Nella relatività ristretta Einstein aveva considerato soltanto osservatori che si muovono a velocità costante, uniforme e che quindi possono ben asserire di essere fermi mentre il resto del mondo si muove intorno a loro.
Il moto accelerato produce effetti fisici sugli oggetti, tutti noi abbiamo sperimentato lo schiacciamento verso il sedile dopo una brusca accelerazione della nostra auto o la spinta laterale mentre percorriamo una curva.
La natura di queste forze impegnerà per un decennio Einstein nello sforzo di comprenderle e descriverle.
Se lasciamo cadere due pietre legate da una corda in un condotto privo d’aria, la corda non si tende proprio come se si trovasse nello spazio cosmico. Abbandonarsi alla gravità in altre parole significa simulare un’ambiente privo di gravità!
La NASA addestra gli astronauti ad affrontare l’assenza di gravità nello spazio facendoli volare su un Boeing 707 modificato, soprannominato Vomit Comet, che segue una traiettoria dove periodicamente raggiunge punti di caduta libera.
Einstein quindi predisse e dimostrò che gravità ed accelerazione sono equivalenti e che se avvertiamo la forza di gravità stiamo per forza accelerando. Il ragionamento con cui Einstein ci arriva è disarmante nella sua semplicità, sentiamo la forza di gravità soltanto quando ci opponiamo ad essa. Per contro quando ci abbandoniamo ad essa, in assenza di altri mezzi quali l’aria, galleggiamo come gli astronauti nello spazio cosmico.
La relatività ristretta asseriva che ogni osservatore divide la realtà in fette spaziotemporali diverse che rappresentano l’intero spazio in momenti temporali distinti e diversi.
Seguendo gli studi e le intuizioni di matematici come Gauss e Riemann, Einstein dimostrò con la sua teoria della relatività generale che ogni osservatore in accelerazione (ricordiamoci che accelerazione e gravità sono la stessa cosa) taglia fette spaziotemporali distorte.
In base a questo egli comprese che vista l’equivalenza tra accelerazione e gravità, la forza di gravità poteva essere descritta e spiegata come il prodotto di una serie di distorsioni e curve dello spaziotempo.
Finalmente Einstein spiegava quello che neppure il grande Newton era riuscito a fare, cos’era esattamente la forza di gravità: una forza così straordinaria in grado di modellare l’universo può essere spiegata banalmente, immaginate un pavimento di legno perfettamente levigato, se lasciamo correre una biglia essa procederà con un moto rettilineo uniforme, ma se in certi tratti il pavimento è danneggiato e sconnesso, la traiettoria della biglia sarà deflessa e curvata in varie direzioni a seconda delle gobbe o delle fossette del parquet.
In assenza di materia nell’Universo, lo spaziotempo non ha curve o distorsioni, ma la presenza di materia (stelle, pianeti, gas, ammassi di galassie) produce distorsioni e curve nel tessuto dello spazio tempo, la forza di gravità non è altro che il prodotto delle increspature spaziotemporali prodotte da queste masse.
La spinta che avvertiamo quando siamo in piedi su un pavimento o seduti nel divano del salotto agisce per impedirci di precipitare nell’avallamento spaziotemporale della nostra regione di spazio.
Einstein studiò a lungo il formalismo matematico per calcolare le dimensioni di un avvallamento spazio temporale in relazione alla presenza di una determinata quantità di materia. Il risultato furono le cosiddette equazioni di campo di Einstein equazioni che considerano le distorsioni spaziotemporali come la manifestazione geometrica di un campo gravitazionale, un pò come aveva fatto Maxwell per i campi elettromagnetici.
Attraverso questo lavoro Einstein riuscì anche a dimostrare che le increspature dello spaziotempo non si trasmettono istantaneamente ma viaggiano anch’esse alla velocità della luce, la velocità limite predetta dalla relatività ristretta.
Uno sforzo titanico che certamente aveva mutuato contributi ed intuizioni da parte di tanti scienziati ma che per coagularsi in quel meraviglioso impianto descrittivo che è la teoria generale delle relatività aveva bisogno di una mente eccelsa e solitaria: quella di Albert Einstein.