L’Unione Sovietica e lo sbarco sulla Luna (Prima parte)

Anche l'Unione Sovietica, che partiva in vantaggio nella corsa allo spazio, progettò di arrivare sulla Luna. Perché non ce la fece? Proviamo a capirlo

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Anche l’Unione Sovietica intendeva raggiungere la Luna con una missione umana e durante la corsa allo spazio, nella quale, in partenza, era in netto vantaggio sugli USA.

Il progettista Korolëv prevedeva la fabbricazione di un potente vettore di lancio, in seguito registrato con la sigla “classe N”, che si sarebbe dovuto evolvere in tre diverse versioni, una da utilizzarsi per la realizzazione di stazioni spaziali, un’altra destinata alla circumnavigazione della Luna e allo sbarco e all’esplorazione del nostro satellite naturale e di Marte.

Un vettore simile doveva utilizzare motori a propellente liquido come l’idrogeno e l’ossigeno in modo da far raggiungere al vettore prestazioni superiori a quelle raggiungibili da altri carburanti allora in uso per le missioni spaziali. Il progetto, avviato segretamente, prese il nome di N1-L3 e avrebbe dovuto far giungere due cosmonauti sulla Luna attraverso un vettore, l’N-1, e un modulo lunare denominato L-3, concepito per lo sbarco di un unico cosmonauta sulla superficie lunare, mentre il secondo attendeva in orbita.

Il vettore N-1, conosciuto con la sigla G-1 in occidente, era simile al Saturn V almeno per quanto riguarda le dimensioni ma era meno avanzato dal punto di vista tecnico. La sigla N-1 significa Nositel-1 (Portatore 1), ma i sovietici stessi iniziarono quasi subito a chiamarlo ironicamente “razzo dello tzar” per le manie di grandezza russe che portano solo guai e in questo furono profetici.

Il suo profilo conico era dovuto alla forma sferica dei suoi serbatoi e il primo stadio impiegava 24 motori NK-33, che sarebbero diventati 30 con l’aggiunta di sei motori montati nella parte centrale. Il secondo montava otto NK-43 ed, il terzo quattro NK-39 che insieme avrebbero inizialmente permesso l’inserimento in orbita di un carico utile di 75 tonnellate.

Vennero realizzati 13 giganteschi vettori N-1, molto simili tra di loro ma, paragonati al vettore americano Saturn V ne differivano per il peso r, in larga parte, per via dell’impiego di leghe di alluminio di vecchia concezione e alla tipologia dei sistemi elettronici che pesavano anche cinque volte più di quelli installati sul vettore della Nasa. Il peso del vettore aumentava ulteriormente dal momento che le sue parti dovevano viaggiare dal luogo di assemblaggio fino alla rampa di lancio mediante una rampa e un convoglio ferroviario e questo comportava una sua suddivisione in più parti che sarebbero state congiunte con dei giunti che ne avrebbero ulteriormente aumentato il peso al decollo.

Altra differenza con il Saturn V era il numero degli stadi, tre per il vettore americano e ben quattro per quello dell’Unione Sovietica. Il vettore, come sappiamo era definito da una sigla, N-1 e sebbene non ebbe mai in via ufficiale un nome circolarono in quegli anni diverse denominazioni quali: Raskat (Rambo), Lenin, Rossya (Russia), Nauka (Scienza) o Gigan.

Il vettore, altro 106 metri, qualche metro in meno del Saturn V, era essenzialmente diviso in sue sezioni, una conica e una cilindrica, la prima alta 60 metri e la seconda alta 43 metri. Composta da tre blocchi, la prima, chiamati A,b e V e altri tre blocchi la seconda, chiamati G,D ed E che racchiudeva il complesso L-3 destinato a raggiungere la Luna. La denominazione in blocchi A, B, V, G, D, E, altro non è che la successione delle prime lettere dell’alfabeto cirillico. Il vettore aveva un diametro massimo alla base di 17 metri che diventavano 11 alla sommità, pesava 2000 tonnellate e forniva una spinta di 43.000 KN nei primi 110 secondi di funzionamento.

Per la messa in posizione del vettore durante il lancio si era anche pensato a gestire l’enorme peso e le elevate dimensioni del razzo. Presso l’area di lancio di Bajkonur era stata allestita con una rampa collegata ad una quadrupla linea ferrata che collegava l’immenso capannone dove l’N-1 veniva montato in posizione orizzontale su di un grande carrello gru di tipo ferroviario che si muoveva grazie a quattro potenti motrici diesel. Una volta raggiunta la torre di servizio, dei grandi attuatori idraulici fissati ai lati sollevavano il razzo fino a collocarlo sulla rampa in posizione verticale.

I problemi non mancarono e il razzo vettore N-1 progettato alla fine degli anni 50 non ne fu mai libero in quanto la sua costruzione iniziò 10 anni dopo ma senza tenere conto delle nuove tecnologie e il razzo non fu mai aggiornato.

Con il decreto del 25 ottobre 1965 si incominciò a mettere a punto la questione dell’allunaggio: scegliendo la proposta N1-L3 di Korolëv, una versione modificata della Sojuz, denominata LOK (Lunnyj Orbital’nyj Korabl’), sarebbe stata inviata verso la Luna con il potente vettore N-1. La costruzione dei motori del modulo lunare fu affidata a Yangel.
Il completamento del N-1 sarebbe avvenuto grazie alla realizzazione del quarto componente a propulsione denominato L-3 che era composto dal blocco D del complesso N-1 da una cosmonave L-1 che sarebbe stata una Sojuz alleggerita e da una navetta per l’allunaggio morbido, il modulo LK.

L’obbiettivo finale di Korolev non era la Luna, ma il pianeta Marte. La Luna sarebbe stata solo una tappa intermedia che avrebbe permesso all’Unione Sovietica di testare le tecnologie per conquistare il pianeta rosso.

Il componente L-3 era costituito da due stadi translunari detti blocco G e D, dal modulo orbitale LOK era una Sojuz 7K-L3 e fu sviluppata insieme alla 7K-L1 e infine dal modulo lunare vero e proprio, chiamato LK che durante il lancio era protetto da una carenatura conica di sei metri di diametro con in cima il sistema di salvataggio.

Questa configurazione consentiva di inviare due uomini in orbita lunare e avrebbe permesso inoltre la discesa di un cosmonauta sul suolo lunare. Questa versione LOK 7K-L3 era stata progettata da Korolev ed era l’unione delle conoscenze acquisite dalla nuova Sojuz 7K-OK e dalla capsula circumlunare Zond denominata 7K-L1 ed era divisa in tre sezioni, una orbitale ellittica, una di rientro a campana ed una cilindrica per i servizi.

La nave lunare, se paragonata al complesso Apollo, non aveva un tunnel di collegamento e i cosmonauti per accedervi dovevano compiere una EVA, cioè una passeggiata spaziale. Per ovviare al problema venne creata una nuova tuta spaziale, la Krechet, la stessa che sarebbe poi servita per l’esplorazione lunare. Le successive evoluzioni del modello della  Krechet portarono alla creazione della tuta spaziale Orlan, attualmente in uso nelle missioni spaziali russe.

Una copia di questa tuta è oggi esposta al museo Smithsonian di Washington; fu realizzata dalla Zvezda nel 1967 e rivelata al pubblico solo di recente. La tuta veniva indossata entrandovi dalla parte posteriore mentre l’elmetto era parte integrante della tuta stessa. La Krechet era dotata di schermi riflettenti per proteggere gli occhi dalle micidiale radiazioni solari.

Durante il viaggio di andata verso la Luna, alla nave madre erano agganciati lo stadio di trasferimento ed il modulo lunare LK.
Una volta portata a termine con successo la missione lunare, il cosmonauta avrebbe dovuto riportare il modulo LK in orbita e ricongiungerlo con la nave madre. Per tale scopo si era ideato un sistema di aggancio semplificato e testato con esiti positivi. Vi era un gancio di attracco installato sulla nave principale che si congiungeva con la sommità del modulo LK dove era stata montata una piattaforma a nido d’ape che avrebbe permesso di collegare i due veicoli in modo semplice ed efficace. L’aggancio era possibile da diverse angolazioni e non necessitava l’impiego di complicati radar in quanto la fase di contatto sarebbe stata eseguita a “vista” dal cosmonauta che vedeva il bersaglio grazie ad una bolla di vetro sporgente dalla sezione orbitale.

Rispetto alla classica Sojuz, la nave madre in questione non era dotata dei classici pannelli solari per le celle a combustibile; il modulo di rientro era invece provvisto di uno scudo termico ablativo rinforzato che permetteva di superare gli strati densi dell’atmosfera terrestre ed eseguire il ritorno atterrando nel territorio dell’Unione Sovietica.