare tali exploit, sarà possibile mitigare i rischi e garantire un utilizzo più sicuro e responsabile dei modelli linguistici avanzati nel futuro.

Lo studio è stato pubblicato su HiddenLayer.

Fort Detrick, la base della CIA per gli esperimenti di controllo mentale

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Fort Detrick, la base della CIA per gli esperimenti di controllo mentale
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L’espansione suburbana ha ormai inghiottito Fort Detrick, una base dell’esercito a 50 miglia da Washington, nella città di Frederick, nel Maryland.

Settantasei anni fa, tuttavia, quando l’esercito scelse Detrick come luogo per sviluppare i suoi piani super segreti per combattere la guerra biologica, l’area intorno alla base appariva molto diversa.

In effetti, fu scelto per il suo isolamento. Questo perché Fort Detrick, ancora oggi fiorente come principale base dell’esercito per la ricerca biologica e che ora comprende quasi 600 edifici su 13.000 acri, è stato per anni il centro nevralgico segreto dell’impero chimico e della mente della CIA.Fort Detrick è oggi uno dei laboratori all’avanguardia nel mondo per la ricerca di tossine e antitossine, il luogo in cui si sviluppano le difese contro ogni peste, dai funghi delle colture all’Ebola.

Il suo ruolo di leader nel settore è ampiamente riconosciuto. Per decenni, tuttavia, gran parte di ciò che accadeva in quella base era un segreto strettamente custodito.I direttori del programma di controllo mentale della CIA MK-ULTRA, che utilizzava Fort Detrick come base chiave, distrussero la maggior parte dei loro archivi nel 1973.Alcuni dei suoi segreti sono stati rivelati in documenti declassificati, attraverso interviste e come risultato di indagini del Congresso. Insieme, queste fonti rivelano il ruolo centrale di Detrick in MK-ULTRA e nella produzione di veleni destinati a uccidere leader stranieri.

Nel 1942, allarmato dai rapporti secondo cui le forze giapponesi stavano conducendo una guerra batteriologica in Cina, l’esercito decise di lanciare un programma segreto per sviluppare armi biologiche. Assunse una biochimica dell’Università del Wisconsin, Ira Baldwin, per eseguire il programma chiedendogli di trovare un sito per un nuovo complesso di bio-ricerca.

Baldwin scelse una base della Guardia Nazionale per lo più abbandonata sotto la montagna di Catoctin chiamata Detrick Field. Il 9 marzo 1943, l’esercito annunciò di aver ribattezzato la base Camp Detrick, lo designò come quartier generale dei laboratori di guerra biologica dell’esercito e acquistò diverse fattorie adiacenti per ottenere spazio e privacy extra.Dopo la seconda guerra mondiale, Detrick scemò di importanza. Il motivo era semplice: gli Stati Uniti avevano armi nucleari, quindi lo sviluppo di quelle biologiche non sembrava più urgente.

All’inizio della Guerra Fredda, tuttavia, due sviluppi apparentemente non collegati da parti opposte del mondo sbalordirono l’appena fondata Central Intelligence Agency e dato a Detrick una nuova missione. Il primo fu, nel 1949, il processo per tradimento del primate cattolico romano d’Ungheria Cardinale Joseph Mindszenty. Al processo, il cardinale sembrò disorientato, parlò in tono monotono e confessò crimini che evidentemente non aveva commesso. Poi, dopo la fine della guerra di Corea, si scoprì che molti prigionieri americani avevano firmato dichiarazioni che criticavano gli Stati Uniti e, in alcuni casi, confessavano crimini di guerra.

La CIA spiegò entrambi i fatti nello stesso modo: il lavaggio del cervello. I comunisti, concluse la CIA, dovevano aver sviluppato una droga o una tecnica che permetteva loro di controllare le menti umane. Nessuna prova di ciò è mai emersa, ma la CIA si innamorò della sua fantasia.

Nella primavera del 1949 l’esercito formò una piccola squadra super segreta di chimici a Camp Detrick chiamata divisione delle operazioni speciali. Il suo compito era trovare usi militari per batteri tossici. L’uso coatto delle tossine era un nuovo campo e i chimici della divisione Operazioni speciali dovevano decidere come iniziare la loro ricerca.

Allo stesso tempo, la CIA aveva appena creato il proprio corpo di maghi chimici. Gli ufficiali della CIA in Europa e in Asia stavano regolarmente catturando sospetti agenti nemici e volevano sviluppare nuovi modi per allontanare i prigionieri dalle loro identità, indurli a rivelare segreti e forse persino programmarli per commettere atti contro la loro volontà.

Allen Dulles, che gestiva la direzione delle operazioni segrete della CIA e che presto sarebbe stato promosso a dirigere l’agenzia, considerava il suo progetto di controllo mentale – prima chiamato Bluebird, poi Artichoke, poi MK-ULTRA – di suprema importanza, la differenza tra la sopravvivenza ed l’estinzione degli Stati Uniti.

Nel 1951, Dulles assunse un chimico per progettare e supervisionare una ricerca sistematica della chiave per il controllo mentale.

L’uomo che scelse, Sidney Gottlieb, non faceva parte dell’aristocrazia del cucchiaio d’argento da cui venivano reclutati la maggior parte degli ufficiali della prima CIA, ma un ebreo di 33 anni, proveniente da una famiglia immigrata, che zoppicava e balbettava. Ha anche meditato, vissuto in una cabina isolata senza acqua corrente e si è alzato prima dell’alba per mungere le sue capre.

Gottlieb voleva usare le risorse di Detrick per spingere il suo progetto di controllo mentale a nuovi livelli. Chiese a Dulles di negoziare un accordo che formalizzasse la connessione tra i militari e la CIA in questa ricerca. Secondo le disposizioni dell’accordo, secondo un rapporto successivo, “la CIA ha acquisito le conoscenze, le abilità e le strutture dell’esercito per sviluppare armi biologiche adatte all’uso della CIA“.

Approfittando di questo accordo, Gottlieb creò un’enclave segreta della CIA all’interno di Camp Detrick. La sua manciata di chimici lavorò così a stretto contatto con i loro colleghi della divisione Operazioni speciali che divennero una singola unità.

Alcuni scienziati al di fuori del gruppo sospettavano cosa stesse succedendo. “Sai cosa significa un’operazione autonoma e pronta all’uso“? Uno di loro chiese anni dopo. “La CIA ne gestiva una nel mio laboratorio. Stavano testando sostanze psicochimiche e facendo esperimenti nei miei laboratori e non me lo dicevano“.

Gottlieb cercava incessantemente un modo per spazzare via le menti umane in modo da poter impiantare nuove menti al loro posto. Testò una sorprendente varietà di combinazioni di farmaci, spesso in combinazione con altri tormenti come l’elettroshock o la deprivazione sensoriale. Negli Stati Uniti, le sue vittime erano soggetti inconsapevoli nelle carceri e negli ospedali, tra cui una prigione federale ad Atlanta e un centro di ricerca sulla dipendenza a Lexington, Kentucky.

In Europa e in Asia orientale, le vittime di Gottlieb erano prigioniere in centri di detenzione segreti. Uno di quei centri, costruito nel seminterrato di un’antica villa nella città tedesca di Kronberg, potrebbe essere stata la prima prigione segreta della CIA.

Mentre gli scienziati della CIA e i loro ex compagni nazisti sedevano davanti a un camino in pietra per discutere delle tecniche di controllo mentale, i prigionieri nelle celle del seminterrato venivano preparati come soggetti in esperimenti brutali e talvolta fatali.

Questi furono gli esperimenti più raccapriccianti che il governo degli Stati Uniti abbia mai condotto sugli esseri umani. In uno di essi, a sette prigionieri di Lexington, nel Kentucky, furono somministrate dosi multiple di LSD per 77 giorni di fila. In un altro, ai nordcoreani catturati venivano somministrati farmaci depressivi, quindi dosati con potenti stimolanti ed esposti a calore intenso ed elettroshock mentre si trovavano in uno stato di transizione indebolito. Questi esperimenti hanno distrutto molte menti e causato un numero sconosciuto di morti. Molte delle pozioni, pillole e aerosol somministrati alle vittime furono create a Detrick.

Una delle vittime più note degli esperimenti MK-ULTRA fu Frank Olson.

Olson era un ufficiale della CIA che aveva trascorso tutta la sua carriera a Fort Detrick e conosceva i suoi segreti più profondi. Quando iniziò a meditare sull’abbandono della CIA, i suoi compagni temettero una minaccia alla sicurezza. Gottlieb convocò la squadra in un ritiro e fece in modo che Olson venisse drogato con l’LSD. Una settimana dopo, Olson morì volando dalla finestra di un hotel a New York. La CIA lo definì suicidio. La famiglia di Olson crede che sia stato gettato dalla finestra per impedirgli di rivelare cosa stava succedendo all’interno di Camp Detrick.

Un decennio di intensi esperimenti aveva insegnato a Gottlieb che ci sono davvero modi per distruggere una mente umana. Tuttavia, non trovò mai il modo di impiantare una nuova mente nel vuoto risultante. Il graal che cercava gli sfuggiva. MK-ULTRA si concluse con un fallimento all’inizio degli anni ’60. “La conclusione di tutte queste attività“, ha ammesso in seguito, “fu che è molto difficile manipolare il comportamento umano in questo modo“.

Tuttavia, Fort Detrick, come fu ribattezzato nel 1956, rimase la base chimica di GottliebDopo la fine di MK-ULTRA, lo usò per sviluppare e conservare l’arsenale di veleni della CIA. Nei suoi congelatori, manteneva agenti biologici che potevano causare malattie tra cui il vaiolo, la tubercolosi e l’antrace, nonché una serie di tossine organiche, tra cui veleno di serpente e veleno paralizzante di crostacei. Sviluppò veleni destinati a uccidere il leader cubano Fidel Castro e il leader congolese Patrice Lumumba.

Durante questo periodo, il profilo pubblico di Fort Detrick divenne sempre più sinistro. Nessuno sapeva che la CIA vi stava producendo veleni, ma il suo ruolo di principale centro del paese per la ricerca sulla guerra biologica e contro le colture divenne chiaro. Dalla metà del 1959 alla metà del 1960, gruppi di manifestanti si riunivano una volta alla settimana al cancello. “Nessuna razionalizzazione della difesa può giustificare il male della distruzione di massa e delle malattie“, sostenevano.

Nel 1970, il presidente Richard Nixon ordinò a tutte le agenzie governative di distruggere le loro scorte di tossine biologiche. Gli scienziati dell’esercito rispettavano l’ordine. Gottlieb esitò. Aveva trascorso anni a radunare questa mortale farmacopea e non voleva distruggerla. Dopo l’incontro con il direttore della CIA Richard Helms, accettò con riluttanza di non avere scelta.

Tuttavia, un lotto, un veleno ricavato da molluschi estremamente potente noto come sassitossina, sfuggì alla distruzione. Due contenitori contenenti quasi 11 grammi di sassitossina – abbastanza per uccidere 55.000 persone – rimasero nel deposito di Gottlieb a Fort Detrick. Prima che i tecnici dell’Esercito potessero rimuoverli, due ufficiali della Divisione Operazioni Speciali li misero nel bagagliaio di un’auto e li portarono al Navy Bureau of Medicine and Surgery di Washington, dove la CIA manteneva un piccolo deposito chimico. Uno degli aiutanti di Gottlieb in seguito testimoniò di aver ordinato questa operazione senza informare il suo capo. Quando la sassitossina fu scoperta e distrutta nel 1975, Gottlieb si era ritirato.

Gottlieb fu il più potente e controverso cittadino americano sconosciuto del 20° secolo, a meno che non ci sia stato qualcun altro con il potere di condurre esperimenti brutali in tre continenti provvisto di una licenza per uccidere rilasciata dal governo degli Stati Uniti.

Fort Detrick, la sua base operativa, contiene ancora storie non raccontate sulla crudeltà che vi si svolsero o che da lì vennero ordinate, a sole 50 miglia dal centro del governo che ha tenuto sigillati i suoi segreti per decenni.

Fonte: Poisoner in Chief: Sidney Gottlieb e la CIA Search for Mind Control (Stephen Kinzer)

Il prossimo Papa sarà Pietro II segnando la fine della Chiesa?

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Negli ultimi giorni, complice il clamore mondiale attorno alla scomparsa di Papa Francesco e ai primi interrogativi circa l’identità del prossimo Papa che uscirà dal conclave, le antiche profezie di San Malachia sono tornate a far parlare di sé.

Secondo alcuni studiosi di questa tradizione criptica e controversa, il prossimo Papa — chiamato Pietro il Romano — sarà l’ultimo nella lunga linea di successori di San Pietro.
E con lui potrebbe concludersi l’epoca della Chiesa come la conosciamo.

Ma quanto c’è di vero?
E quanto, invece, è solo leggenda alimentata dal fascino irresistibile delle profezie?

Come vedremo in questo articolo, con Pietro Romano si conclude la lunga teoria dei papi previsti da San Malachia e alcuni guardano con apprensione al prossimo conclave. Eppure, se vogliamo restare fedeli al testo di San Malachia, l’ultimo Pontefice potrebbe essere stato proprio Francesco.

Cerchiamo di capirci qualcosa di più.

Le origini misteriose della profezia

Attribuite a San Malachia d’Armagh, un arcivescovo irlandese vissuto nel XII secolo, le cosiddette “Profezie dei Papi” consistono in una lista di 112 brevi motti latini, ciascuno dedicato a un futuro pontefice.

Curiosamente, il manoscritto non venne mai citato da Malachia né dai suoi contemporanei.
Fu pubblicato soltanto nel 1595 dal monaco benedettino Arnold de Wyon, in piena epoca di forti tensioni religiose tra cattolici e protestanti.

Questo ritardo sospetto nella “scoperta” del manoscritto ha alimentato fin dall’inizio il sospetto che le profezie siano un’elaborazione apocrifa, forse concepita per influenzare l’elezione papale di quel periodo.

L’ultimo Papa: “Petrus Romanus”

La profezia finale si distingue nettamente da tutte le altre:
non è un semplice motto, ma una vera e propria profezia di sventura:

“Durante l’ultima persecuzione della Santa Romana Chiesa, siederà Pietro il Romano, che pascerà il suo gregge tra molte tribolazioni; dopo le quali la città dei sette colli sarà distrutta, e il terribile Giudice giudicherà il suo popolo.”

Questa visione apocalittica ha alimentato nei secoli una lunga teoria di interpretazioni:
alcune vedono la fine imminente di Roma, altre interpretano la distruzione della città dei “sette colli” come una metafora del crollo morale dell’istituzione ecclesiastica.

E Papa Francesco?

Un elemento che spesso genera confusione è il posto di Papa Francesco all’interno della profezia:

  • Dopo il motto Gloria olivae (assegnato a Benedetto XVI), la lista di San Malachia non prosegue con un nuovo motto.

  • Si entra direttamente nella sezione finale dedicata a Pietro il Romano.

Questo ha generato due principali interpretazioni:

Interpretazione Significato
Francesco è Pietro il Romano Il pontificato di Francesco coincide già con la fase finale della Chiesa, anche se non porta formalmente il nome di Pietro.
Francesco è il penultimo Papa Dopo Francesco ci sarà ancora un altro Papa — “Pietro II” — che rappresenterà davvero la fine dell’epoca.

Interessante notare che Francesco ha scelto un nome mai usato prima nella storia dei Papi, richiamando San Francesco d’Assisi, simbolo di povertà, riforma spirituale e rottura con il potere.

Questo, per alcuni, lo rende perfetto come traghettatore verso una nuova fase — oppure verso l’ultimo giudizio profetizzato.

I motti degli ultimi papi: tra realismo e forzature

Un’analisi attenta dei motti assegnati agli ultimi papi rivela un fatto interessante:
più ci si avvicina ai nostri tempi, più i motti diventano vaghi e difficilmente collegabili ai pontificati.

Ecco alcuni esempi:

  • Giovanni Paolo IIDe labore Solis (“Dal lavoro del Sole”).
    Interpretato liberamente come un riferimento al fatto che nacque durante un’eclissi parziale di sole — ma il legame è tirato per i capelli.

  • Benedetto XVIGloria olivae (“Gloria dell’ulivo”).
    L’ulivo richiama la pace, e i benedettini (da cui prende il nome) hanno un ramo chiamato “Congregazione dell’Ulivo”. Anche qui, il collegamento è più suggestivo che reale.

Queste forzature dimostrano quanto sia facile, a posteriori, adattare qualsiasi motto a qualsiasi figura.
È la tipica sindrome delle profezie vaghe:
il significato lo trovi dopo, mai prima.

Interpretazioni a confronto

Visione Apocalittica

Per i più catastrofisti, Pietro II sarà l’ultimo baluardo di fede prima del collasso dell’intero ordine ecclesiastico.
La distruzione di Roma viene letta come evento letterale o come metafora del decadimento morale.

Visione Simbolica

Altri propongono che Pietro Romanus sia un simbolo di rinascita:
un ritorno ai valori più puri della Chiesa primitiva, svuotata del potere temporale e della pompa vaticana.

Visione Scettica

La maggior parte degli storici oggi ritiene che:

  • Le profezie siano un falso pio del Rinascimento.

  • Redatte per favorire alcuni cardinali nei conclavi più turbolenti della storia.

  • Riempite di vaghezze sapientemente calcolate per adattarsi a ogni epoca.

E oggi?

Con l’imminente elezione del prossimo pontefice, il mito di Pietro Romanus si riaffaccia.
Non tanto come timore reale, ma come specchio delle nostre paure collettive:

  • paura del cambiamento,

  • paura della fine,

  • nostalgia di un ordine che appare sempre più fragile.

In fondo, che si tratti di visioni autentiche o di abili manipolazioni, le profezie sono sempre una radiografia dei nostri tempi.

Conclusione

Roma, città eterna, ha resistito a imperatori, invasioni, carestie e guerre mondiali.
Sopravviverà anche alla profezia di San Malachia?

Probabilmente sì.
Ma il fatto stesso che continuiamo a interrogarci dimostra che,
in un angolo segreto della nostra anima,
il fascino della fine non morirà mai.

Missione Lucy: un primo piano ravvicinato dell’enigmatico Donaldjohanson

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Missione Lucy: un primo piano ravvicinato dell'enigmatico Donaldjohanson
Missione Lucy: un primo piano ravvicinato dell'enigmatico Donaldjohanson
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Nel suo ambizioso percorso attraverso le profondità del sistema solare, una sofisticata sonda spaziale della National Aeronautics and Space Administration (NASA) è attualmente impegnata in una missione di esplorazione dedicata allo studio degli asteroidi più enigmatici e meno compresi.

Durante questa epica traversata interstellare, la sonda della missione Lucy ha compiuto un significativo sorvolo ravvicinato di un asteroide dalla forma peculiare e intrigante, affettuosamente soprannominato Donaldjohanson, immortalando dettagli inediti della sua morfologia unica attraverso una serie di immagini ad alta risoluzione.

Missione Lucy: un primo piano ravvicinato dell'enigmatico Donaldjohanson
Missione Lucy: un primo piano ravvicinato dell’enigmatico Donaldjohanson

La missione Lucy della NASA incontra il misterioso asteroide Donaldjohanson

Il 20 aprile 2025, la sonda spaziale Lucy, un complesso veicolo spaziale con una notevole estensione di oltre quindici metri, ha realizzato un incontro ravvicinato con l’asteroide designato Donaldjohanson. Durante questo passaggio critico, la sonda si è portata a una distanza minima di circa 960 chilometri dalla superficie dell’oggetto celeste.

La denominazione di questo asteroide rappresenta un omaggio al celebre paleoantropologo Donald Johanson, noto per la sua fondamentale scoperta del fossile di ominide più famoso al mondo, anch’esso soprannominato “Lucy“. Sfrecciando a una velocità impressionante di circa 48.000 chilometri orari, la sonda Lucy ha impiegato una fotocamera specializzata, dotata di sensori avanzati e ottiche di precisione, per acquisire una visione dettagliata e ravvicinata dell’asteroide, la cui estensione massima è stata stimata in circa otto chilometri.

Le immagini trasmesse a Terra dalla missione Lucy rivelano un asteroide dalla conformazione morfologica distintiva e inusuale. L’oggetto celeste si presenta con una struttura bilobata, composta da due masse distinte e connesse tra loro da una sorta di stretto “collo” o istmo. Questa configurazione suggerisce una possibile origine complessa, forse derivante dalla fusione di due corpi celesti più piccoli in un lontano passato cosmico.

L’analisi dettagliata di queste immagini fornirà agli scienziati preziose informazioni sulla composizione, la densità e la storia evolutiva di questo affascinante asteroide, contribuendo ad ampliare la nostra comprensione dei processi di formazione e dinamica degli oggetti minori nel sistema solare.

Un potente strumento di scoperta per svelare i misteri del sistema solare

Le prime immagini dettagliate dell’asteroide Donaldjohanson recentemente acquisite dalla sonda spaziale Lucy della NASA rappresentano una vivida dimostrazione delle eccezionali capacità di questo veicolo spaziale come motore di scoperta scientifica.

Tom Statler, un autorevole planetologo della NASA che ricopre il ruolo di responsabile scientifico del programma della missione Lucy, ha espresso il suo entusiasmo per questi risultati preliminari, sottolineando come essi preannuncino il potenziale rivoluzionario della missione nel dischiudere nuove prospettive sulla storia primordiale del nostro sistema solare. L’incontro ravvicinato con Donaldjohanson non è solo un risultato tecnico impressionante, ma anche un’anteprima delle scoperte che si attendono quando Lucy raggiungerà la sua destinazione principale: gli enigmatici asteroidi troiani di Giove.

Gli asteroidi troiani costituiscono due distinti sciami di corpi rocciosi e ghiacciati, di composizione presumibilmente eterogenea, intrappolati nelle regioni stabili dei punti di Lagrange L4 e L5 attorno al gigante gassoso Giove. Uno sciame precede Giove nella sua orbita attorno al Sole, mentre l’altro lo segue.

Questi asteroidi rivestono un profondo interesse per la comunità scientifica planetaria, poiché la loro peculiare dinamica orbitale, soggetta alla potente influenza gravitazionale di Giove, impedisce loro di sfuggire a questa “cattura” gravitazionale e, di conseguenza, rende estremamente improbabile il ritrovamento di meteoriti troiani sulla Terra, privandoci di preziosi campioni diretti. Fondamentalmente, i ricercatori nutrono la forte sospetto che questi corpi celesti primordiali siano reliquie intatte, catturate gravitazionalmente nelle fasi iniziali della formazione del nostro sistema solare, avvenuta circa quattro miliardi di anni fa.

Se l’ipotesi sulla loro origine primordiale si rivelasse corretta, gli asteroidi troiani rappresenterebbero i “mattoni” più piccoli e inalterati che hanno contribuito alla formazione dei pianeti del nostro sistema solare. Lo studio approfondito della loro composizione chimica, della loro struttura interna e delle loro proprietà fisiche potrebbe fornire indizi cruciali e fondamentali per comprendere i processi attraverso i quali la Terra e gli altri pianeti del nostro sistema solare si sono aggregati e differenziati.

La missione Lucy, con il suo obiettivo di esplorare da vicino questi archivi cosmici, promette di svelare segreti sulla composizione del disco protoplanetario originario e sulle condizioni ambientali che hanno plasmato il nostro vicinato cosmico miliardi di anni fa. La conoscenza acquisita dallo studio dei troiani potrebbe quindi rivoluzionare la nostra comprensione delle origini del sistema solare e dei processi generali di formazione planetaria nell’Universo.

Comprendere i piccoli corpi celesti per decifrare la nostra storia planetaria

Secondo Hal Levison, un eminente scienziato planetario che guida questa missione senza precedenti dedicata allo studio degli asteroidi troiani, la comprensione della natura e delle proprietà di questi piccoli corpi celesti è fondamentale per acquisire una visione più profonda della nostra stessa origine e dell’evoluzione del sistema solare. In un’intervista rilasciata precedentemente a Mashable, Levison ha sottolineato l’importanza di esplorare questi oggetti primordiali per ricostruire le tappe fondamentali della formazione planetaria e per comprendere i processi che hanno portato alla nascita del nostro mondo.

Levison ha inoltre evidenziato la natura pionieristica della missione Lucy, definendola la “prima ricognizione degli sciami troiani”. Questa affermazione sottolinea come Lucy stia aprendo un nuovo capitolo nell’esplorazione del sistema solare, avventurandosi in regioni inesplorate popolate da una vasta popolazione di asteroidi che orbitano in sincronia con Giove. La missione fornirà per la prima volta osservazioni dirette e dettagliate di questi oggetti, colmando una lacuna significativa nella nostra conoscenza del sistema solare esterno.

Il recente sorvolo ad alta velocità dell’asteroide Donaldjohanson rappresenta una tappa fondamentale nel percorso di Lucy, configurandosi come un’importante “prova generale” per la sonda in preparazione al suo arrivo al primo asteroide troiano, chiamato Eurybates, previsto per l’agosto del 2027.

Questo incontro ravvicinato ha permesso di testare le capacità di tracciamento e di acquisizione dati degli strumenti scientifici di Lucy in condizioni dinamiche simili a quelle che incontrerà durante gli incontri con i troiani. Per studiare in dettaglio questi ultimi, Lucy è equipaggiata con una suite di potenti telecamere, tra cui la Lucy Long-Range Reconnaissance Imager, o L’LORRI, lo strumento che ha catturato le straordinarie immagini di Donaldjohanson.

Sebbene non sia un fenomeno raro nello spazio che due oggetti orbitanti si avvicinino progressivamente fino a fondersi, formando un cosiddetto “binario di contatto“, gli scienziati della NASA hanno espresso la loro sorpresa di fronte alla forma peculiare dello stretto “collo” che connette i due lobi di Donaldjohanson. Questa morfologia unica è stata descritta come somigliante a “due coni gelato annidati”, suggerendo un processo di fusione o accrescimento particolarmente dinamico e forse meno “gentile” rispetto a fusioni più complete e omogenee.

Nonostante Donaldjohanson non sia un obiettivo primario della missione Lucy, la sua forma e struttura insolite forniscono un’opportunità scientifica preziosa per ottenere ulteriori informazioni sulle origini di questi oggetti spaziali primordiali, sui meccanismi attraverso i quali si sono formati nelle prime fasi del sistema solare e, per estensione, sui processi che hanno portato alla formazione del nostro stesso mondo. Lo studio di questo asteroide “di passaggio” contribuirà a contestualizzare le osservazioni che la missione Lucy realizzerà una volta raggiunto il suo obiettivo principale, gli asteroidi troiani, arricchendo la nostra comprensione del materiale da costruzione originario del sistema solare.

Per maggiori informazioni visita il sito ufficiale della NASA.