La leggenda della legione romana finita in Cina riappare di tanto in tanto, provocando interessanti dibattiti fra gli storici.
Vediamo di riassumerne i tratti essenziali di questa intricata storia.
La battaglia di Carre – la biblica Harran – posta sul confine orientale della Turchia, fu combattuta nell’ultimo giorni di maggio del 53 avanti Cristo e si concluse con un disastro per l’esercito romano: sette legioni di otto coorti ciascuna, forti di circa trentacinquemila uomini, più ottomila ausiliari, furono umiliate e distrutte nel giro di poche ore da diecimila arcieri parti.
Il comandante dei romani era il sessantaduenne Marco Licino Crasso (era nato nel 114 a.C.) un uomo immensamente ricco ma smodatamente ambizioso di gloria militare. Durante la guerra civile era riuscito a guadagnarsi la stima di Silla, quando il 1 novembre del 82 a.C. si trovò a comandare l’ala destra dell’esercito romano, a difesa Roma nel fronteggiare i sanniti e i democratici romani che l’assediavano. Silla venne respinto ma gli uomini di Crasso prevalsero alla confluenza del Tevere e dell’Aniene, donandogli la vittoria.
Nei giorni successivi a quella che divenne nota come la battaglia di Porta Collina venne condotta una vera e propria pulizia etnica dei sanniti, che uscirono definitivamente dalla storia. Negli anni successivi, con l’aiuto di Pompeo, Crasso condusse la sanguinosa repressione di Spartaco e dei suoi schiavi.
Con l’arrivo a Roma dei bollettini delle vittorie di Cesare in Gallia e in Germania, come preso da frenesia, Crasso volle partire alla guerra contro i Parti (oggi li chiameremmo Persiani o Iraniani) senza che ce ne fosse davvero bisogno.
Il reclutamento di soldati nella penisola italica esasperò la popolazione, già fortemente provata e, infatti, il Senato tentò di opporsi a questa nuova guerra. Il più accanito oppositore di Crasso fu un tal Ateio Capitone, tribuno della plebe che, usando come pretesto certi presagi infausti, fece arrestare Crasso subito dopo che ebbe prestato giuramento in Campidoglio e s’accingeva a uscire dalla città vestito da generale. Altri tribuni intervennero e lo liberarono ma questo Ateio, non pago di quanto aveva fatto, si pose bene in vista dell’esercito e di Crasso, accese un braciere e li maledisse, usando antichi sortilegi.
Dopo il disastro di Carre, Ateio fu considerato un potentissimo jettatore, arrestato e processato, come diretto responsabile del disastro militare. E infatti l’aneddotica jettatoria relativa a Carre è ricchissima, un segno che la maledizione di Ateio spaventò persino i più spietati e coraggiosi centurioni.
Durante un discorso di Crasso alle legioni egli disse che avrebbe distrutto un ponte così che nessuno potrà tornare indietro, ma quando vide i suoi sbiancare si corresse e precisò che si riferiva ai nemici; ordinò la distribuzione di lenticchie e sale alle truppe, il cibo dei funerali; durante un sacrificio d’un animale lasciò cadere le visceri insanguinate che l’aruspice gli aveva posto nelle mani, segno di grave sfortuna e per recuperare egli esclamò: “Non temete, a dispetto della mia età, non mi sfuggirà l’elsa della spada!”.
Infine, nella giornata dello scontro fatale indossò una tunica nera, invece che la porpora usata dai generali romani. Di nuovo vedendo i suoi ufficiali stupirsi, fece dietro front e tornò nella tenda a cambiarsela. Insomma immaginiamo tutti i suoi aiutanti di campo portare continuamente la mano destra ai tommasei, per difendersi dalla sfiga potentissima che il loro capo emanava.
Crasso, alla testa delle sue legioni metropolitane (non siamo sicuri di quali fossero) marciò verso Napoli e poi Brindisi, dove si aggregarono delle altre legioni provenienti dalla Calabria. Le navi erano pronte e, nonostante il mare agitato, Crasso le fece partire per la traversata, fu così che non tutte raggiunsero l’altra sponda.
Cocciutamente egli rifiutò d’ascoltare i suoi ufficiali – fra i quali Cassio, il futuro assassino di Cesare e unico ufficiale del suo stato maggiore che sopravvisse al disastro e che poi narrò la sua versione della storia – e volle marciare nelle aride terre dell’interno per raggiungere la capitale dei Parti, invece di mantenersi sulla costa e approfittare della flotta. Puntò diritto su Seleucia, che si trova a circa quaranta chilometri da Bagdad e lo disse in faccia all’ambasciatore dei Parti, il quale gli mostrò il palmo della mano, dicendogli che lui ci sarebbe entrato quando lì sarebbero cresciuti i peli.
Certamente Crasso sottovalutava il nemico e non condusse un adeguato lavoro di intelligence, un po’ come farà Baratieri ad Adua e fu sempre più attento alla parte finanziaria della sua impresa, invece che a quella militare: spogliò vari templi per procurarsi oro e argento, come quelli di Gerusalemme e di Hierapolis.
Si fidò eccessivamente dell’arabo Arimane, un loro alleato che si era portato dietro seimila cavalieri, ma che al momento di ingaggiare il nemico ordinò ai suoi di trottare verso le linee nemiche e unirsi a loro.
Giunto il momento della battaglia, Crasso ordinò ai suoi di formare i quadrati per resistere all’assalto della cavalleria partica, ma questo li espose al tiro di frecce ordinato da Surena, il suo oppositore. Una pioggia di saette l’investì e durò per ore e ore, perché ne avevano a disposizione un numero incredibile, segno che Surena aveva ben chiaro come avrebbe condotto lo scontro. Usavano degli archi riflessi, noti come archi da cacciatore delle steppe, che in fase di riposo mostrano le punte rivolte in avanti. Sono delle armi micidiali, capaci di tirare una freccia a quattrocento metri di distanza – quelli più sofisticati, cinesi, arrivavano a seicento metri – contro i cento metri degli archi romani. Gengis Khan (1162-1227) e i suoi mongoli conquisteranno il mondo usando questo tipo di arma, ignorando completamente la fanteria.
Intuendo il pericolo, Publio, il valoroso figlio di Crasso, radunò i mille cavalieri Galli che gli aveva mandato Cesare e ordinò una carica frontale, verso quegli arcieri, ma la loro micidiale precisione non gli lasciò scampo: cinquecento vennero uccisi e l’altra metà fu fatta prigioniera. Publio, trovatosi isolato su di un’altura, piuttosto che arrendersi si suicidò, assieme ai suoi fedeli ufficiali e la sua testa mozzata fu lanciata fra le fila dei romani.
Durante questi tragici momenti, Crasso ebbe un fremito d’orgoglio da vero romano, urlando ai suoi che non importava, che quello era un suo lutto personale, non il loro e che continuassero a combattere. Però, subito dopo, incapace di reggere il colpo, s’avvolse nella toga come un antico romano, quasi fosse un sudario e si chiuse in sé stesso, lasciando il comando ai suoi generali e abbandonando nel caos l’esercito, che pure era riuscito a trincerarsi dietro alle mura di Carre e contava ancora diecimila uomini, dopo che ventimila erano morti e diecimila s’erano arresi. Il morale era a pezzi e Crasso accettò di negoziare la resa con Surena, ma era una trappola, fu ucciso e anche la sua testa divenne un trofeo partico.
La sconfitta provocò sgomento a Roma, anche se una mezza rivincita i romani l’ebbero nel 38 a.C. con Ventidio Basso, su incarico di Marco Antonio, si riprese la Siria. La fortuna di Basso fu che all’aristocrazia partica quella vittoria non piacque, perché gli arcieri costituivano la parte più infima della loro società, mentre i nobili erano i cavalieri catafratti che combattevano con spade e lance, che a Carre non avevano combinato nulla. Nel frattempo i romani avevano elaborato una nuova arma che bloccava quei corazzieri: i frombolieri tiravano proiettili di piombo, invece che di terracotta. Per questo motivo Ventidio Basso li sconfisse: i nobili non volevano gli arcieri contadini, ma senza il loro apporto furono scavallati dal piombo romano.
Di nuovo Marco Antonio li sconfisse nel 20 a.C. firmando un trattato di pace nel quale veniva anche inserito il ritorno delle aquile delle sette legioni sconfitte. Quando poi Augusto intimò di restituire i prigionieri, i Parti risposero che non ne avevano.
Il loro modus operandi fu sempre quello di portare i prigionieri catturati a Occidente verso i propri confini orientali, per evitare tentativi di fuga. Quindi i prigionieri romani furono spostati verso il Turkmenistan per fronteggiare gli Unni e questo fu quasi certamente il destino toccato a una parte dei diecimila prigionieri, come conferma Plinio.
Per registrare un piccolo progresso nella ricerca di questi diecimila dispersi dobbiamo saltare al 1955, quando un sinologo americano, con un buffo nome che pare una creazione di Giulio Verne, Homer Hasenpflug Dubs, tenne una conferenza a Londra, intitolata: “A Roman City in Ancient China” ovvero ‘Una città romana nella Cina antica.’
Il nocciolo della presentazione di Dubs fu un dettaglio che egli aveva scoperto negli annali della dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C) contenuto nella biografia del generale Chen Tang e composta dallo storico Ban Gu (32 – 92) nella quale si accenna alla cattura da parte dell’esercito cinese, avvenuta nel 36 a.C., della città di Zhizhi, oggi nota come Dzhambul, vicina a Tashkent in Uzbekistan.
Dubs rimase colpito dal fatto che i cinesi rimarcarono che era difesa da palizzate fatte con tronchi d’albero allineati e che il nemico fece uso d’una formazione a testuggine, con gli scudi accostati. Entrambe queste cose erano nuove per i cinesi, che non li avevano mai visti prima.
I cinesi vi fecero circa duecento prigionieri e li spostarono ancora più a Oriente, in una località che per decreto imperiale fu chiamata Li-Jen – che in cinese suona come legione ed è pure il nome che i cinesi usavano per indicare Roma – nella provincia del Gangsu. Il loro compito era di difendere i contadini cinesi della zona dalle continue incursioni dei tibetani, un po’ come nel film ‘I sette Samurai’ di Akira Kurozawa.
Esistono pochi casi negli annali antichi cinesi nei quali una città viene indicata con un nome di origine straniera, conosciamo solo due altri esempi: Kucha and Wen-Siu, e questo per via del fatto che anche lì vi vennero trasferiti degli stranieri.
Dubs disse di aver identificato la città di Li-Jien e che si tratterebbe dell’odierna Zheilaizhai, vicino a Langzhou, sulla Via della Seta.
Negli anni seguenti alla presentazione di Dubs furono organizzate varie spedizioni a Zheilazhai da archeologi cinesi, australiani e americani per cercare delle tracce dei resti della legione perduta e qualcosa in effetti trovarono, anche se manca ancora la ‘pistola fumante’ come si suol dire.
Ad esempio, durante degli scavi condotti nel 1993, emersero delle fortificazioni fatte con tronchi e degli strumenti metallici, oggi in mostra al museo di Langzhou, certamente non cinesi. Un antico sport tipico solo di dell’area è la tauromachia e sono state segnalati anche degli abitanti con occhi azzurri e capelli biondi, forse discendenti di reduci gallici della fatale carica di Publio?
Visitando oggi Zhielazhai vi troveremo varie statue romane e templi fatti edificare dalle autorità locali che hanno furbescamente intuito il lato commerciale di questa storia e stanno cercando di farci qualche onesto soldo, attirando quanti più turisti possono.
Dopo che il mio articolo divenne virale fui contattato da uno storico turco che l’aveva letto, chiedendomi se potevo fornirgli più dettagli, perché proprio da Zheilazhai ebbe inizio la marcia verso occidente di quella che diverrà la nazione turca, o per meglio dire quello che è noto come il clan Ashina entro la nazione turca. Possiamo vedere in ciò un bizzarro e tardo tentativo fatto dai discendenti della legione perduta di ritornare verso Roma.
La parola della scienza
Uno studio presentato su Nature nel 2007, “Testing the hypothesis of an ancient Roman soldier origin of the Liqian people in northwest China: a Y-chromosome perspective” sembra escludere la possibilità che gli abitanti di Liqian possano far risalire la loro discendenza genetica ai legionari romani, attribuendo la piccola percentuale di geni caucasici presenti nel loro pool al posizionamento geografico della villaggio che sorgeva lungo l’antica Via della Seta nel nord della Cina, un percorso carovaniero lungo il quale è comune vedere persone con tratti morfologici caucasici, che è anche un tratto classico delle minoranze etniche cinesi nello Xinjiang.
Secondo i ricercatori, quando gli aplotipi Liqian sono stati confrontati con le popolazioni mondiali nell’YHRD, non sono state trovate corrispondenze solo nelle popolazioni dell’Eurasia occidentale e solo due corrispondenze sono state condivise dalle popolazioni europee e dalle popolazioni dell’Asia orientale.
I due aplotipi Liqian sono presenti nelle popolazioni dell’Europa occidentale, ma appartengono all’aplogruppo O3 specifico dell’Asia orientale. Il fatto incompatibile probabilmente derivava dall’alto tasso di mutazione di Y-STR. L’incapacità di trovare un legame apparente tra il popolo Liqian e gli antichi soldati romani in questo studio potrebbe essere dovuto al fatto che la migrazione a lunga distanza e i matrimoni misti hanno cancellato le precedenti firme genetiche o perché i Liqian sono solo una popolazione generale nel nord della Cina.
Come descritto sopra, i Liqian sono strettamente imparentati con le popolazioni cinesi, in particolare i cinesi Han nel nord della Cina. Inoltre, è probabile che le popolazioni Liqian e Yugur siano popolazioni affini. Nessuna firma evidente dell’origine da soldati romani è stata osservata nel pool genetico maschile di Liqian.
In conclusione, è probabile che un’origine romana per il popolo Liqian non sia altro che una teoria interessante. In ogni caso, concludono i ricercatori, al fine di rivelare completamente i paesaggi genetici dei Liqiani, in lavori futuri dovranno essere condotti studi autosomici e mtDNA complementari.
Fonti:
“La leggenda (o la storia) della legione romana finita in Cina”. Angelo Paratico, Corriere.it
“Testing the hypothesis of an ancient Roman soldier origin of the Liqian people in northwest China: a Y-chromosome perspective”. Nature