Il caso della donna nella valigia

Il corto circuito della giustizia italiana trasforma un assassinio domestico in un delitto perfetto. Ci vorranno quasi 2 anni di indagini e 2 processi affinché giustizia non sia fatta...

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E’ una giornata di maggio del 1903 quando nelle torbide acque portuali di Genova riaffiora una grossa valigia. Quando viene recuperata ed aperta la vista del contenuto è scioccante: un cadavere tagliato a pezzi o meglio gran parte di un cadavere.

Gli elementi in mano alla polizia sono praticamente inesistenti fino a quando un barcaiolo genovese interrogato dagli investigatori ricorda di aver portato al largo un signore distinto, «con baffetti e vestito nero», certamente non di Genova, che aveva al seguito una grossa valigia.

Il barcaiolo ricorda bene quel particolare cliente perché durante il tour del porto che gli aveva commissionato la grossa valigia gli era “caduta” in acqua, inabissandosi repentinamente. Il misterioso turista aveva reagito quasi con indifferenza alla perdita del bagaglio suscitando la curiosità e le perplessità del barcaiolo.

Gli anatomopatologi che esaminano i resti notano l’assenza di diverse parti del corpo, probabilmente, per l’impossibilità del bagaglio di contenere l’intero cadavere per quanto dissezionato. La Polizia sa soltanto che i resti appartengono ad una donna, discretamente alta e dall’età approssimativa di 30-40 anni. Quello che emerge dall’esame autoptico è che l’autore dell’efferato delitto deve avere una certa conoscenza di nozioni di anatomia o comunque una certa pratica nel dissezionamento di corpi, gli inquirenti pensano ad un macellaio oppure un medico.

Il caso della donna tagliata a pezzi probabilmente rimarrebbe insoluto se la Polizia di Milano non avesse ricevuto una strana lettera anonima. Nello scritto un inquilino del caseggiato di via Macello a Milano avverte le forze dell’ordine della scomparsa della signora Ernestina Olivo: la donna non si vede da alcune settimane, mentre il marito, Alberto Olivo, a chi gli chiede informazioni della moglie, risponde che la donna si trova a Biella, in Piemonte, presso dei parenti.



La Polizia inizia ad indagare. La donna scomparsa si chiama Ernestina Beccaro, nata a Biella e sposata con Alberto Olivo di Udine. La prima cosa che gli inquirenti fanno e recarsi a Biella per verificare se la donna è effettivamente dove afferma il marito. Gli anziani genitori della Beccaro, due contadini, affermano di non vederla da quasi un anno.

A questo punto Alberto Olivo, il marito, diventa il primo indiziato. La Polizia ricostruisce la storia personale dell’Olivo e il suo matrimonio con la Beccaro. Alberto, nato nel 1856 da una famiglia borghese, studia fino al liceo ma dopo si ferma.

Prova con l’esercito ed entra a far parte del Genio, arma in cui rimane per oltre tre anni: in quel periodo è ricoverato più volte in ospedale per crisi di epilessia. Ritornato civile ha al suo attivo un diploma, conosce tre lingue, è abilissimo in matematica e grande lettore di libri. A 33 anni lascia la nativa Udine per Milano: qui trova lavoro presso la fabbrica di ceramiche Richard Ginori come ragioniere con uno stipendio interessante per l’epoca: 175 lire al mese.

Nel tempo libero legge molto e scrive poesie. Gli inquirenti scoprono che in passato l’Olivo aveva studiato un po’ di medicina. I vicini lo dipingono come un uomo tranquillo, tutto il contrario della Beccaro descritta come una donna arrogante e sgradevole, autrice di numerose scenate con il marito che pareva essere vittima della donna. I due si erano conosciuti quando lei faceva la cameriera nella trattoria dove l’Olivo era solito cenare. Le cose tra i due avevano cominciato a non funzionare poco dopo il loro matrimonio.

Secondo la portinaia, la donna era stata vista l’ultima volta il 14 e il 15 maggio; proprio in quei giorni si era confidata lamentandosi del marito che a suo dire la disprezzava e che era affetto da un’avarizia quasi patologica. La Beccaro confida alla portinaia davanti ad una tazza di caffè che sta seriamente pensando di lasciare il marito. A questo punto indizi e movente puntano tutti verso Alberto Olivo che viene sottoposto ad un serrato interrogatorio.

Dopo alcune ore di terzo grado un ispettore lancia un’esca: “abbiamo trovato il corpo di tua moglie” (all’epoca non c’erano metodologie scientifiche per individuare dai resti di una persona dissezionata e con i lineamenti sfigurati la sua identità). L’Olivo di colpo cede e confessa tutto. La versione dell’uomo è che durante l’ennesimo litigio sempre per una questione di soldi la donna gli si era scagliata contro e lui che impugnava un coltello con il quale aveva appena tagliato un limone l’aveva colpita, uccidendola al primo colpo.

Sempre secondo l’Olivo è in quel preciso momento che decide di dissezionare il corpo della moglie cercando di farne entrare la maggior parte nella valigia in cui aveva già riposto della naftalina. Si era sbarazzato delle parti anatomiche che non avevano trovato posto nella valigia attraverso il gabinetto di casa. Durante la confessione Olivo mostra una calma lucida ed un’impassibilità che sfocia in un’assoluta indifferenza verso quello che sta raccontando agli inquirenti.

L’uomo prosegue descrivendo il viaggio da Milano a Genova con l’intento di liberarsi del corpo in un luogo lontano e conferma quanto raccontato dal barcaiolo. Olivo era stato molto attento a non lasciare tracce e anche quando la polizia dispone un sopralluogo nell’alloggio di via Macello, non trova alcuna traccia per legare l’uomo all’omicidio di Ernestina. Sarà lui a consegnare il coltello usato per uccidere la moglie agli inquirenti.

Il processo inizia dopo oltre un anno dal delitto, il 10 giugno 1904 e la difesa si gioca subito la carta dell’infermità mentale. La tesi della difesa però non soltanto non trova d’accordo il giudice ma viene rifiutata anche dallo stesso imputato che ha un’alta considerazione di sé e non ci sta a passare per pazzo.

La sentenza è scioccante: Olivo viene riconosciuto non colpevole per l’uccisione della moglie e condannato a 12 giorni di prigione e 125 lire di multa per occultamento di cadavere. Di fatto la morte della moglie viene derubricata ad un mero incidente!

L’esito della sentenza scatena, come prevedibile, un putiferio mediatico che si rinfocola quando la Suprema Corte di Cassazione accoglie il ricorso della Procura ed annulla il processo. Olivo viene di nuovo incarcerato. Nel novembre dello stesso anno si apre il nuovo processo.

Tra i periti questa volta c’è anche Cesare Lombroso, all’epoca considerato il massimo esperto italiano in criminologia. Il professore ripercorre la biografia dell’imputato, ponendone in rilievo le tappe più tipiche che avrebbero determinato frustrazioni insanabili destinate a strutturare una personalità caratterizzata da una inesauribile certezza nella propria superiorità. Lombroso, pur non ipotizzando l’infermità mentale, pone in evidenza che quell’imputato comunque era affetto da alcune nevrosi, forse preludio a qualche più grave patologia psichiatrica.

Al termine del dibattimento la Giuria si ritira in camera di consiglio e ci sta soltanto 18 minuti. Al rientro in aula, lo shock è doppio Olivo viene dichiarato nuovamente innocente. Per Ernestina Beccaro, “l’antipatica” non ci sarà nessuna giustizia.

Il suo assassino qualche anno dopo cambierà nome e si risposerà. Il cortocircuito della giustizia italiana era riuscito a confezionare il “delitto perfetto”.

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