Il mistero di Fawcett (alla ricerca della misteriosa città Z)

Fawcett non era una persona qualunque. Nato a Torquay, in Inghilterra, nel 1867, era entrato nella Royal Artillery e in seguito aveva lavorato per il Servizio Segreto Britannico in Nordafrica come topografo.

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fazcett
Da secoli si favoleggiava di una città disabitata nel cuore dell’Amazzonia.
Già in un documento datato 1753, che si conserva nella Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro, si parla di un esploratore portoghese che sarebbe riuscito a raggiungerla, trovandola del tutto deserta, con strade ampie e una piazza immensa circondata da case buie e spaventose, con al centro una colonna di pietra nera sulla cui sommità si ergeva la statua di un uomo col braccio destro rivolto verso il nord.
Nelle vicinanze l’esploratore avrebbe scoperto blocchi d’argento, pozzi profondi, e un ruscello dalle acque abbaglianti tanto era l’oro che contenevano.
Fantasie? Forse.
Ma il colonnello Percival Henry Fawcett, famoso esploratore inglese, ci credeva fermamente e anzi asseriva di aver visto coi suoi occhi, in piena foresta, gli avanzi di una città sepolta nel verde. Secondo lui in quelle rovine preistoriche si celava il segreto di Atlantide e delle Amazzoni, le famose donne guerriere che avrebbero regnato sullo sterminato territorio.
Fawcett non era una persona qualunque. Nato a Torquay, in Inghilterra, nel 1867, era entrato nella Royal Artillery e in seguito aveva lavorato per il Servizio Segreto Britannico in Nordafrica come topografo.
Nel 1906 fu mandato dalla Royal Geographic Society a mappare una parte di giungla al confine tra Brasile e Bolivia e in seguito svolse altre spedizioni in America meridionale; allo scoppio della Prima Guerra Mondiale si arruolò volontario e gli venne assegnato il comando di un gruppo di artiglieria sul fronte delle Fiandre.
Alla fine del conflitto, Fawcett riprese le sue esplorazioni nel Sudamerica alla ricerca della città misteriosa, da lui chiamata “Z”, dapprima da solo e poi, nel 1925, in compagnia del figlio Jack di ventidue anni e di un amico, il geologo americano Raleigh Rimell. La spedizione fu accuratamente preparata per mesi, e finalmente il 10 aprile i tre inglesi, accompagnati da una dozzina di indigeni, attraversarono il Rio de la Muerte, così chiamato perché nessuno di quanti lo avevano attraversato era più tornato indietro.
Seguendo una pista raggiunsero la fazenda del coronel Hermenegildo Gavao, dal quale ricevettero una cordiale ospitalità e due guide, quindi si inoltrarono nella giungla. Il coronel seguiva tutte le sere, col cannocchiale, i fuochi dell’accampamento in direzione delle Montagne Azzurre, dove si trovavano le sorgenti del rio Xingu che Fawcett intendeva esplorare: i fuochi si spostarono verso la regione degli indios Meinacos, degli Aura, dei Valapites e, vicino al rio Koliseu, scomparvero.
Le guide di Gavao, tornate indietro, riferirono che Fawcett, davanti all’impossibilità di aprirsi una strada con le asce in quella muraglia di vegetazione, aveva deciso di costruire alcune barche per risalire il fiume. Avevano scattato delle fotografie che avevano affidato alle guide con un’ultima lettera di Fawcett per Gavao. Unico collegamento col mondo civilizzato era un apparecchio radio, col quale l’esploratore lanciò il suo ultimo messaggio: “Abbiamo attraversato gli estremi confini della civiltà”.
Fu l’ultima volta che Fawcett e i suoi compagni furono visti vivi.
Dopo qualche mese da quell’ultimo messaggio cominciarono le spedizioni di soccorso. Fra i primi a correre alla ricerca degli esploratori fu l’aviatore americano Paul Redfern, convinto che sorvolando a bassa quota la foresta avrebbe scoperto qualche traccia di Fawcett, ma neanche lui tornò mai alla base.
L’esploratore George Miller Dyott, nel 1927, affermò di aver trovato prove che i tre fossero stati uccisi dagli indios Aloyque, ma esse si rivelarono inconsistenti; un missionario disse di aver visto presso un villaggio di indios un bimbo dagli occhi azzurri, che secondo il suo racconto sarebbe stato figlio di Jack Fawcett e di una ragazza del posto, ma anche questa storia non trovò riscontri.
Nel febbraio 1949 una ragazza, Carmina Dos Santos, rapita dieci anni prima da una tribù di Indios, raccontò di aver visto nel suo villaggio un vecchio europeo alto, con un figlio già maturo, e ne diede una descrizione così minuziosa che molti credettero di riconoscere gli esploratori scomparsi; inoltre il villaggio dove Carmina era stata tenuta prigioniera sembra si trovasse nella zona in cui pochi anni prima erano stati trovati alcuni oggetti appartenenti a Fawcett.
Ma anche il racconto di Carmina Dos Santos non ebbe seguito.
Nel 1951 Orlando Villas-Bôas (attivista brasiliano per i diritti degli indios) ricevette dei resti che gli fu assicurato trattarsi dello scheletro di Percy Fawcett e li fece analizzare. All’epoca si disse che l’analisi fosse stata positiva, ma successivi esami più approfonditi rivelarono che le ossa non erano di nessuno dei tre esploratori.
Nel 2005 David Grann, giornalista del New Yorker, visitò gli indios Kalapalo scoprendo che si erano tramandati una tradizione orale riguardante Fawcett, uno dei primi europei che la tribù avesse mai visto.
Secondo questa tradizione Fawcett ed il suo gruppo avevano vissuto nel villaggio ed erano ripartiti verso est. I Kalapalo avvisarono Fawcett di non viaggiare in quella direzione perché sarebbero stati uccisi dagli indios bravos (indios selvaggi) che occupavano il territorio, ma lui insistette per partire.
I Kalapalo videro il fumo del fuoco da campo ogni sera per cinque giorni prima della sparizione, e quando non lo videro più furono sicuri che gli indios bravos li avessero uccisi.
Grann descrisse le sue scoperte in dettaglio nel suo libro Z la città perduta (The Lost City of Z).
La fine di Percy Fawcett e dei suoi compagni, quindi, è ancora misteriosa e, con tutta probabilità, lo rimarrà sempre.

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