mercoledì, Gennaio 15, 2025
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C’era un Universo prima del Big Bang? Ecco la prova

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Un Universo prima del Big Bang? Ecco la prova
Un Universo prima del Big Bang? Ecco la prova

La nozione del Big Bang risale a quasi 100 anni fa, quando apparvero le prime prove dell’espansione dell’Universo. Se oggi l’Universo si sta espandendo e raffreddando, l’implicazione è che in passato era più piccolo, più denso e più caldo.

Nella nostra immaginazione, andando indietro nel tempo possiamo estrapolare dimensioni arbitrariamente piccole, densità più elevata e temperatura più calda fino ad arrivare ad una singolarità, dove tutta la materia e l’energia dell’Universo erano condensate in un unico punto. Per molti decenni, queste due nozioni del Big Bang – dello stato caldo e denso che descrive l’Universo primordiale e la singolarità iniziale – sono state inseparabili.

Ma a partire dagli anni ’70, gli scienziati hanno iniziato a identificare alcuni enigmi che circondano il Big Bang, notando diverse proprietà dell’Universo che non erano spiegabili simultaneamente nel contesto di queste due nozioni.

Quando l’inflazione cosmica fu presentata e sviluppata, nei primi anni ’80, separò le due definizioni del Big Bang, proponendo che il primo stato caldo e denso non avesse mai raggiunto queste condizioni singolari, ma piuttosto che un nuovo stato inflazionistico lo avesse preceduto. C’era davvero un Universo prima del caldo Big Bang, e alcune prove molto forti del 21° secolo dimostrano che è così.

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La nostra intera storia cosmica è teoricamente ben compresa, ma solo perché comprendiamo la teoria della gravitazione che ne è alla base e perché conosciamo l’attuale tasso di espansione dell’Universo e la composizione energetica. Possiamo tracciare la linea temporale dell’Universo con squisita precisione, nonostante le incertezze e le incognite che circondano l’inizio stesso dell’Universo. Dall’inflazione cosmica fino all’odierna dominazione dell’energia oscura, sono noti i grandi tratti della nostra intera storia cosmica. ( Credito : Nicole Rager Fuller/National Science Foundation)

Sebbene siamo certi di poter descrivere l’Universo primordiale come caldo, denso, in rapida espansione e pieno di materia e radiazioni – cioè, dal caldo Big Bang – alla questione se quello sia stato veramente l’inizio del Universo o no si può rispondere con prove. Le differenze tra un Universo che ha avuto inizio con un caldo Big Bang e un Universo che ha avuto una fase inflazionistica che ha preceduto e avviato il caldo Big Bang sono sottili, ma tremendamente importanti. Dopotutto, se vogliamo sapere qual è stato l’inizio dell’Universo, dobbiamo cercare prove nell’Universo stesso.

In un caldo Big Bang che estrapoliamo fino a una singolarità, l’Universo raggiunge temperature arbitrariamente calde ed energie elevate. Anche se l’Universo avrà una densità e una temperatura “medie”, ci saranno imperfezioni ovunque: sia regioni sovradense che regioni sottodense. Man mano che l’Universo si espande e si raffredda, gravita anche, il che significa che le regioni sovradense attireranno più materia ed energia al loro interno, crescendo nel tempo, mentre le regioni sottodense perderanno materia ed energia attratte nelle regioni circostanti più dense, creando i semi per un’eventuale rete cosmica di struttura.

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L’Universo non solo si espande in modo uniforme, ma ha al suo interno minuscole imperfezioni di densità, che ci consentono di formare stelle, galassie e ammassi di galassie col passare del tempo. L’aggiunta di disomogeneità di densità su uno sfondo omogeneo è il punto di partenza per capire come appare l’Universo oggi. ( Crediti : EM Huff, SDSS-III/South Pole Telescope, Zosia Rostomian)

Ma i dettagli che emergeranno nella rete cosmica sono determinati molto prima, poiché i “semi” della struttura su larga scala sono stati impressi nell’Universo primordiale. Le stelle, le galassie, gli ammassi di galassie e la struttura filamentosa di oggi sulle scale più grandi possono essere ricondotte a imperfezioni di densità da quando gli atomi neutri si formarono per la prima volta nell’Universo, mentre quei “semi” crescevano, per centinaia di milioni e persino miliardi di anni, nella ricca struttura cosmica che vediamo oggi. Quei semi esistono in tutto l’Universo e rimangono, anche oggi, come imperfezioni di temperatura nel bagliore residuo del Big Bang: lo sfondo cosmico a microonde.

Come misurato dal satellite WMAP negli anni 2000 e dal suo successore, il satellite Planck, negli anni 2010, si osserva che queste fluttuazioni di temperatura appaiono su tutte le scale e corrispondono alle fluttuazioni di densità nell’Universo primordiale. Il legame è dovuto alla gravitazione e al fatto che all’interno della Relatività Generale, la presenza e la concentrazione di materia ed energia determina la curvatura dello spazio. La luce deve viaggiare dalla regione dello spazio in cui ha origine agli “occhi” dell’osservatore, e questo significa:

  • le regioni sovradense, con più materia ed energia della media, appariranno più fredde della media, poiché la luce deve “uscire” da un pozzo gravitazionale più grande,
  • le regioni sottodense, con meno materia ed energia della media, appariranno più calde della media, poiché la luce ha un potenziale gravitazionale inferiore alla media da cui uscire,
  • e che le regioni di densità media appariranno come una temperatura media: la temperatura media del fondo cosmico a microonde.
Quando vediamo un punto caldo, un punto freddo o una regione di temperatura media nella CMB, la diversa temperatura che vediamo corrisponde tipicamente a una regione sottodensa, sovradensa o a densità media al momento in cui la CMB è stata emessa: solo 380.000 anni dopo il Big Bang. Questa è una conseguenza dell’effetto Sachs-Wolfe. Tuttavia, anche altri effetti successivi possono causare fluttuazioni di temperatura. ( Credito : E. Siegel/Oltre la Galassia)

Ma a cosa sono dovute queste imperfezioni? Queste imperfezioni di temperatura che osserviamo nel bagliore residuo del Big Bang ci provengono da 380.000 anni dopo l’inizio del caldo Big Bang, il che significa che hanno già sperimentato 380.000 anni di evoluzione cosmica. E qui, la storia è molto diversa, a seconda della spiegazione che scegli.

Secondo la “singolare” spiegazione del Big Bang, l’Universo è semplicemente “nato” con un insieme originale di imperfezioni, e che queste imperfezioni sono cresciute e si sono evolute secondo le regole del collasso gravitazionale, delle interazioni tra particelle e della radiazione che interagisce con la materia, comprese le differenze tra materia normale e materia oscura.

Secondo la teoria dell’origine inflazionistica, tuttavia, dove il caldo Big Bang sorge solo all’indomani di un periodo di inflazione cosmica, queste imperfezioni sono seminate da fluttuazioni quantistiche, cioè fluttuazioni che sorgono a causa della relazione intrinseca di incertezza energia-tempo in fisica quantistica – che si verificano durante il periodo inflazionistico: quando l’Universo si sta espandendo in modo esponenziale. Queste fluttuazioni quantistiche, generate sulle scale più piccole, vengono estese a scale più grandi dall’inflazione, mentre le fluttuazioni più recenti e successive vengono estese su di esse, creando una sovrapposizione di queste fluttuazioni su tutte le scale di distanza.

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Le fluttuazioni quantistiche che si verificano durante l’inflazione si estendono effettivamente attraverso l’Universo e, successivamente, le fluttuazioni su scala più piccola si sovrappongono a quelle più vecchie e su scala più ampia. Questo dovrebbe anche, in teoria, produrre fluttuazioni su scale più grandi dell’orizzonte cosmico: fluttuazioni del super-orizzonte. Queste fluttuazioni di campo causano imperfezioni di densità nell’Universo primordiale, che poi portano alle fluttuazioni di temperatura che misuriamo nel fondo cosmico a microonde. ( Credito : E. Siegel/Oltre la Galassia)

Queste due immagini sono concettualmente diverse, ma il motivo per cui sono interessanti per gli astrofisici è che ciascuna immagine porta a differenze potenzialmente osservabili nei tipi di firme che osserveremmo. Nella “singolare” immagine del Big Bang, i tipi di fluttuazioni che ci aspetteremmo di vedere sarebbero limitati dalla velocità della luce: la distanza alla quale un segnale, gravitazionale o di altro tipo, avrebbe potuto propagarsi se si fosse mosso alla velocità della luce attraverso l’Universo in espansione che iniziò con l’evento noto come Big Bang.

Ma in un Universo che ha subito un periodo di inflazione prima dell’inizio del caldo Big Bang, ci aspetteremmo l’esistenza di fluttuazioni di densità su tutte le scale, anche su scale più grandi della velocità della luce che avrebbe permesso a un segnale di viaggiare da allora l’inizio del caldo Big Bang. Poiché l’inflazione essenzialmente “raddoppia” le dimensioni dell’Universo in tutte e tre le dimensioni ogni minuscola frazione di secondo che passa, le fluttuazioni che si sono verificate poche centinaia di frazioni di secondo fa sono già estese a una scala più grande rispetto all’Universo attualmente osservabile.

Sebbene le fluttuazioni successive si sovrappongano alle fluttuazioni più antiche, precedenti e su larga scala, l’inflazione ci consente di far partire l’Universo con fluttuazioni su larga scala che non dovrebbero esistere nell’Universo se iniziasse con il Big Bang di una singolarità senza inflazione.

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Le fluttuazioni quantistiche inerenti allo spazio, estese attraverso l’Universo durante l’inflazione cosmica, hanno dato origine alle fluttuazioni di densità impresse nel fondo cosmico a microonde, che a loro volta hanno dato origine alle stelle, alle galassie e ad altre strutture su larga scala nell’Universo di oggi. Questa è la migliore immagine che abbiamo di come si comporta l’intero Universo, dove l’inflazione precede e crea il Big Bang. ( Crediti : E. Siegel; ESA/Planck e la task force interagenzia DOE/NASA/NSF sulla ricerca CMB)

In altre parole, il grande test che si può eseguire è esaminare l’Universo, in tutti i suoi dettagli cruenti, e cercare la presenza o l’assenza di questa caratteristica chiave: ciò che i cosmologi chiamano fluttuazioni del super-orizzonte. In qualsiasi momento nella storia dell’Universo, c’è un limite alla distanza che un segnale che ha viaggiato alla velocità della luce dall’inizio del caldo Big Bang avrebbe potuto percorrere e questa scala imposta quello che è noto come l’orizzonte cosmico.

  • Le scale più piccole dell’orizzonte, note come scale sub-orizzonte, possono essere influenzate dalla fisica che si è verificata dall’inizio del caldo Big Bang.
  • Le scale uguali all’orizzonte, note come scale dell’orizzonte, sono il limite superiore di ciò che potrebbe essere stato influenzato dai segnali fisici dall’inizio del caldo Big Bang.
  • E le scale che sono più grandi dell’orizzonte, note come scale super-orizzonte, sono oltre il limite di ciò che potrebbe essere stato causato da segnali fisici generati all’inizio del caldo Big Bang.

In altre parole, se possiamo cercare nell’Universo segnali che appaiono su scale di super-orizzonte, questo è un ottimo modo per discriminare tra un Universo non inflazionistico che è iniziato con un singolo Big Bang caldo (che non dovrebbe averli affatto) e un universo che ha avuto un periodo inflazionistico prima dell’inizio del caldo Big Bang (che dovrebbe possedere queste fluttuazioni del super-orizzonte).

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Il bagliore residuo del Big Bang, la CMB, non è uniforme, ma presenta minuscole imperfezioni e fluttuazioni di temperatura di poche centinaia di microkelvin. Queste fluttuazioni sono state generate da una combinazione di processi, ma i dati di temperatura, da soli, non sono in grado di determinare se esistono o meno fluttuazioni del superorizzonte. ( Credito : ESA e la collaborazione Planck)

Sfortunatamente, il semplice guardare una mappa delle fluttuazioni di temperatura nel fondo cosmico a microonde non è sufficiente, da solo, per distinguere questi due scenari. La mappa della temperatura del fondo cosmico a microonde può essere suddivisa in diverse componenti, alcune delle quali occupano grandi scale angolari nel cielo, altre occupano piccole scale angolari, così come tutto ciò che sta nel mezzo.

Il problema è che le fluttuazioni sulle scale più grandi hanno due possibili cause. Potrebbero essere state create dalle fluttuazioni sorte durante un periodo inflazionistico, certo. Ma potrebbero anche essere state create semplicemente dalla crescita gravitazionale della struttura nell’Universo del tardo tempo, che ha un orizzonte cosmico molto più ampio dell’Universo del primo tempo.

Ad esempio, se tutto ciò che hai è un pozzo potenziale gravitazionale da cui un fotone può uscire, uscire da quel pozzo costa l’energia del fotone; questo è noto come effetto Sachs-Wolfe in fisica e si verifica per il fondo cosmico a microonde nel punto in cui i fotoni sono stati emessi per la prima volta.

Tuttavia, se il tuo fotone cade in un potenziale gravitazionale lungo il percorso, guadagna energia, e poi quando risale di nuovo verso di te, perde energia. Se l’imperfezione gravitazionale cresce o si riduce nel tempo, cosa che avviene in molti modi in un Universo gravitante pieno di energia oscura, allora varie regioni dello spazio possono apparire più calde o più fredde della media in base alla crescita (o al restringimento) delle imperfezioni di densità al suo interno. Questo è noto come effetto Sachs-Wolfe integrato.

Quindi, quando osserviamo le imperfezioni di temperatura nel fondo cosmico a microonde e le vediamo su queste grandi scale cosmiche, non hanno abbastanza informazioni da sole, per sapere se:

  • sono stati generate dall’effetto Sachs-Wolfe, e sono dovute all’inflazione,
  • sono state generati dall’effetto Sachs-Wolfe integrato e sono dovute alla crescita/restringimento delle strutture in primo piano,
  • o sono dovute a una combinazione dei due.

Fortunatamente, però, osservare la temperatura del fondo cosmico a microonde non è l’unico modo per ottenere informazioni sull’Universo; possiamo anche guardare i dati di polarizzazione della luce da quello sfondo.

Quando la luce viaggia attraverso l’Universo, interagisce con la materia al suo interno, e con gli elettroni in particolare (ricorda, la luce è un’onda elettromagnetica!). Se la luce è polarizzata in modo radialmente simmetrico, questo è un esempio di polarizzazione E-mode (elettrica); se la luce è polarizzata in senso orario o antiorario, questo è un esempio di polarizzazione B-mode (magnetica). Tuttavia, rilevare la polarizzazione, da solo, non è sufficiente per mostrare l’esistenza di fluttuazioni del super-orizzonte.

Questa mappa mostra il segnale di polarizzazione della CMB, misurato dal satellite Planck nel 2015. I riquadri superiore e inferiore mostrano la differenza tra il filtraggio dei dati su particolari scale angolari rispettivamente di 5 gradi e 1/3 di grado. ( Credito : ESA e la collaborazione Planck, 2015)

Quello che devi fare è eseguire un’analisi di correlazione: tra la luce polarizzata e le fluttuazioni di temperatura nel fondo cosmico a microonde, e correlarle sulle stesse scale angolari l’una dell’altra. È qui che le cose si fanno davvero interessanti, perché è qui che osservare l’Universo che abbiamo ci permette di distinguere gli scenari del “Big Bang senza inflazione” e dello “stato inflazionistico che dà origine al caldo Big Bang“!

  • In entrambi i casi, ci aspettiamo di vedere correlazioni sub-orizzonte, sia positive che negative, tra la polarizzazione in modalità E nel fondo cosmico a microonde e le fluttuazioni di temperatura all’interno del fondo cosmico a microonde.
  • In entrambi i casi, ci aspettiamo che sulla scala dell’orizzonte cosmico, corrispondente a scale angolari di circa 1 grado, queste correlazioni siano nulle.
  • Tuttavia, su scale di superorizzonte, lo scenario del “singolare Big Bang” possiederà solo un grande “bip” positivo di correlazione tra la polarizzazione in modalità E e le fluttuazioni di temperatura nel fondo cosmico a microonde, corrispondente a quando le stelle si formano in grandi numeri e reionizzare il mezzo intergalattico. Lo scenario del “Big Bang inflazionistico”, invece, include questo, ma include anche una serie di correlazioni negative tra la polarizzazione E-mode e le fluttuazioni di temperatura su scale super-orizzonte, ovvero scale comprese tra circa 1 e 5 gradi (o momenti multipolari da l = 30 a l = 200).
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Questa pubblicazione WMAP del 2003 è il primo vero documento scientifico a mostrare le prove delle fluttuazioni del super-orizzonte nello spettro di correlazione temperatura-polarizzazione (correlazione incrociata TE). È molto difficile trascurare il fatto che la curva continua, e non la linea tratteggiata, sia seguita a sinistra della linea tratteggiata verde annotata. ( Crediti : A. Kogut et al., ApJS, 2003; annotazioni di E. Siegel)

Quello che vedete sopra è il primissimo grafico, pubblicato dal team WMAP nel 2003, ben 20 anni fa, che mostra quello che i cosmologi chiamano spettro di correlazione incrociata TE: le correlazioni, su tutte le scale angolari, che vediamo tra il Polarizzazione E-mode e fluttuazioni di temperatura nel fondo cosmico a microonde. In verde, la scala dell’orizzonte cosmico, insieme alle frecce che indicano sia la scala sub-orizzonte che quella super-orizzonte. Come puoi vedere, su scale sub-orizzonte, le correlazioni positive e negative sono entrambe presenti, ma su scale super-orizzonte, c’è chiaramente quel grande “ribasso” che appare nei dati, concordando con la previsione inflazionistica (linea continua), e definitivamente non concordando con la singolare previsione non inflazionistica del Big Bang (linea tratteggiata).

Naturalmente, sono passati 20 anni e il satellite WMAP è stato sostituito dal satellite Planck, superiore sotto molti aspetti: vedeva l’Universo in un numero maggiore di bande di lunghezza d’onda, scendeva a scale angolari più piccole, possedeva una maggiore sensibilità alla temperatura, includeva uno strumento di polarimetria dedicato e campionava più volte l’intero cielo, riducendo ulteriormente gli errori e le incertezze. Quando guardiamo i dati di correlazione incrociata Planck TE finali (era 2018), di seguito, i risultati sono mozzafiato.

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Se si vogliono indagare i segnali all’interno dell’Universo osservabile per prove inequivocabili delle fluttuazioni del super-orizzonte, è necessario esaminare le scale del super-orizzonte nello spettro di correlazione incrociata TE della CMB. Con i dati Planck finali (2018) ora disponibili, le prove sono schiaccianti a favore della loro esistenza. ( Crediti : ESA e la collaborazione Planck; annotazioni di E. Siegel)

Come puoi vedere chiaramente, non ci possono essere dubbi sul fatto che ci siano davvero fluttuazioni del super-orizzonte all’interno dell’Universo, poiché il significato di questo segnale è travolgente. Il fatto che vediamo le fluttuazioni del super-orizzonte e che le vediamo non solo dalla reionizzazione, ma come si prevede che esistano dall’inflazione, è la pistola fumante: il modello singolare e non inflazionistico del Big Bang non corrisponde all’Universo che osserviamo. Invece, apprendiamo che possiamo solo estrapolare l’Universo fino a un certo punto limite nel contesto del caldo Big Bang, e che prima di ciò, uno stato inflazionistico deve aver preceduto il caldo Big Bang.

Ci piacerebbe dire di più sull’Universo, ma sfortunatamente questi sono i limiti osservabili: fluttuazioni e impronte su scale più grandi non lasciano alcun effetto sull’Universo che possiamo vedere. Ci sono anche altri test dell’inflazione che possiamo cercare: uno spettro quasi invariante di scala di fluttuazioni puramente adiabatiche, un taglio nella temperatura massima del caldo Big Bang, un leggero allontanamento dalla perfetta piattezza verso la curvatura cosmologica e una primordiale spettro delle onde gravitazionali tra loro. Tuttavia, il test di fluttuazione del super-orizzonte è facile da eseguire e completamente robusto.

Tutto da solo, è sufficiente per dirci che l’Universo non è iniziato con il caldo Big Bang, ma piuttosto che uno stato inflazionistico lo ha preceduto e lo ha creato. Sebbene generalmente non se ne parli in questi termini, questa scoperta, da sola, è facilmente un risultato degno di un Nobel.

Un circuito di sottili fili d’argento dimostra proprietà simili al cervello

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Un circuito di sottili fili d'argento dimostra proprietà simili al cervello

Le reti neuromorfiche sono strutture formate dall’autoassemblaggio casuale di nanofili d’argento in un circuito. I nanofili d’argento vengono rivestiti con uno strato di polimero dopo la sintesi e le giunzioni tra due nanofili agiscono come interruttori resistivi, una tipologia di struttura spesso paragonata alle neurosinapsi.

Circuiti Neurali

Un gruppo di ricercatori ha realizzato con questi nanofili un piccolo circuito che, secondo loro, potrebbe aiutarli a costruire macchine dotate di cervelli che si comportano e pensano come i nostri.

Il dispositivo, un modello realizzato con i nanofili d’argento, emana correnti elettriche in continuo mutamento che gli scienziati hanno confrontato con diversi stati di attività neurale come l’apprendimento, la veglia e il sonno, secondo un comunicato stampa dell’Università della California a Los Angeles.

il passo successivo è stato quello di analizzare il ruolo della commutazione a giunzione singola nelle proprietà dinamiche della rete neuromorfica ed i ricercatori si sono accorti che la rete passa a uno stato di alta conduttanza sotto l’applicazione di una polarizzazione di tensione superiore a un valore soglia. La stabilità e la permanenza di questo stato vengono studiate spostando la polarizzazione di tensione per attivare o disattivare la rete.

Un modello della rete elettrica con interruttori atomici riproduce la relazione tra gli eventi di commutazione delle singole giunzioni dei nanofili con la formazione o la distruzione del percorso di corrente. Questa relazione si manifesta ulteriormente nei cambiamenti nella scala della legge di potenza 1/f della distribuzione spettrale della corrente.

Si ritiene che le fluttuazioni di corrente coinvolte in questo spostamento di scala derivino da un equilibrio essenziale tra la formazione, la rottura mediata stocastica delle singole giunzioni nanofilo-nanofilo e l’inizio di diversi percorsi di corrente che ottimizzano la dissipazione di potenza.

Questa dinamica emergente mostrata dalle reti di nanofili d’Ag rivestite di polimeri colloca questo sistema nella classe delle reti di trasporto ottimali, da cui si possono trarre nuovi parallelismi fondamentali con le dinamiche neurali e la risoluzione dei problemi di elaborazione naturale.

Caos Ingegneristico

La cosa interessante, quindi, è che mentre l’elettricità scorre attraverso i fili d’argento, la corrente provoca dei cambiamenti nella forma fisica del circuito, alterandone il funzionamento. La ricerca è stata pubblicata su Scientific Reports.

Questo è un sistema che si pone tra ordine e caos, al limite del caos“, ha dichiarato il biochimico dell’UCLA James Gimzewski nel comunicato stampa. “Il modo in cui il dispositivo si evolve e si modifica costantemente è simile al funzionamento del cervello umano. Può accadere con diversi tipi di modelli di comportamento che non si ripetono“.

Primo Passo

Confrontare un piccolo circuito che cambia nel tempo con l’incommensurabile complessità del cervello umano potrebbe sembrare presuntuoso ma questo dispositivo potrebbe aiutare gli scienziati a lavorare su computer sempre più complessi in grado di affrontare i problemi che i sistemi attuali non possono risolvere.

Il nostro approccio può essere utile per generare nuovi tipi di hardware che siano sia efficienti dal punto di vista energetico sia in grado di elaborare complessi set di dati che sfidano i limiti dei computer moderni“, ha concluso il ricercatore dell’UCLA Adam Stieg nel comunicato.

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Starship SN7: un passo avanti verso la colonizzazione di Marte

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Starship SN7: un passo avanti verso la colonizzazione di Marte
Starship SN7: un passo avanti verso la colonizzazione di Marte
Starship SN7: un passo avanti verso la colonizzazione di Marte

L’attesa sta per finire. SpaceX, l’azienda aerospaziale di Elon Musk, si prepara a un nuovo, emozionante capitolo della sua storia con il settimo volo di prova del suo megarazzo Starship SN7. Questo lancio, previsto per il 10 gennaio 2025, si preannuncia come il più ambizioso finora, con una serie di innovazioni e obiettivi che potrebbero rivoluzionare il settore spaziale..

Starship SN7: verso il settimo volo di prova con ambiziosi obiettivi

Per questo settimo volo, Starship SN7 sfoggia una serie di aggiornamenti significativi, volti a migliorare l’affidabilità, le prestazioni e le capacità del razzo:

Un flap anteriore più piccolo e riposizionato: Questa modifica aerodinamica contribuirà a ridurre il riscaldamento durante il rientro atmosferico, garantendo una maggiore protezione per il veicolo spaziale.

Un sistema di propulsione potenziato: Grazie a un aumento del 25% della capacità di carburante e a un’avionica più avanzata, sarà in grado di compiere missioni più lunghe e impegnative.

Uno scudo termico rinforzato: Le nuove tile termiche, dotate di uno strato di backup, offriranno una protezione ancora più efficace durante le fasi più critiche del volo.

Un’avionica di nuova generazione: Un computer di volo più potente e antenne integrate consentiranno di gestire in modo più efficiente le comunicazioni e la navigazione.

Uno degli obiettivi principali di questo lancio è il dispiegamento dei satelliti Starlink. Per la prima volta, SpaceX tenterà di utilizzare Starship come piattaforma di lancio per questa ambiziosa costellazione di satelliti, destinata a fornire un accesso a Internet ad alta velocità in tutto il mondo.

Il settimo volo di prova di Starship SN7 rappresenta un passo fondamentale verso la realizzazione di ambiziosi progetti spaziali, come l’esplorazione di Marte e il trasporto di grandi carichi in orbita terrestre bassa. Le innovazioni introdotte in questa missione potrebbero aprire la strada a nuove possibilità nel settore aerospaziale, riducendo i costi dei lanci e rendendo l’accesso allo Spazio più accessibile.

SpaceX continua a spingere i limiti della tecnologia spaziale, dimostrando ancora una volta la sua capacità di innovare e realizzare progetti audaci. Il settimo volo di prova di Starship SN7 è solo l’ultimo capitolo di una storia che promette di riservare molte altre sorprese.

SpaceX si appresta a un test cruciale per il futuro delle sue missioni spaziali. Durante il prossimo volo di prova, Starship SN7 effettuerà il primo tentativo di distribuire un carico utile simulato nello Spazio. I 10 simulatori di satelliti Starlink a bordo, pur non essendo funzionali, permetteranno di valutare le prestazioni del sistema di rilascio, le interazioni aerodinamiche tra il razzo e il carico utile durante la separazione, e l’accuratezza della traiettoria di rientro. I dati raccolti durante questo test saranno fondamentali per affinare le procedure operative e per ottimizzare le future missioni di lancio di satelliti.

L’azienda ha collezionato una serie di successi con Starship nel 2024. L’ultimo volo di prova, condotto il 20 novembre, ha dimostrato ancora una volta l’affidabilità del sistema. Sebbene l’azienda abbia deciso di non tentare la cattura del booster in questa occasione, il lancio suborbitale è stato considerato un pieno successo. Un traguardo storico è stato raggiunto all’inizio di ottobre 2024, quando Starship ha effettuato il suo quinto volo di prova. Per la prima volta, il colossale booster Super Heavy è stato catturato al volo da enormi bracci meccanici, un’impresa che segna una svolta decisiva verso la riutilizzabilità completa del sistema.

SpaceX punta a una rivoluzione nel settore spaziale. L’azienda ha ambiziosi piani per riutilizzare completamente il razzo, recuperando sia il booster che lo stadio superiore. Musk ha annunciato l’intenzione di catturare lo stadio superiore utilizzando il gigantesco braccio meccanico Mechazilla entro la fine dell’anno. Quest’anno si preannuncia cruciale, con l’obiettivo di effettuare fino a 25 lanci. La Federal Aviation Administration si riunirà martedì per discutere l’aumento della frequenza dei lanci, un segnale dell’impegno di SpaceX a rendere i viaggi spaziali più sostenibili ed economici.

Conclusioni

Il settimo volo di prova di Starship SN7 rappresenta un punto di svolta nella corsa allo spazio. Se avrà successo, aprirà le porte a un futuro in cui i viaggi spaziali saranno più accessibili e frequenti, con missioni su Marte e sulla Luna sempre più vicine. Gli occhi del mondo saranno puntati su SpaceX mentre si prepara a scrivere un nuovo capitolo nella storia dell’esplorazione spaziale.

Intelligenza Artificiale Generale: addio ai lavori ripetitivi?

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Intelligenza Artificiale Generale: addio ai lavori ripetitivi?

Domenica 5 gennaio 2025, Sam Altman, CEO di OpenAI, ha lanciato una bomba nel mondo dell’intelligenza artificiale con due affermazioni audaci: la certezza di aver trovato il percorso verso l’Intelligenza Artificiale Generale (AGI) e la previsione di vedere agenti AI integrati nei processi produttivi già nel 2025. Queste dichiarazioni, pur entusiasmanti, sollevano una serie di interrogativi e preoccupazioni che meritano un’analisi attenta.

Intelligenza Artificiale Generale: addio ai lavori ripetitivi?

l’Intelligenza Artificiale Generale: una promessa o un miraggio?

L’Intelligenza Artificiale Generale, un concetto ancora avvolto nel mistero, è spesso descritto come un’intelligenza artificiale in grado di superare l’intelligenza umana in qualsiasi compito intellettuale. Le dichiarazioni di Altman sembrano suggerire che OpenAI sia sull’orlo di raggiungere questo traguardo. Tuttavia, la definizione stessa di AGI è oggetto di dibattito tra gli esperti. Alcuni sostengono che l’AGI sia un obiettivo irraggiungibile, mentre altri ritengono che sia solo questione di tempo.

Le dichiarazioni di Altman si basano su una definizione di Intelligenza Artificiale Generale legata alla capacità di generare profitti. Questa visione, pur pragmatica, rischia di semplificare eccessivamente un concetto complesso e di sottovalutare le implicazioni etiche e sociali dell’AGI.

L’introduzione di agenti AI nel mondo del lavoro è un’altra previsione audace di Altman. Questi agenti, in grado di agire autonomamente per conto degli utenti, potrebbero rivoluzionare il modo in cui lavoriamo.Tuttavia, questa prospettiva solleva una serie di interrogativi. La diffusione su larga scala degli agenti AI potrebbe portare a una significativa disoccupazione, in particolare nei settori più automatizzabili.

L’accesso a queste tecnologie potrebbe essere concentrato nelle mani di poche grandi aziende, aumentando le disuguaglianze economiche. L’uso degli agenti AI solleva questioni etiche importanti, come la responsabilità in caso di errori o la possibilità di manipolazione. Le dichiarazioni di Altman sono state accolte con scetticismo da parte di molti esperti del settore. Gary Marcus, noto critico di OpenAI, ha sottolineato il rischio di esagerare le capacità dell’Intelligenza Artificiale Generale e di utilizzare dichiarazioni allarmistiche per attirare finanziamenti.

Le preoccupazioni sollevate da Marcus sono fondate. L’intelligenza artificiale è uno strumento potente, ma è importante utilizzarlo in modo responsabile e consapevole delle sue limitazioni. Le dichiarazioni di Sam Altman aprono un dibattito importante sul futuro dell’intelligenza artificiale. È fondamentale che la comunità scientifica, le aziende e i governi lavorino insieme per sviluppare linee guida e regolamenti che garantiscano uno sviluppo responsabile e etico dell’IA.

Agenti AI: i nuovi lavoratori dell’intelligenza artificiale

L’entusiasmo di Altman per le potenzialità dell’Intelligenza Artificiale Generale ha incontrato lo scetticismo di molti esperti, tra cui Gary Marcus. Da tempo Marcus, professore emerito di psicologia e neuroscienze, si è posto come figura di riferimento per coloro che nutrono dubbi sulle promesse dell’intelligenza artificiale. La sua partecipazione all’audizione al Senato, a fianco di Altman, ha ulteriormente consolidato il suo ruolo di contraddittore.

Marcus ha sferzato una critica serrata alle previsioni di OpenAI sull’AGI, evidenziando le carenze degli attuali modelli linguistici. In una serie di post, ha dimostrato come questi modelli, pur avanzati, falliscano in compiti apparentemente semplici come la risoluzione di problemi matematici o il ragionamento logico. Anche o1-pro, presentato come un modello di “ragionamento simulato”, mostra limiti significativi, come la difficoltà a generalizzare oltre i dati di addestramento, condividendo così alcune delle debolezze di GPT-4. Queste critiche sollevano dubbi sulla reale capacità degli attuali modelli di raggiungere l’Intelligenza Artificiale Generale nel breve termine.

Il dibattito sull’efficacia dei suoi modelli si è ulteriormente infiammato. Marcus ha citato uno studio di All Hands AI che mette in discussione le affermazioni di OpenAI sulle prestazioni di o1. Secondo questo studio, o1 avrebbe ottenuto risultati inferiori alle aspettative in un benchmark specifico, contraddicendo i dati ufficiali. Inoltre, il modello di Anthropic, Claude Sonnet, avrebbe addirittura superato o1 in questo test. Queste discrepanze sollevano interrogativi sulla trasparenza dei risultati e sull’effettiva capacità di questi modelli di risolvere problemi complessi.

L’idea di una superintelligenza affascina e preoccupa allo stesso tempo. Altman dipinge un quadro entusiasmante, in cui diventa un catalizzatore per lo sviluppo scientifico e la risoluzione di problemi globali. Tuttavia, questa prospettiva solleva anche importanti questioni etiche e di sicurezza. La creazione di un’Intelligenza Artificiale Generale che supera di gran lunga la nostra potrebbe avere conseguenze imprevedibili, e la comunità scientifica è chiamata a riflettere attentamente sulle implicazioni di questa rivoluzione tecnologica.

Conclusioni

Da visionari scettici a protagonisti indiscussi dell’IA: la storia di OpenAI è un esempio di come una scommessa audace possa cambiare il mondo. ChatGPT ha dimostrato che l’intelligenza artificiale non è più solo una promessa per il futuro, ma una realtà del presente. Nonostante le critiche, Altman e il suo team continuano a spingere i limiti della tecnologia, con l’obiettivo di realizzare un’Intelligenza Artificiale Generale in grado di risolvere i problemi più complessi dell’umanità.

Le pupille ci raccontano come il cervello consolida i ricordi durante il sonno

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Le pupille ci raccontano come il cervello consolida i ricordi durante il sonno
Le pupille ci raccontano come il cervello consolida i ricordi durante il sonno

Un team di ricercatori ha fatto una scoperta rivoluzionaria sui meccanismi cerebrali che governano il consolidamento della memoria durante il sonno. Studiando topi dotati di elettrodi cerebrali e minuscole telecamere per il tracciamento oculare delle pupille, gli scienziati hanno identificato un meccanismo finora sconosciuto che permette al cervello di separare e consolidare i ricordi in modo altamente efficiente.

Le pupille ci raccontano come il cervello consolida i ricordi durante il sonno
Le pupille ci raccontano come il cervello consolida i ricordi durante il sonno

Le pupille, una finestra sul cervello

Osservando attentamente i movimenti oculari dei topi durante il sonno, i ricercatori hanno notato un fenomeno sorprendente: la dimensione delle pupille variava in modo ciclico durante la fase non-REM del sonno. Quando la pupilla si contraeva, i topi riproducevano e consolidavano i ricordi più recenti, mentre quando si dilatava, lo stesso processo si ripeteva per i ricordi più vecchi. Questa scoperta suggerisce che il cervello utilizza la contrazione e la dilatazione della pupilla come un meccanismo per separare e organizzare i ricordi durante il sonno.

Questa nuova comprensione dei meccanismi del sonno offre una spiegazione affascinante su come il cervello riesce a evitare la cosiddetta “dimenticanza catastrofica“, ovvero la sovrascrittura di ricordi più vecchi con quelli più recenti. La capacità di separare le diverse fasi del consolidamento della memoria in base alla dimensione delle pupille permette al cervello di mantenere un archivio di ricordi organizzato e accessibile.

Questa scoperta ha profonde implicazioni sia per la comprensione del funzionamento del cervello umano che per lo sviluppo di nuove tecnologie. Capire come il cervello consolida i ricordi durante il sonno potrebbe aprire nuove strade per lo sviluppo di tecniche per migliorare la memoria negli esseri umani, ad esempio attraverso la stimolazione cerebrale o l’uso di farmaci. I risultati di questa ricerca potrebbero essere utilizzati per progettare algoritmi di apprendimento automatico più efficienti, ispirati ai meccanismi cerebrali che consentono di separare e consolidare le informazioni.

Sebbene la relazione tra sonno e memoria sia stata studiata a lungo, questa ricerca ha portato alla luce un nuovo e affascinante aspetto di questo complesso processo. La scoperta del ruolo delle pupille nella regolazione del consolidamento della memoria rappresenta un passo avanti significativo nella comprensione del funzionamento del cervello e apre nuove prospettive per la ricerca futura.

Un sistema di archiviazione altamente efficiente

Unendo le loro competenze in etologia, ingegneria e analisi dati, Oliva e Fernandez-Ruiz hanno condotto uno studio innovativo. Dotando topi di elettrodi cerebrali e telecamere oculari, hanno osservato in dettaglio cosa accade nel loro cervello durante il sonno. Dopo aver addestrato i roditori a svolgere diversi compiti, i ricercatori hanno monitorato l’attività cerebrale e i movimenti oculari delle pupille durante il riposo. In particolare, hanno focalizzato l’attenzione su ciò che accadeva quando i topi acquisivano nuove informazioni.

Secondo Oliva, il consolidamento della memoria avviene durante il sonno non-REM in brevi e intensi burst di attività cerebrale, della durata di appena 100 millisecondi. Come fa il cervello a distribuire queste rapidissime proiezioni di memoria durante tutta la notte, evitando interferenze tra le nuove e le vecchie informazioni? È un enigma che gli scienziati stanno ancora cercando di risolvere.

Le osservazioni degli studiosi hanno rivelato una complessità inaspettata nel sonno dei topi, che presenta una struttura più simile a quella umana di quanto si pensasse. Interrompendo il sonno in momenti precisi e testando successivamente la memoria, abbiamo scoperto che la dimensione della pupilla è un indicatore cruciale dei processi di consolidamento della memoria. Quando le pupille si restringono, il cervello riattiva e consolida i ricordi più recenti, mentre durante la dilatazione si occupa dei ricordi più antichi.

La pupilla, finora considerata un semplice organo visivo, si rivela un indicatore fondamentale dei processi mentali che avvengono durante il sonno. Le sue variazioni ci mostrano come il cervello, durante il riposo, lavora attivamente per organizzare e consolidare le nostre esperienze. È come se le pupille fossero una finestra che ci permette di osservare i meccanismi più intimi della nostra mente.

Le implicazioni di questa scoperta vanno ben oltre la comprensione del sonno. L’efficienza del cervello nel memorizzare informazioni con un numero limitato di neuroni rappresenta una sfida per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Come ha sottolineato Fernandez-Ruiz: “Il cervello riesce a compiere imprese mnemoniche straordinarie con risorse limitate, mentre modelli come ChatGPT consumano un’energia enorme per svolgere compiti simili. Capire come funziona il nostro cervello potrebbe aiutarci a progettare sistemi artificiali più efficienti ed ecologici”.

Conclusioni

Questa capacità del cervello di separare nel tempo le funzioni di apprendimento e consolidamento della memoria spiega in gran parte perché siamo in grado di memorizzare così tanto con così poco. Questa scoperta apre nuove prospettive per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Potremmo infatti insegnare alle reti neurali a imitare questo meccanismo, rendendole più efficienti e capaci di apprendere come il cervello umano.

Lo studio è stato condotto da un team di ricercatori guidato da Azahara Oliva e Antonio Fernandez-Ruiz. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica Nature.

Breakthrough Starshot: alla velocità della luce, verso un nuovo inizio

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Breakthrough Starshot: alla velocità della luce, verso un nuovo inizio

L’idea di inviare una sonda spaziale verso un’altra stella, un tempo relegata al regno della fantascienza, sta diventando sempre più concreta grazie agli sforzi di scienziati e ingegneri di tutto il mondo. Progetti ambiziosi come Breakthrough Starshot e le ricerche della Tau Zero Foundation stanno spingendo i limiti della tecnologia attuale, cercando di sviluppare sistemi di propulsione a raggi in grado di far percorrere distanze interstellari a veicoli spaziali.

Breakthrough Starshot: alla velocità della luce, verso un nuovo inizio
Breakthrough Starshot: alla velocità della luce, verso un nuovo inizio

Breakthrough Starshot: Il fascino della propulsione a raggi

Una delle tecnologie più promettenti in questo campo è la propulsione a raggi. L’idea di Breakthrough Starshot è semplice: un potente fascio di energia, come un laser o un fascio di particelle, colpisce una vela solare attaccata alla sonda, generando una spinta che accelera il veicolo. Questa tecnica, se realizzata con successo, potrebbe consentire di raggiungere velocità prossime a quella della luce, rendendo possibili viaggi interstellari in tempi relativamente brevi (almeno su scala cosmica).

La strada verso le stelle è lastricata di ostacoli. Uno dei principali problemi è la massa della sonda. Breakthrough Starshot punta su sonde minuscole, dotate di vele solari giganti, per minimizzare la quantità di energia necessaria per accelerarle. Tuttavia, una sonda così piccola avrebbe capacità scientifiche limitate, rendendola più una dimostrazione tecnologica che una vera missione esplorativa.

Il documento di Jeffrey Greason e Gerrit Bruhaug propone un approccio diverso, considerando sonde più grandi, simili alle Voyager, ma dotate di strumentazione scientifica più avanzata. Questa scelta, però, pone nuove sfide ingegneristiche. Come accelerare una sonda così massiccia con un raggio di luce?

Breakthrough Starshot punta su un raggio laser nello spettro visibile per spingere le sue vele solari. Ma questa soluzione presenta dei limiti. La tecnologia laser attuale non permette di mantenere un fascio coerente e focalizzato su distanze interstellari. Inoltre, un’esposizione prolungata a un raggio laser così intenso potrebbe danneggiare la sonda.

Per superare questi ostacoli, gli scienziati stanno esplorando alternative, come l’utilizzo di fasci di particelle cariche (elettroni o protoni) o di radiazione a microonde. Questi tipi di raggi potrebbero essere più efficienti e meno dannosi per la sonda, ma presentano altre sfide tecniche.

La realizzazione di un viaggio interstellare è un’impresa titanica che richiede un’innovazione radicale in molti campi della scienza e dell’ingegneria. Nonostante le difficoltà, i progetti come Breakthrough Starshot e le ricerche della Tau Zero Foundation rappresentano un passo avanti fondamentale verso la realizzazione di questo sogno.

Breakthrough Starshot: mantenere la coerenza a distanze cosmiche

Questa idea solleva una questione cruciale: come mantenere un fascio di energia coerente e focalizzato su distanze enormi? A distanze superiori a 10 UA (unità astronomiche), la diffusione del fascio potrebbe compromettere significativamente la sua efficacia. Gli autori si concentrano sui fasci di elettroni relativistici, proponendo un concetto di missione noto come “Sunbeam” (raggio di sole). L’idea è quella di utilizzare un fascio di elettroni accelerati a velocità prossime a quella della luce per spingere la sonda.

È relativamente semplice accelerare gli elettroni a velocità relativistiche, grazie alla loro bassa massa. Un fascio di elettroni può trasportare una grande quantità di energia in un volume relativamente piccolo. Tuttavia, gli elettroni, essendo carichi negativamente, tendono a respingersi a vicenda. Questa repulsione elettrostatica potrebbe disperdere il fascio, riducendone l’efficacia.

Uno dei principali ostacoli nell’utilizzare fasci di elettroni relativistici per la propulsione spaziale è la repulsione elettrostatica tra le particelle. Un fenomeno noto come “pizzico relativistico” potrebbe risolvere questo problema. A velocità prossime a quella della luce, gli effetti relativistici entrano in gioco in modo significativo. Uno di questi effetti è la dilatazione del tempo: dal punto di vista degli elettroni, il tempo scorre più lentamente. Questo significa che gli elettroni hanno meno tempo per interagire tra loro e respingersi, mitigando così l’effetto della repulsione elettrostatica.

I calcoli presentati nel documento suggeriscono che un fascio di elettroni relativistici potrebbe fornire una spinta efficace su distanze molto maggiori rispetto ad altri sistemi di propulsione. Si stima che un tale fascio potrebbe operare su distanze fino a 100 o addirittura 1.000 unità astronomiche (UA), ovvero ben oltre la distanza che separa il Sole da Plutone.

Questa portata eccezionale, combinata con l’alta velocità degli elettroni, permetterebbe di accelerare sonde spaziali a una frazione significativa della velocità della luce. Ad esempio, una sonda di 1.000 kg potrebbe raggiungere il 10% della velocità della luce, riducendo notevolmente i tempi di viaggio verso sistemi stellari vicini come Alpha Centauri. Si stima che con questa velocità, la sonda potrebbe raggiungere Alpha Centauri in poco più di 40 anni.

Sono ancora numerose le sfide da superare prima di poter realizzare una missione interstellare basata su Breakthrough Starshot. Tra queste, lo sviluppo di sistemi di generazione e focalizzazione di fasci di elettroni ad alta energia, la protezione della sonda dagli effetti della radiazione e la risoluzione di problemi legati alla comunicazione a distanze interstellari. Nonostante le difficoltà, la propulsione a raggi rappresenta una delle frontiere più affascinanti della ricerca spaziale. I progressi in questo campo potrebbero rivoluzionare il nostro modo di esplorare l’universo e aprire nuove possibilità per l’umanità.

Una delle maggiori sfide da affrontare per realizzare Breakthrough Starshot a propulsione a raggi è la produzione di un fascio di particelle sufficientemente potente e coerente. Man mano che la sonda si allontana dalla sorgente del raggio, è necessaria una potenza sempre maggiore per mantenere la stessa forza propulsiva. Le stime indicano che per una sonda posizionata a 100 UA dal Sole, sarebbe richiesto un fascio con un’energia di circa 19 GeV (gigaelettronvolt).

Sebbene questa sia una quantità di energia considerevole, è comunque alla portata delle tecnologie attuali: il Large Hadron Collider, ad esempio, è in grado di accelerare particelle a energie molto più elevate.

Per generare e focalizzare un fascio di queste dimensioni, gli autori propongono una soluzione innovativa: uno statite solare. Uno statite è un oggetto che si mantiene in posizione nello spazio grazie all’equilibrio tra la forza di radiazione solare e un campo magnetico. In questo caso, lo statite solare sarebbe posizionato molto vicino al Sole, sfruttando la sua intensa radiazione per generare l’energia necessaria a creare il fascio di particelle.

La posizione dello statite solare sarebbe simile a quella della sonda solare Parker, la sonda che si è avvicinata più di ogni altra al Sole. Ciò significa che i materiali utilizzati per costruire lo statite dovrebbero essere in grado di resistere a temperature estremamente elevate. Sebbene questa sia una sfida ingegneristica non indifferente, i progressi recenti nella scienza dei materiali suggeriscono che potrebbe essere possibile sviluppare materiali sufficientemente resistenti.

Per proteggere lo statite solare dalle intense radiazioni e temperature del Sole, gli autori propongono l’utilizzo di un enorme scudo solare. Questo scudo creerebbe un ambiente relativamente fresco e stabile, consentendo allo statite di operare in modo efficiente per periodi prolungati. Al momento, il concetto di statite solare e di propulsione a raggi rimane ancora nel regno della fantascienza. Tuttavia, gli autori del documento, riunitisi sulla piattaforma Discord di ToughSF, dimostrano come anche le idee più audaci possano trovare un terreno fertile per essere discusse e sviluppate.

Breakthrough Starshot:  un passo verso Alpha Centauri

L’idea di inviare una sonda scientificamente utile su Alpha Centauri, il sistema stellare più vicino al nostro, sembrava fino a poco tempo fa relegata al regno della fantascienza. Tuttavia, gli studi condotti da un gruppo di appassionati di fantascienza e scienziati hanno dimostrato che, almeno in teoria, Breakthrough Starshot potrebbe essere alla portata dell’umanità nel prossimo futuro.

Il cuore del progetto di Breakthrough Starshot è un sistema di propulsione a raggi, basato sull’utilizzo di un fascio di particelle ad alta energia per accelerare una sonda spaziale. Per generare e focalizzare questo potente fascio, gli scienziati propongono di utilizzare uno statite solare, una piattaforma posizionata in orbita attorno al Sole, protetta da un enorme scudo termico. Lo statite sarebbe in grado di generare e mantenere il fascio di particelle puntato sulla sonda per tutto il viaggio, garantendo un’accelerazione costante.

Conclusioni

Uno degli aspetti più affascinanti di Breakthrough Starshot è la possibilità di raggiungere Alpha Centauri in un lasso di tempo relativamente breve, forse anche nell’arco di una vita umana. Questo potrebbe aprire la strada a nuove scoperte scientifiche e a una migliore comprensione del nostro Universo. I progressi tecnologici degli ultimi anni e l’entusiasmo della comunità scientifica lasciano ben sperare. La propulsione a raggi rappresenta una sfida ambiziosa, ma anche un’opportunità unica per l’umanità di espandere i propri orizzonti e di rispondere a domande fondamentali sulla nostra esistenza.

L’idea di inviare una sonda su Alpha Centauri nel giro di una vita umana, pur presentando numerose complessità di Breakthrough Starshot, è un obiettivo ambizioso ma realizzabile. Questo progetto rappresenta un esempio di come la collaborazione tra scienziati e appassionati possa portare a risultati straordinari e aprire nuove frontiere per l’esplorazione spaziale.

Meccanica quantistica: un ponte tra Einstein e Schrödinger

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Meccanica quantistica: un ponte tra Einstein e Schrödinger

La meccanica quantistica, con le sue insolite leggi e i suoi paradossi, ha rivoluzionato la nostra comprensione dell’Universo a livello microscopico. La sua convivenza con la fisica classica, che descrive il mondo macroscopico con leggi precise e deterministiche, rappresenta tuttavia uno dei più grandi enigmi della scienza moderna.

Meccanica quantistica: un ponte tra Einstein e Schrödinger

 

La meccanica quantistica e il paradosso della sovrapposizione

Uno dei concetti più controintuitivi della meccanica quantistica è la sovrapposizione: una particella può esistere in più stati contemporaneamente fino a quando non viene misurata. Un elettrone, ad esempio, può essere in due punti nello spazio allo stesso tempo. Ma se questo è vero a livello fondamentale, perché non osserviamo oggetti macroscopici che presentano simili comportamenti? Un gatto, secondo l’esperimento mentale di Schrödinger, potrebbe essere sia vivo che morto finché non apriamo la scatola. Eppure, nella nostra esperienza quotidiana, gli oggetti sono sempre in uno stato ben definito.

La misurazione è al centro di questo mistero. Come passa un sistema quantistico, che obbedisce alle leggi della probabilità, a uno stato definito quando viene misurato? Questo passaggio dal quantistico al classico è noto come “problema della misurazione” ed è oggetto di intense ricerche da decenni. Una delle teorie più promettenti per spiegare questa transizione è la decoerenza quantistica. Secondo questa teoria, un sistema quantisico interagisce costantemente con l’ambiente circostante. Queste interazioni causano una perdita di coerenza, ovvero la capacità di un sistema di esistere in più stati sovrapposti. In pratica, il sistema “dimentica” i suoi stati quantistici e collassa in uno stato classico ben definito.

Un altro aspetto cruciale è la relazione tra la meccanica quantistica e la relatività generale, la teoria della gravità di Einstein. Entrambe sono teorie estremamente ben verificate sperimentalmente, ma sono profondamente incompatibili. La relatività generale descrive la gravità come una curvatura dello spaziotempo, mentre la meccanica quantistica descrive il mondo a livello microscopico in termini di probabilità e quanti. Una delle sfide più grandi della fisica teorica è quella di trovare una teoria unificata che possa descrivere sia la gravità che la meccanica quantistica.

Lo studio

Il recente studio di Matteo Carlesso e del suo team rappresenta un passo avanti significativo in questa direzione. Modificando l’equazione di Schrödinger, i ricercatori hanno proposto un nuovo modello che potrebbe spiegare come la meccanica quantistica emerga dalla gravità quantistica. Questo lavoro apre nuove prospettive per comprendere la natura profonda dell’universo e il passaggio dal regno quantistico a quello classico.

La meccanica quantistica descrive un mondo dove le particelle possono esistere in stati sovrapposti, sfidando la nostra intuizione classica. Tuttavia, L’Universo che osserviamo, con le sue leggi deterministiche e la sua scala macroscopica, sembra seguire regole ben precise. Il problema della misurazione, ossia l’atto di far collassare una sovrapposizione in uno stato definito, è al centro di questo enigma.

Il Fondo Cosmico a Microonde, un’eco del Big Bang, ci offre un’istantanea di un universo primordiale che potrebbe essere stato governato dalle leggi quantistiche. Ma come è avvenuta la transizione da questo stato iniziale a un universo classico? La domanda di John Bell su cosa costituisca un ‘misuratore’ rimane aperta e al centro di intense ricerche.

Carlesso e il suo team propongono un approccio innovativo per affrontare la transizione dal quantistico al classico, basato sui modelli di collasso spontaneo della funzione d’onda. Modificando l’equazione di Schrödinger, questi modelli introducono un meccanismo intrinseco che fa collassare le sovrapposizioni quantistiche, senza la necessità di un osservatore esterno.

Questo meccanismo diventa tanto più efficace quanto più grande è il sistema, spiegando così perché il mondo macroscopico ci appare classico. La domanda cruciale, secondo Carlesso, è se anche l’Universo nel suo insieme, privo di un ‘esterno’, possa essere soggetto a questo meccanismo di collasso. I dati osservativi suggeriscono di sì, indicando che l’Universo evolve secondo leggi classiche. I ricercatori ipotizzano che i sistemi possano collassare spontaneamente a causa di interazioni interne, senza bisogno di influenze esterne. Questo approccio offre una descrizione unificata di tutti i sistemi fisici, eliminando la distinzione tra osservatore e osservato.

Applicando il meccanismo di collasso spontaneo al contesto cosmologico, Carlesso e i suoi collaboratori offrono una possibile soluzione al problema della transizione dal quantistico al classico. In questo scenario, L’Universo primordiale, inizialmente in una sovrapposizione di diverse geometrie, avrebbe subito un processo di selezione che ha portato all’emergere di una geometria classica, descritta dalla metrica di Friedmann-Lemaître-Robertson-Walker. Questo modello fornisce una spiegazione naturale per l’apparente classicità dell’universo osservabile.

Conclusioni

Testare sperimentalmente i modelli di collasso spontaneo, come quello proposto da Carlesso, rappresenta una sfida notevole. Le deviazioni previste da questi modelli rispetto alla meccanica quantistica standard sono estremamente piccole e richiedono esperimenti estremamente precisi.

Nonostante queste difficoltà, Carlesso e il suo team sono attivamente coinvolti nella progettazione di esperimenti innovativi per mettere alla prova le loro teorie. Se avranno successo, questi esperimenti potrebbero rivoluzionare la nostra comprensione della meccanica quantistica e della cosmologia, offrendo nuove intuizioni sulla transizione dal mondo quantistico a quello classico.

Lo studio è stato pubblicato sul The Brighter Side of News.

Come rendere sicura la casa di una persona disabile

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Come rendere sicura la casa di una persona disabile

Garantire la sicurezza della casa di una persona disabile richiede un’attenzione particolare sia agli aspetti legati alla protezione fisica, come la prevenzione degli incidenti domestici, sia alla sicurezza contro possibili intrusioni da parte di malintenzionati.

Uno dei primi passi per migliorare la protezione è intervenire su porte, serrature, finestre e inferriate, scegliendo materiali robusti e sistemi di sicurezza moderni: in caso di necessità, affidarsi a un professionista della propria zona, come un fabbro a Monza e Brianza, permette di installare o riparare questi dispositivi in modo efficace e sicuro, garantendo un ambiente più protetto e adatto alle esigenze della persona disabile.

Protezione contro i malintenzionati

Per garantire la sicurezza di una persona disabile contro intrusioni indesiderate, è fondamentale dotare la casa di porte blindate e serrature avanzate, preferibilmente con cilindri anti-bumping e chiavi a duplicazione protetta: questi dispositivi offrono una protezione superiore rispetto alle serrature tradizionali e sono più difficili da forzare.

Le finestre e i balconi devono essere protetti con inferriate di sicurezza, specialmente se l’abitazione si trova ai piani bassi: le inferriate moderne sono progettate per resistere ai tentativi di scasso, ma possono essere realizzate con design discreti che si integrano bene con l’estetica della casa.

Anche in caso di problemi o danni a questi sistemi, un esperto può intervenire rapidamente con un pronto intervento per effettuare riparazioni o sostituzioni.

Sicurezza domestica: prevenzione degli incidenti

Oltre alla protezione contro i malintenzionati, è essenziale ridurre al minimo i rischi di incidenti domestici: le case delle persone disabili devono essere prive di barriere architettoniche, con corridoi ampi, rampe antiscivolo e pavimenti omogenei per evitare cadute.

L’illuminazione deve essere uniforme e ben distribuita con interruttori facilmente raggiungibili e con luci di emergenza posizionate nei punti strategici.

Le scale, se presenti, devono essere dotate di corrimano su entrambi i lati, mentre gli spazi come il bagno devono includere maniglioni di supporto e superfici antiscivolo; la cucina, infine, dovrebbe essere attrezzata con piani di lavoro accessibili e sicuri, riducendo il rischio di contatti con superfici calde o taglienti.

Tecnologie per la sicurezza

Le tecnologie moderne offrono strumenti avanzati per migliorare la sicurezza domestica: sistemi di allarme collegati a sensori di movimento e telecamere di sorveglianza consentono di monitorare l’abitazione in tempo reale e di ricevere notifiche in caso di attività sospette.

Per una persona disabile, questi dispositivi possono essere gestiti tramite app o comandi vocali, semplificando il controllo della sicurezza.

Anche i sistemi di domotica, come le serrature smart, offrono un valore aggiunto: queste serrature possono essere aperte e chiuse tramite smartphone, evitando la necessità di utilizzare chiavi fisiche, che potrebbero risultare difficili da maneggiare.

Inoltre, permettono di monitorare chi entra e chi esce dalla casa, aumentando ulteriormente la sicurezza.

Prevenzione di emergenze

La casa di una persona disabile dovrebbe essere equipaggiata con dispositivi per la prevenzione di emergenze come incendi o fughe di gas.: i rilevatori di fumo e monossido di carbonio sono indispensabili per avvisare tempestivamente in caso di pericolo.

Inoltre, gli estintori devono essere facilmente accessibili e posizionati in punti strategici, come la cucina o il corridoio.

Un altro elemento fondamentale è la presenza di uscite di emergenza ben segnalate e facilmente accessibili, così come la possibilità di richiedere aiuto rapidamente tramite sistemi di chiamata d’emergenza collegati a familiari o servizi di assistenza.

Supporto professionale

Per garantire che tutti gli interventi di sicurezza siano eseguiti a regola d’arte, è essenziale rivolgersi a professionisti qualificati che possono offrire soluzioni personalizzate per installare porte, serrature e inferriate, assicurandosi che ogni elemento risponda alle esigenze specifiche della persona disabile.

Inoltre, un supporto professionale permette di effettuare una manutenzione regolare, indispensabile per mantenere i sistemi di sicurezza in perfette condizioni nel tempo.

Rendere sicura la casa di una persona disabile richiede un approccio completo che combini protezione contro i malintenzionati, prevenzione degli incidenti domestici e tecnologie avanzate.

Interventi mirati su porte, finestre e inferriate, insieme all’adozione di sistemi tecnologici e dispositivi di sicurezza, possono garantire un ambiente protetto e confortevole, contribuendo a migliorare la qualità della vita e la tranquillità della persona disabile e dei suoi familiari.

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Realtà o immaginazione? Come il cervello capisce la differenza

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Realtà o immaginazione? Come il cervello capisce la differenza

Questa è la vita reale? È solo fantasia?

Queste parole non sono solo parte del testo della canzone dei Queen “Bohemian Rhapsody“, sono anche le domande a cui il cervello deve costantemente rispondere mentre elabora flussi di segnali visivi dagli occhi e immagini puramente mentali che sgorgano dall’immaginazione. Gli studi sul cervello hanno ripetutamente confermato che vedere qualcosa e immaginarlo evoca schemi di attività neurale molto simili. Tuttavia, per la maggior parte di noi, le esperienze soggettive prodotte sono molto diverse.

Posso guardare fuori dalla mia finestra in questo momento e, se voglio, posso immaginare un unicorno che cammina per strada“, dice Thomas Naselaris, professore associato all’Università del Minnesota. La strada sembrerebbe reale e l’unicorno no. “Mi è molto chiaro“, spiega. La consapevolezza che gli unicorni sono animali mitici gioca a malapena un ruolo in questo: un semplice cavallo bianco immaginario sembrerebbe altrettanto irreale.

Quindi “perché non abbiamo costantemente allucinazioni?” si è chiesta Nadine Dijkstra, borsista post-dottorato presso l’University College di Londra. Uno studio da lei condotto, recentemente pubblicato su Nature Communications, fornisce una risposta intrigante: il cervello valuta le immagini che sta elaborando rispetto a una “soglia di realtà“. Se il segnale supera la soglia, il cervello pensa che sia reale; in caso contrario, il cervello pensa che sia immaginato.

Sebbene il cervello sia molto competente nel valutare le immagini nella nostra mente, sembra che “questo tipo di controllo della realtà sia una lotta seria“, afferma Lars Muckli, professore di neuroscienze visive e cognitive all’Università di Glasgow. “Le nuove scoperte sollevano interrogativi sul fatto che variazioni o alterazioni in questo sistema possano portare ad allucinazioni, pensieri invasivi o persino sogni“.

Hanno fatto un ottimo lavoro, secondo me, prendendo una questione su cui i filosofi hanno discusso per secoli e definendo modelli con risultati prevedibili e testandoli“, dice Naselaris.

Quando le percezioni e l’immaginazione si mescolano

Lo studio di Dijkstra sulle immagini immaginarie è nato nei primi giorni della pandemia di Covid-19, quando quarantene e blocchi hanno interrotto il suo lavoro programmato. Annoiata, ha iniziato a esaminare la letteratura scientifica sull’immaginazione e poi ha passato ore a setacciare documenti per resoconti storici di come gli scienziati hanno testato un concetto così astratto. È così che si è imbattuta in uno studio del 1910 condotto dalla psicologa Mary Cheves West Perky.

Perky ha chiesto ai partecipanti di immaginare dei frutti mentre fissavano un muro bianco. Mentre lo facevano, proiettava segretamente immagini estremamente deboli di quei frutti – così deboli da essere appena visibili – sul muro e chiedeva ai partecipanti se vedevano qualcosa. Nessuno di loro pensava di aver visto qualcosa di reale, anche se hanno commentato quanto fosse vivida l’immagine che immaginavano. “Se non avessi saputo che stavo immaginando, avrei pensato che fosse reale“, ha detto un partecipante.

La conclusione di Perky è stata che quando la nostra percezione di qualcosa corrisponde a ciò che sappiamo di immaginare, assumeremo che sia immaginario. Si tratta di un fenomeno divenuto noto in psicologia come effetto Perky. “È un grande classico“, commenta Bence Nanay , professore di psicologia filosofica all’Università di Anversa. È diventata una specie di “cosa obbligatoria quando scrivi di immagini per dire i tuoi due centesimi sull’esperimento Perky“.

Negli anni ’70, il ricercatore di psicologia Sydney Joelson Segal ravvivò l’interesse per il lavoro di Perky aggiornando e modificando l’esperimento. In uno studio di follow-up, Segal ha chiesto ai partecipanti di immaginare qualcosa, come lo skyline di New York City, mentre proiettava debolmente qualcos’altro sul muro, come un pomodoro. Ciò che i partecipanti hanno visto è stato un mix tra l’immagine immaginata e quella reale, come lo skyline di New York City al tramonto. Le scoperte di Segal hanno suggerito che la percezione e l’immaginazione a volte possono “mescolarsi letteralmente“, ha detto Nanay.

Non tutti gli studi che miravano a replicare le scoperte di Perky hanno avuto successo. Alcuni di loro hanno comportato prove ripetute per i partecipanti, il che ha confuso i risultati: una volta che le persone sanno cosa stai cercando di testare, tendono a cambiare le loro risposte in ciò che pensano sia corretto, spiega Naselaris.

Così Dijkstra, sotto la direzione di Steve Fleming, un esperto di metacognizione presso l’University College di Londra, ha messo a punto una versione moderna dell’esperimento che ha evitato il problema. Nel loro studio, i partecipanti non hanno mai avuto la possibilità di modificare le loro risposte perché sono state testate solo una volta. Il lavoro ha modellato ed esaminato l’effetto Perky e altre due ipotesi concorrenti su come il cervello distingue realtà e immaginazione.

Reti di valutazione

Una di queste ipotesi alternative afferma che il cervello utilizza le stesse reti per la realtà e l’immaginazione, ma che le scansioni cerebrali con risonanza magnetica funzionale (fMRI) non hanno una risoluzione sufficientemente elevata da consentire ai neuroscienziati di discernere le differenze nel modo in cui le reti vengono utilizzate. Uno degli studi di Muckli, ad esempio, suggerisce che nella corteccia visiva del cervello, che elabora le immagini, le esperienze immaginarie sono codificate in uno strato più superficiale rispetto alle esperienze reali.

Con l’imaging cerebrale funzionale, “stiamo socchiudendo gli occhi“, chiarisce Muckli. All’interno di ogni equivalente di un pixel in una scansione cerebrale, ci sono circa 1.000 neuroni e non possiamo vedere cosa sta facendo ciascuno di essi.

L’altra ipotesi, suggerita dagli studi condotti da Joel Pearson presso l’Università del New South Wales, è che gli stessi percorsi nel cervello codificano sia per l’immaginazione che per la percezione, ma l’immaginazione è solo una forma più debole di percezione.

Durante la pandemia, Dijkstra e Fleming hanno reclutato volontari per uno studio online. A quattrocento partecipanti è stato detto di guardare una serie di immagini piene di elettricità statica e di immaginare delle linee diagonali che si inclinano attraverso di esse a destra o a sinistra. Tra una prova e l’altra, è stato chiesto loro di valutare quanto fossero vivide le immagini su una scala da 1 a 5.

Ciò che i partecipanti non sapevano era che nell’ultima prova, i ricercatori hanno lentamente aumentato l’intensità di una debole immagine proiettata di linee diagonali: inclinata nella direzione in cui era stato detto ai partecipanti di immaginare o nella direzione opposta. I ricercatori hanno quindi chiesto ai partecipanti se ciò che hanno visto fosse reale o immaginario.

Eppure c’era almeno un’eco dell’effetto Perky in quei risultati: i partecipanti che pensavano che l’immagine fosse lì l’hanno vista in modo più vivido rispetto ai partecipanti che pensavano che fosse immaginazione.

In un secondo esperimento, Dijkstra e il suo team non hanno presentato un’immagine durante l’ultima prova. Ma il risultato è stato lo stesso: le persone che hanno valutato ciò che stavano vedendo come più vivido erano anche più propense a valutarlo come reale.

Le osservazioni suggeriscono che le immagini nella nostra mente e le immagini reali percepite nel mondo si mescolano insieme, ha detto Dijkstra. “Quando questo segnale misto è abbastanza forte o vivido, pensiamo che rifletta la realtà“. È probabile che ci sia una soglia al di sopra della quale i segnali visivi sembrano reali per il cervello e al di sotto della quale si sentono come immaginari, pensa. Ma potrebbe esserci anche un continuum più graduale.

Per sapere cosa sta succedendo all’interno di un cervello che cerca di distinguere la realtà dall’immaginazione, i ricercatori hanno rianalizzato le scansioni cerebrali di uno studio precedente in cui 35 partecipanti hanno immaginato vividamente e percepito varie immagini, dagli annaffiatoi ai galli.

In linea con altri studi, hanno scoperto che i modelli di attività nella corteccia visiva nei due scenari erano molto simili. “Le immagini vivide sono più simili alla percezione, ma se la percezione debole sia più simile alle immagini è meno chiaro“, ha detto Dijkstra. C’erano indizi che guardare un’immagine debole potesse produrre uno schema simile a quello dell’immaginazione, ma le differenze non erano significative e dovranno essere esaminate ulteriormente.

introduzione

Ciò che è chiaro è che il cervello deve essere in grado di regolare accuratamente quanto sia forte un’immagine mentale per evitare confusione tra fantasia e realtà. “Il cervello ha questo atto di bilanciamento molto attento che deve eseguire“, afferma Naselaris. “In un certo senso interpreterà le immagini mentali tanto letteralmente quanto le immagini visive“.

Hanno scoperto che la forza del segnale potrebbe essere letta o regolata nella corteccia frontale, che analizza emozioni e ricordi (tra le sue altre funzioni). Ma non è ancora chiaro cosa determini la vividezza di un’immagine mentale o la differenza tra la forza del segnale immaginativo e la soglia della realtà. Potrebbe essere un neurotrasmettitore, modifiche alle connessioni neuronali o qualcosa di completamente diverso, dice Naselaris.

Potrebbe anche essere un sottoinsieme diverso e non identificato di neuroni che stabilisce la soglia della realtà e determina se un segnale deve essere deviato in un percorso per immagini immaginate o in un percorso per quelle realmente percepite – una scoperta che collegherebbe ordinatamente la prima e la terza ipotesi, secondo Muckli.

Ma l’immaginazione è un processo che coinvolge molto di più che guardare poche righe su uno sfondo rumoroso, dice Peter Tse, professore di neuroscienze cognitive al Dartmouth College. L’immaginazione, ha detto, è la capacità di guardare cosa c’è nella tua credenza e decidere cosa preparare per cena, o (se sei i fratelli Wright) di prendere un’elica, attaccarla a un’ala e immaginarla volare.

Le differenze tra le scoperte di Perky e quelle di Dijkstra potrebbero essere interamente dovute a differenze nelle loro procedure. Ma suggeriscono anche un’altra possibilità: che potremmo percepire il mondo in modo diverso rispetto ai nostri antenati.

Il suo studio non si concentrava sulla credenza nella realtà di un’immagine, ma riguardava più il “sentimento” della realtà, dice Dijkstra. Gli autori ipotizzano che, poiché le immagini proiettate, i video e altre rappresentazioni della realtà sono all’ordine del giorno nel 21° secolo, i nostri cervelli potrebbero aver imparato a valutare la realtà in modo leggermente diverso rispetto a quanto facevano le persone solo un secolo fa.

Anche se i partecipanti a questo esperimento “non si aspettavano di vedere qualcosa, è comunque più atteso che se fossi nel 1910 e non avessi mai visto un proiettore in vita tua“, ha detto Dijkstra. La soglia della realtà oggi è quindi probabilmente molto più bassa rispetto al passato, quindi potrebbe essere necessaria un’immagine immaginaria molto più vivida per oltrepassare la soglia e confondere il cervello.

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Realtà o immaginazione? Come il cervello capisce la differenza

Una base per allucinazioni

I risultati aprono interrogativi sul fatto che il meccanismo possa essere rilevante per un’ampia gamma di condizioni in cui la distinzione tra immaginazione e percezione si dissolve. Dijkstra ipotizza, ad esempio, che quando le persone iniziano ad addormentarsi e la realtà inizia a fondersi con il mondo dei sogni, la loro soglia di realtà potrebbe abbassarsi. In condizioni come la schizofrenia, dove c’è una “rottura generale della realtà“, potrebbe esserci un problema di calibrazione, ha detto Dijkstra.

Nella psicosi, potrebbe essere che le loro immagini siano così buone da raggiungere quella soglia, o potrebbe essere che la loro soglia sia disattivata“, ha commentato Karolina Lempert, assistente professore di psicologia all’Università Adelphi che non è stata coinvolta nel studio. Alcuni studi hanno scoperto che nelle persone che hanno allucinazioni c’è una sorta di iperattività sensoriale, cosa che suggerisce che il segnale dell’immagine è aumentato. Ma sono necessarie ulteriori ricerche per stabilire il meccanismo attraverso il quale emergono le allucinazioni, ha aggiunto. “Dopotutto, la maggior parte delle persone che sperimentano immagini vivide non hanno allucinazioni“.

Nanay pensa che sarebbe interessante studiare le soglie di realtà delle persone che hanno l’iperfantasia, un’immaginazione estremamente vivida che spesso confondono con la realtà. Allo stesso modo, ci sono situazioni in cui le persone soffrono di esperienze immaginarie molto forti che sanno non essere reali, come quando si hanno allucinazioni con droghe o sogni lucidi. In condizioni come il disturbo da stress post-traumatico, le persone spesso “iniziano a vedere cose che non volevano” che sembrano più reali di quanto dovrebbero, ha spiegato Dijkstra.

Alcuni di questi problemi possono comportare guasti nei meccanismi cerebrali che normalmente aiutano a fare queste distinzioni. Dijkstra pensa che potrebbe essere fruttuoso osservare le soglie della realtà delle persone che soffrono di aphantasia, l’incapacità di immaginare consapevolmente immagini mentali.

I meccanismi con cui il cervello distingue ciò che è reale da ciò che è immaginario potrebbero anche essere correlati al modo in cui distingue tra immagini reali e false (non autentiche). In un mondo in cui le simulazioni si stanno avvicinando alla realtà, distinguere tra immagini reali e false diventerà sempre più difficile.

Dijkstra e il suo team stanno ora lavorando per adattare il loro esperimento in modo che funzioni in uno scanner cerebrale.

Alla fine spera di capire se possono manipolare questo sistema per rendere l’immaginazione più reale. Ad esempio, la realtà virtuale e gli impianti neurali vengono ora studiati per trattamenti medici, ad esempio per aiutare i non vedenti a vedere di nuovo. La capacità di far sembrare le esperienze più o meno reali, ha affermato, potrebbe essere davvero importante per tali applicazioni.

Non è stravagante, dato che la realtà è un costrutto del cervello.

Sotto il nostro cranio, tutto è inventato“, ha detto Muckli. “Costruiamo interamente il mondo, nella sua ricchezza, dettaglio, colore, suono, contenuto ed eccitazione. … Tutto è creato dai nostri neuroni”.

Ciò significa che la realtà di una persona sarà diversa da quella di un’altra persona, Dijkstra ha detto: “Il confine tra immaginazione e realtà non è così solido“.

Marte sotto assedio: le tempeste di polvere minacciano il Pianeta Rosso

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Marte sotto assedio: le tempeste di polvere minacciano il Pianeta Rosso

Marte, il Pianeta Rosso, è noto per le sue spettacolari tempeste di polvere, eventi atmosferici che possono avvolgere l’intero pianeta e rappresentare una seria minaccia per le missioni spaziali. Ogni tre anni terrestri, circa, si verificano tempeste di polvere globali, così intense da essere visibili dalla Terra.

Marte sotto assedio: le tempeste di polvere minacciano il Pianeta Rosso

Un fenomeno complesso e pericoloso

Queste tempeste non sono semplici raffiche di vento. La sottile atmosfera marziana, carica di minuscole particelle di polvere, crea un ambiente ostile per qualsiasi tipo di veicolo spaziale. La polvere può accumularsi sui pannelli solari, riducendo drasticamente la produzione di energia, e generare cariche elettrostatiche che possono danneggiare i delicati strumenti a bordo.

Inoltre, le tempeste di polvere possono ridurre la visibilità, rendendo difficile la navigazione per i rover e i lander. Basti pensare che il rover Opportunity e il lander InSight sono stati entrambi messi fuori uso da queste tempeste, sottolineando la necessità di comprendere a fondo questi fenomeni naturali.

Un team di scienziati dell’Università del Colorado Boulder ha compiuto un passo avanti significativo nella comprensione delle tempeste di polvere marziane. Secondo i loro studi, le giornate particolarmente calde e soleggiate potrebbero essere il fattore scatenante per lo sviluppo di tempeste globali. Il calore del Sole riscalda il suolo marziano, creando correnti d’aria che sollevano la polvere e innescano tempeste più piccole. Alcune di queste tempeste possono poi evolversi in eventi di dimensioni planetarie.

Comprendere i meccanismi che governano le tempeste di polvere è fondamentale per garantire il successo delle future missioni su Marte, sia quelle robotiche che quelle con equipaggio umano. Grazie a questa nuova ricerca, gli scienziati potranno sviluppare modelli più accurati per prevedere le tempeste e mettere in atto misure preventive per proteggere i veicoli spaziali.

Le sfide delle missioni su Marte

Le tempeste di polvere sono solo una delle molte sfide che gli esploratori spaziali dovranno affrontare su Marte. L’ambiente marziano è estremamente ostile, con temperature estreme, radiazioni cosmiche e una gravità molto bassa. Nonostante queste difficoltà, l’esplorazione di Marte rappresenta una delle più grandi avventure scientifiche del nostro tempo.

Sebbene il vento marziano non sia forte come sulla Terra, la polvere sollevata dalle tempeste può raggiungere velocità considerevoli, rappresentando una minaccia concreta per gli astronauti e le loro attrezzature. Come ha sottolineato Hayne, questi minuscoli granelli possono agire come proiettili, erodendo superfici e causando danni significativi.

Al fine di comprendere meglio le dinamiche delle tempeste globali su Marte, Pieris e Hayne hanno focalizzato la loro ricerca sui modelli meteorologici ricorrenti “A” e “C”. Analizzando attentamente 15 anni di dati raccolti dallo strumento Mars Climate Sounder a bordo del MRO, i ricercatori hanno potuto tracciare l’evoluzione di queste tempeste e identificarne le caratteristiche distintive.

Concentrandosi sulle tempeste di maggiore intensità, i ricercatori hanno identificato un legame significativo tra l’insorgenza di queste perturbazioni atmosferiche e periodi di riscaldamento anomalo della superficie marziana. In particolare, hanno osservato che circa il 68% delle grandi tempeste di polvere erano precedute da un aumento repentino delle temperature superficiali, causato da un’intensa insolazione.

Questa ricerca apre nuove prospettive per la comprensione dei meccanismi che governano le tempeste di polvere su Marte. Sebbene non siano state fornite prove definitive, i risultati ottenuti indicano che il riscaldamento della superficie potrebbe svolgere un ruolo chiave nell’innesco di questi eventi. Ulteriori studi, incentrati sull’analisi di parametri atmosferici aggiuntivi, potranno confermare o smentire questa ipotesi e fornire una base più solida per la previsione delle tempeste marziane.

Fortemente incoraggiati dai risultati preliminari, Pieris e Hayne stanno attualmente ampliando il loro studio, analizzando dati più recenti per consolidare la correlazione tra riscaldamento superficiale e tempeste di polvere. L’obiettivo a lungo termine è sviluppare un sistema di previsione meteorologica marziana in tempo reale, basato su osservazioni satellitari.

Conclusioni

La ricerca sulle tempeste di polvere marziane continua a progredire, ma ancora molto resta da scoprire. Tuttavia, i progressi fatti finora ci avvicinano sempre di più alla comprensione completa di questo affascinante fenomeno naturale. Le conoscenze acquisite saranno fondamentali per progettare missioni spaziali sempre più sicure ed efficienti, e per aprire la strada alla colonizzazione umana di Marte.

I risultati sono stati presentati alla riunione del 2024 dell’American Geophysical Union, che si è tenuta dal 9 al 13 dicembre a Washington, DC.