L’importanza della pastorizzazione nella lotta alla tbc

Soltanto dopo la fine della seconda guerra mondiale il processo di pastorizzazione del latte si diffuse in modo generalizzato contribuendo drasticamente alla riduzione delle vittime per tbc

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Per tutto il Diciannovesimo secolo ed anche per i primi anni del Ventesimo il latte si consumava quasi ovunque crudo, a poche ore dalla mungitura. Con il crescere dell’urbanizzazione questo intervallo giunse anche fino a due giorni dal momento della mungitura e stiamo parlando di un periodo nel quale i sistemi di refrigerazione erano sconosciuti.

Questo dilatarsi dei tempi dalla produzione al consumo, associato alle forti qualità nutritive del latte, facevano si che questo alimento fosse un ottimo veicolo di proliferazione di batteri. Uno di questi era il Mycobacterium bovis, responsabile della tubercolosi bovina, che può causare nell’uomo forme di tubercolosi quasi indistinguibili per caratteristiche, decorso e gravità da quelle dovute al Mycobacterium tubercolosis.

La tubercolosi agli inizi dell’Ottocento era una vera e propria piaga e soltanto negli Stati Uniti uccideva ogni anno 160.000 persone. A questa ecatombe si associava un tasso di mortalità infantile che nel 1900, agli albori del nuovo secolo, si attestava intorno al 40%. Nel 1920 la mortalità infantile nelle più grandi città americane variava da 72 a 203 morti ogni mille bambini contro una percentuale inferiore al 1% dei livelli attuali.

Anche in questo caso uno dei fattori sospettati era il latte bovino crudo ed in questo senso questo sospetto era avvalorata dai dati della cittadina inglese di Brighton dove la mortalità nei bambini fino a un anno di vita era del 6,5 per cento per quelli allattati al seno, ma saliva al 36 per cento per quelli nutriti con latte bovino.

Tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento iniziò a partire una campagna d’opinione a favore della pastorizzazione, il procedimento che scaldando il latte ad una temperatura di 71,7 °C per 15 secondi era in grado di eliminare la quasi totalità degli agenti patogeni.



La cosa curiosa è che il primo a mobilitarsi a favore della pastorizzazione non fu un medico bensì un imprenditore Nathan Straus, proprietario dei grandi magazzini Macy’s, che aveva perso un figlio ed era convinto fosse stata colpa del latte. Con l’aiuto di un pediatra, Abraham Jacobi, installò un pastorizzatore in un orfanotrofio, dove la mortalità era del 44 per cento. L’anno successivo la mortalità si ridusse al 20 per cento, per poi scendere ulteriormente al 16 per cento nel 1904.

Anche in Europa pochi anni dopo che Kock aveva scoperto il batterio della tubercolosi, la campagna per sterilizzare il latte ebbe un’impennata. La Danimarca fu la prima, nel 1904, a imporre la pastorizzazione per legge, ma dovettero passare ancora vari decenni perché venisse resa obbligatoria in tutta Europa ed in Italia l’obbligo legislativo scattò soltanto nel 1929.

Il fronte degli oppositori alla pastorizzazione era ampio ed articolato: si andava dai medici ai produttori di latte, tanto che in Inghilterra ancora nel 1946 la pastorizzazione non era obbligatoria e spesso nel latte venduto si riscontrava la presenza di agguerrite colonie di batteri.
Alla fine l’affinamento del processo di pastorizzazione non soltanto rappresentò un’indispensabile garanzia per la sicurezza alimentare e la salute pubblica ma contrariamente alla pratica di bollitura predicata dalle nonne che distruggeva ogni proprietà nutritiva, la pastorizzazione salvaguardava le qualità organolettiche e le proprietà nutrizionali di questa preziosa bevanda.

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