Scrutare più in profondità sotto la superficie della Terra può dirci molto sulla sua storia e sulla sua composizione geologica, ed è lo stesso per qualsiasi altro pianeta.
Ora il lander InSight sulla superficie di Marte ha fornito il nostro primo sguardo approfondito a ciò che si trova appena sotto la superficie del pianeta rosso.
Il sismometro a bordo di InSight – chiamato SEIS o Seismic Experiment for Interior Structure – ha rilevato uno strato sedimentario poco profondo racchiuso tra rocce indurite risultanti da colate laviche, che scendono a una profondità di circa 200 metri.
Questo potrebbe dirci molto su come si è formato originariamente Marte, su come si è evoluto nel tempo e sul tipo di fattori geologici che sono ancora in gioco oggi. In particolare, le colate laviche possono essere collegate a quanto sappiamo del passato vulcanico del pianeta.
Sopra: Rappresentazione artistica del lander InSight nell’Homestead Hollow, un piccolo cratere da impatto.
“Finora gli studi sismici del sottosuolo poco profondo intorno al sito di atterraggio di InSight sono stati limitati ai 10-20 m più alti utilizzando misurazioni del tempo di viaggio sismico e stime di conformità del suolo, lasciando inesplorate le strutture a poche decine o diverse centinaia di metri di profondità“, spiegano i ricercatori in un nuovo studio.
InSight è arrivato su Marte nel novembre 2018, atterrando nell’ampia e piatta pianura nota come Elysium Planitia. Qui, gli strumenti del lander hanno misurato le leggere vibrazioni ambientali del terreno, causate dai venti che soffiano sulla superficie del pianeta, per capire cosa c’era sotto.
La stessa tecnica è stata sviluppata sulla Terra per valutare la composizione del sottosuolo e il rischio sismico associato. Su Marte, il modello delle onde è coerente con due densi strati di rocce, come il basalto, con uno strato di materiale più sottile e meno denso nel mezzo, molto probabilmente di natura sedimentaria.
Da quello che sappiamo della storia di Marte dai crateri ancora visibili oggi sul pianeta, i ricercatori suggeriscono che lo strato più alto di lava indurita ha circa 1,7 miliardi di anni, formatosi durante il freddo e arido periodo in cui Marte è stato oggetto di relativamente pochi impatti di meteoriti e asteroidi.
Lo strato più profondo sembra avere circa 3,6 miliardi di anni, creato durante il periodo esperiano, quando c’era molta più attività vulcanica sul Pianeta Rosso. Questi antichi periodi hanno plasmato Marte nel pianeta che stiamo vedendo ed esplorando oggi.
“Questo ci capire quale sia stato il tempismo tra le varie attività“, ha detto in unìintervista a Inverse il geofisico Bruce Banerdt, del Jet Propulsion Laboratory del California Institute of Technology.
“Il fatto di avere questo strato sedimentario racchiuso tra queste due pietre vulcaniche dice che c’è stata una pausa nell’attività vulcanica, una pausa abbastanza lunga perché ci vuole molto tempo per formare le rocce sedimentarie“.
La presenza di quello strato intermedio, spesso circa 30-40 metri, è una sorpresa per i ricercatori e non è chiaro esattamente di cosa sia composto o come si sia formato. È possibile che ci sia un po’ di mescolanza con i basalti precedenti ma l’accuratezza delle letture sismiche diminuisce a profondità inferiori.
Parte dell’utilità di questi dati risiede nel capire se la vita sia mai esistita su Marte, ma ci dice anche di più sulla storia e l’evoluzione della Terra:
la Terra e Marte sono in realtà piuttosto simili in termini di composizione geologica.
A parte l’antica storia planetaria, c’è un vantaggio più immediato nel sapere cosa c’è sotto la superficie di Marte in diversi punti: consente agli scienziati di elaborare i posti migliori per mettere lander, rover e (eventualmente) basi scientifiche in futuro.
“Sebbene i risultati aiutino a comprendere meglio i processi geologici in Elysium Planitia, il confronto con i modelli pre-atterraggio è prezioso anche per le future missioni di atterraggio, poiché può aiutare a perfezionare le previsioni“, afferma la sismologa Brigitte Knapmeyer-Endrun dell’Università di Colonia in Germania.
La ricerca è stata pubblicata su Nature Communications .