Molto tempo fa, nell’antica città di Cirene, c’era un’erba chiamata silphium. Non sembrava granchè, aveva radici robuste, foglie tozze e ciuffi di piccoli fiori gialli, ma se ne stillava una linfa profumata così deliziosa e utile che, in epoca romana veniva considerata alla stregua dell’oro, tanto era rara e preziosa.
Elencare i suoi usi sarebbe un compito senza fine. I suoi steli aguzzi potevano venire arrostiti, saltati in padella o bolliti e mangiati come verdura. Le sue radici si concumavano fresche, intinte nell’aceto. Era considerato un ottimo conservante per le lenticchie e, se utilizzato per nutrire le pecore, faceva in modo che la carne di questi ovini diventasse particolarmente dolce e tenera.
Il profumo veniva stillato dalle sue delicate fioriture, mentre la sua linfa veniva seccata e conservata in cubetti che venivano poi utilizzati per insaporire ogni genere di piatti. Opicio, il grande cuoco romano, fu un entusiasta utilizzatore del cosiddetto laser, la linfa secca di Silfio.
Ma il Silfio aveva anche usi medicamentosi, per i quali era considerato una vera e propria panacea per ogni tipo di malattia, comprese le ragadi anali (per le quali l’autore romano Plinio il Vecchio raccomanda ripetute fumigazioni con la radice ) e i morsi dei cani per cui si consigliava di strofinare il Silfio sulla aprte interessata, anche se, come avverte lo stesso Plinio, assolutamente sconsigliato usarlo per gli ascessi dentali.
Infine, il silfio era richiesto in camera da letto, dove il suo succo veniva bevuto come afrodisiaco o applicato “per spurgare l’utero“. Insomma, avrebbe avuto anche proprietà abortive. Si crede che i suoi semi a forma di cuore siano la ragione originale per cui associamo il simbolo del cuore con il romanticismo e l’amore.
Oggi il silfio è scomparso, forse solo dalla regione originaria o forse è estinto in tutto il pianeta, oppure, semplicemente, nessuno si ricorda più come è fatto e resta confuso con le erbe selvatiche.
Il silfio (conosciuto anche come silphion o laser o laserpicio) probabilmente (dai disegni stilizzati su monete e sui trattati naturalistici antichi) apparteneva al genere Ferula (famiglia Apiaceae o Ombrellifere). A quanto se ne sa cresceva solo in una ristretta zona costiera, di circa 200 per 60 km, in Cirenaica (attuale Libia) ed è questa la ragione per cui Cirene vi costruì sopra una vera e propria fortuna economica, al punto di incidere l’immagine della pianta sulle monete.
La raccolta del Silfio avveniva similmente a quella della Ferula assafoetida, una pianta con proprietà simili, tanto che i Romani, compreso il geografo Strabone, usavano la stessa parola per descrivere entrambe.
Le ragioni della presunta estinzione del silfio non sono completamente chiare. Molte speculazioni si basano su un presunto aumento della domanda di animali cresciuti nutrendosi della pianta, per dei presunti effetti sulla qualità della carne: il pascolo eccessivo combinato con un’eccessiva raccolta potrebbero aver provocato l’estinzione.
Bisogna anche aggiungere che il clima del Maghreb è andato progressivamente inaridendosi nel corso dei millenni, e la desertificazione potrebbe essere stata un altro fattore.
Un’altra teoria punta il dito contro l’avidità dei governatori della provincia romana Creta et Cyrene; la cosa sarebbe del tutto plausibile, visto che la corruzione dei governatori romani era già stata documentata da Cicerone nelle sue Verrinae. Dopo aver preso il potere dai coloni greci che avevano governato Cirene democraticamente per secoli, i governatori avrebbero cercato di massimizzare i profitti della loro provincia facendo coltivare intensivamente il silfio, ma rendendo in questo modo il suolo inadatto ad ospitare la pianta selvatica a cui si attribuiva il valore di medicinale. Teofrasto sostiene che il tipo di Ferula che veniva specificamente chiamata “silfio” aveva delle esigenze così particolari da crescere solo allo stato selvatico e da non poter essere coltivata con successo su di un terreno dissodato. La validità di questa affermazione è comunque dubbia, visto che Teofrasto stava semplicemente citando una testimonianza di un’altra fonte.
Bisogna, però, ricordare che esistono tuttora piante che non si riesce a coltivare: un esempio è il mirtillo che cresce solo allo stato selvatico e quando si riesce a farne crescere in coltivazione non da frutti.
J. S. Gilbert, in una sua ipotesi, ritiene che il prodotto esportato (che era una specie di gomma) non derivasse unicamente dalla pianta ma che vi fossero miscelati anche degli intestini di insetto contenenti il composto chimico cantaridina. Per rendere il prodotto appetibile secondo i gusti dei greci, l’ingrediente derivato dall’insetto sarebbe stato tenuto segreto. Quando i governatori romani presero il controllo della regione, per la produzione del silfio avrebbero utilizzato il lavoro degli schiavi, che però ignoravano il modo in cui il prodotto avrebbe dovuto essere preparato: poiché non si riusciva più ad ottenere la stessa qualità di un tempo, si pensò che la vera pianta del silfio si fosse estinta. La cantaridina è tossica per l’uomo, e un po’ come per la Mentha pulegium, l’ingestione di una piccola quantità non ucciderebbe necessariamente un adulto, ma potrebbe molto più facilmente uccidere un embrione in via di sviluppo.
Gli ultimi esemplari vennero donati all’imperatore Nerone a titolo di curiosità, come scrive Plinio il Vecchio nel suo celebre trattato Naturalis historia.
La storia del declino del Silfio è tristemente familiare oggi. Le erbe medicinali sono un’industria multi-miliardaria e in crescita. Molte di queste erbe sono minacciate dai cambiamenti climatici e dallo sviluppo antropico. Peraltro, la stragrande maggioranza dele erbe medicinali crescono solo allo stato selvatico. Solo in Sudafrica, 82 erbe medicinali sono in pericolo di estinzione e due sono già scomparse.
Gli scienziati ora pensano che, come l’assafetida, il silfio possa appartenere ad un gruppo di piante simili al finocchio. Sono piante che crescono spontaneamente allo stato selvatico in tutto il Nord Africa e nel Mediterraneo. Incredibilmente, due di queste piante – il finocchio gigante di Tangier e il finocchio gigante – esistono ancora oggi in Libia. È possibile che uno di questi sia il silfio.
Il silphium potrebbe tornare? Probabilmente, anche se l’erba non fosse estinta, non incontrerebbe i gusti moderni – almeno nel mondo occidentale. I romani utilizzavano molteplici condimenti il lovage, che oggi la maggior parte delle persone non ha nemmeno sentito nominare, il levistico era un punto fermo del tavolo da pranzo romano. Oggi è praticamente impossibile trovarlo, relegato com’è nei negozi online di nicchia e negli angoli oscuri dei centri di giardinaggio.
In effetti, la cucina romana non assomigliava affatto all’attuale cibo italiano. I romani amavano contrastare dolce e salato. Per dire, adoravano al salsa Garum, che si ricavava dalle interiora di pesce lasciate marcire. Tutto sommato al cucina romana era abbastanza vicina alla cucina cinese moderna.
In ogni caso, se si trattava di qualcosa di commestibile, i romani lo mangiavano.
Per curiosità si potrebbe provare una delle mitiche ricette di Apicio, sostituendo illaser con l’assafetida:
“Scottare il fenicottero, lavarlo e condirlo, metterlo in una pentola, aggiungere acqua, sale, aneto e un po ‘di aceto, da scottare. Termina la cottura con un mazzetto di porri e coriandolo e aggiungi del mosto ridotto [poltiglia condensata] per dargli un colore. Nel mortaio schiacciare pepe, cumino, coriandolo, radice laser, menta, ruta, inumidire con aceto, aggiungere le datteri e il fondo [scolatura] dell’uccello brasato, addensare, filtrare, coprire l’uccello con la salsa e servire. Il pappagallo è preparato allo stesso modo.” Apicus 6.231