venerdì, Marzo 7, 2025
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Creato un nuovo tipo di memoria informatica “universale” che rivoluzionerà il modo di memorizzare i dati

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I dati di tutte le immagini che postiamo quotidianamente su Instagram, facebook, Flickr, Pinterest e tutti i vari social devono essere archiviati da qualche parte, e la quantità crescente di informazioni digitali che stiamo producendo implica la necessità di disporre di una crescente quantità di energia solo per archiviarle tutte.

Abbiamo bisogno di sistemi di archiviazione più efficienti.

A quanto pare, però, un team di ricercatori ha escogitato un esempio funzionante di una cosa chiamata memoria universale, un nuovo tipo di cella di memoria elettronica che combina i migliori elementi delle attuali tecnologie di memorizzazione dei dati riducendo al minimo molti degli inconvenienti.

il prototipo di cella di memoria realizzato per questo studio è stata sviluppata utilizzando un approccio legato alla meccanica quantistica, che ha permesso di migliorare l’efficienza energetica del sistema.

La memoria universale, memorizza i dati in modo affidabile permettendo comunque di modificarli quando è necessario. Fino ad ora era ritenuta irrealizzabile o addirittura impossibile, ma questo dispositivo dimostra che è possibile“, afferma il fisico Manus Hayne, della Lancaster University nel Regno Unito.

I computer, i telefoni e i data center di oggi usano due tipi di memoria, in senso lato. C’è la RAM (Random Access Memory) che tiene in memoria tutte le tue app e i tuoi file aperti – è super veloce e ha un basso consumo di energia, ma tutto ciò che immagazzina si perde quando viene interrotta l’alimentazione.

Se vi è mai capitato di perdere un lavoro non salvato a causa di un crash del computer, conoscete i limiti della RAM. La RAM dinamica o DRAM è il tipo di memoria più comunemente usato nei computer, anche se una piccola quantità di Static RAM (SRAM) viene solitamente distribuita sul processore principale del computer.

Esiste anche la memoria flash: questa può conservare i file per lungo tempo, si usa, ad esempio,  quando si salva un documento o una foto sul laptop, ma è più lenta della RAM e richiede più energia. inoltre, con il passare del tempo si degrada, anche se a un ritmo così lento che non dovremmo accorgercene prima di adottare un nuovo computer più aggiornato.

Quello che i ricercatori dell’università di Lancaster sono riusciti a fare è fondere i due tipi di memoria, anche se per ora si tratta solo di un prototipo di laboratorio e ci vorrà diverso tempo prima che entri nell’uso comune. il vero vantaggio, quando questo nuovo tipo di memoria entrerà in commercio, starà nel fatto che non sarà necessario cambiare periodicamente il nostro disco rigido ma sarà possibile trasferirlo di volta in volta nei nuovi dispositivi che acquisiremo.

Secondo noi, la memoria ideale è quella che combina i vantaggi di entrambi i tipi attualmente in uso, evitando i loro inconvenienti, e questo è ciò che abbiamo dimostrato che è possibile fare“, afferma Hayne. “Il nostro dispositivo ha un tempo di vita per l’archiviazione dei dati intrinseco che si prevede superi l’età dell’Universo, ma può registrare, modificare o eliminare dati utilizzando 100 volte meno energia rispetto alla DRAM.”

Secondo i ricercatori, la loro memoria universale potrebbe ridurre l’utilizzo di energia dei data center nelle ore di punta fino a un quinto. Permetterebbe anche l’utilizzo di un un nuovo tipo di computer che non avrebbe mai bisogno di essere avviato, ma che resterebbe costantemente in stans by quando non in uso.

Con un brevetto registrato e un altro in arrivo, c’è ovviamente un interesse commerciale a far decollare questa nuova tecnologia, ed i primi clienti potrebbero essere i giganti della tecnologia, ovvero le aziende che hanno bisogno di immagazzinare grandi quantità di dati.

Potenzialmente, tuttavia, questa nuova tecnologia sarà utile per chiunque utilizzi un dispositivo elettronico di nuova generazione, Permettendo di svolgere qualsiasi attività di archiviazione dati, dalla memorizzazione di immagini fino al mettere in cache uno streamig, risparmiando significativamente sul consumo energetico ed evitando il rischio di perdere i dati mentre si lavora.

La ricerca è stata pubblicata su Scientific Reports.

L’esperimento di Milgram – L’obbedienza all’autorità

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Adolf Eichmann fu uno degli esecutori della deportazione e dello sterminio del popolo ebraico e nel 1961 venne processato come criminale di guerra.

Durante il processo, Eichmann tentò una vana difesa affermando di essere solo un mero esecutore degli ordini ricevuti e di non avere responsabilità. Il processo, tenutosi in Israele però andò male per lui, Eichmann infatti venne ritenuto colpevole e condannato a morte.

La difesa tentata da Eichmann segnò l’opinione pubblica, ma soprattutto colpì Stanley Milgram, psicologo e assistente universitario 26enne dell’Università di Yale, che per indagare le dinamiche di obbedienza all’autorità concepì uno dei più celebri e discussi esperimenti sociali mai eseguiti.

Per arrivare al suo scopo, Milgram pubblicò su un giornale locale un annuncio in cui cercava dei volontari a pagamento che partecipassero al suo studio sulle dinamiche dell’apprendimento. I partecipanti, di età compresa tra i 20 e i 50 anni furono istruiti dal ricercatore che spiegò loro i particolari del test per indagare gli effetti della punizione sulla capacità di imparare. I volontari dovevano ricoprire il ruolo di insegnante e ogni volta che gli allievi, che erano complici dello sperimentatore, avessero risposto in modo errato, gli insegnanti avrebbero dovuto procedere e punirli con una scossa elettrica azionando un comando che metteva in funzione un generatore.

Milgram nei test incoraggiava i più titubanti ad azionare il dispositivo che dava la scossa e a ogni errore degli allievi il voltaggio saliva e con esso le finte urla dei complici-allievi, infatti era tutto finto, una recita e le urla, i lamenti e gli svenimenti non erano reali. I volontari-insegnanti ne erano all’oscuro, non sapevano che il test era rivolto a loro e ne voleva verificare i limiti dell’obbedienza agli ordini che via via ricevevano.

Il test, una volta concluso, presentò dei risultati inquietanti: Milgram scrisse che il 65% dei soggetti sottoposti alle prove aveva eseguito gli ordini dell’autorità, proseguendo con la tortura nonostante il dolore evidente delle vittime.  Riferendosi poi ai campi di concentramento e alle torture inferte dai nazisti aggiunse che nulla di questo sarebbe stato possibile senza la cieca obbedienza di massa agli ordini impartiti dai gerarchi.

I risultati colpirono l’opinione pubblica per come veniva descritta la natura umana che, se sottoposta a un certo tipo di stress, avrebbe agito senza riflessione alcuna e senza nessuna empatia verso il prossimo.

Ma le cose non stavano come Milgram raccontava, molti dei dati raccolti nell’esperimento non vennero mai esposti al pubblico, furono nascosti o sminuiti per far apparire plausibile il caso del gerarca nazista Eichmann, e queste sono le conclusioni tratte da Gina Perry, psicologa che si prese la briga di analizzare il lavoro del ricercatore, ascoltando le registrazioni dei 780 esperimenti e studiato le 158 scatole di documenti raccolti durante il test.

Lo studio che affermava che quasi due terzi delle persone coinvolte eseguissero qualsiasi ordine non può essere, in alcun modo, ritenuto attendibile; quella percentuale del 65% si basava infatti su un primo test che vedeva la partecipazione di una quarantina di soggetti maschi. Questo poteva voler dire che Milgram aveva scoperto una verità universale da applicare a tutto il genere umano sulle reazioni di 26 persone?

Ma ci sono diversi dettagli poco noti. Il primo racconta che Milgram condusse 23 varianti del suo esperimento, con ciascuna che prevedeva diversi scenari e diversi attori. In una, l’attore-allievo non urlò mai fino alla scossa di 300 volt dopo la quale finse di sbattere contro il muro e di cadere privo di sensi. In un’altra, l’allievo si rifiutava di partecipare e lo sperimentatore occupava entrambi i ruoli di vittima e motivatore. Ma soprattutto, in più della metà delle varianti, la maggior parte dei volontari non volle eseguire gli ordini rifiutandosi di continuare il test, ma questo fatto venne omesso nella raccolta dei dati.

Gli archivi parlano chiaro e raccontano che i soggetti tentarono ogni sotterfugio pur di evitare di somministrare le scosse alle cavie false. Alcuni si offrirono di “scambiarsi di ruolo” con la vittima; altri enfatizzarono la risposta corretta, per non far sbagliare l’allievo e evitargli la punizione; altri ancora imbrogliarono dando una scossa più bassa di quanto stabilito. Molti implorarono lo sperimentatore, in tanti ci litigarono e lo sfidarono.

Il team di Milgram manipolò i risultati tralasciando pesantemente i dati più “scomodi” in modo ben poco scientifico.

Nelle prime fasi della ricerca, i soggetti che si opposero più di quattro volte agli ordini furono classificati come “disobbedienti” e cacciati dallo studio (in seguito questo comportamento fu ignorato). In una variante con un soggetto donna, lo sperimentatore insistette per ben 26 volte affinché continuasse a dare la scossa – più che un ordine, una coercizione.

C’è un’altro aspetto che dobbiamo considerare: le cavie erano assolutamente certe della realtà dell’esperimento? Veramente pensavano che l’università Yale permettesse un test del genere con torture e coercizioni?

A esporsi fu anche la National Science Foundation, tra i primi a finanziare Milgram, che espresse riserve sugli esperimenti già nel 1962, invitandolo a compiere un follow-up della prima ricerca in cui avrebbe chiesto ai volontari intervistati la loro interpretazione dei fatti di Yale.

Milgram, in effetti, si occupò di questa dettagliata analisi, ma pubblicò i risultati dopo una decina di anni. Solo allora emerse che appena il 56% dei volontari aveva realmente creduto che le scosse fossero reali come Milgram diceva diceva loro.

Oltre a questo, un’ultima buona notizia che scagiona il genere umano: i disobbedienti erano per la maggior parte gente che era caduta nel tranello e non sospettava che i test fossero pilotati, fasulli. Mentre tra chi dubitava della bontà dell’esperimento,il 44% non si fermava davanti alle richieste di aumentare il voltaggio ordinatogli.

L’umanità in fondo non è cosi cieca davanti al dolore altrui, se lo fosse si sarebbe probabilmente già estinta da tempo.

Fonte: Focus.it

Breaking news: Curiosity ha rilevato un’importante quantità di metano nell’aria di Marte

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Secondo quanto riporta il New York Times, notizia ripresa anche da alcune agenzie stampa italiane, in una rilevazione effettuata lo scorso mercoledì, il rover Curiosity della Nasa ha improvvisamente rilevato grandi quantità di metano nell’aria di Marte.

Sulla Terra il metano è spesso prodotto dal metabolismo di batteri e altri organismi più complessi, per cui gli scienziati ritengono che la presenza di metano nell’atmosfera marziana potrebbe essere il segnale della presenza di vita. Già altre volte, in passato, è stata rilevata la presenza di questo gas su Marte, sia dai rover a Terra che dagli strumenti degli orbiter che lo sorvolano.

Nel 2013 il rover della NASA Curiosity rilevò la presenza di metano nell’aria di Marte. Quello del rover non è stato l’unico rilevamento di metano nell’atmosfera di Marte, nel corso del tempo questo gas è stato rilevato varie volte dai diversi strumenti che scandagliano il Pianeta Rosso, e in vari punti. Purtroppo, però, la presenza del metano si è rilevata fuggevole, al punto che da un anno a questa parte, la sonda Europea Trace Gas Orbiter, inviata, praticamente, proprio per confermare i rilievi precedenti e la loro eventuale stagionalità, non riesce a rilevare alcuna traccia di metano nell’atmosfera di Marte, nemmeno a concentrazioni bassissime come 50 parti per trilione, pur avendo scansionato ormai l’intera atmosfera marziana.

Insomma, siamo sicuri che il metano c’era, oltre che da Curiosity è stato rilevato anche dalla sonda dell’ESA Mars Express per ben due volte, ma è scomparso e non sappiamo né da dove arrivasse né che fine abbia fatto. Secondo gli scienziati, il metano nell’atmosfera di Marte dovrebbe metterci circa 300 anni a degradarsi completamente e scomparire.

Ora questo nuovo rilevamento, anticipato dal New York Times, confermato ieri in tarda serata dalla NASA, che lo ha definito un “primo risultato scientifico”. Secondo il quotidiano statunitense, gli scienziati che lavorano alla missione stanno valutando le implicazioni di questo nuovo rilevamento.

La NASA ora, ha avviato le procedure per effettuare ulteriori verifiche. “Visto questo sorprendente risultato, abbiamo riorganizzato il weekend per eseguire un ulteriore esperimento“, avrebbe scritto Ashwin R. Vasavada, il responsabile scientifico della missione, in una mail della quale il New York Times avrebbe avuto visione.

A quanto pare, il controllo missione, da Terra, ieri ha inviato nuove istruzioni al rover, per eseguire delle letture aggiuntive, sospendendo le attività precedentemente pianificate. I risultati di queste osservazioni dovrebbero giungere lunedì sulla Terra.

Sul nostro pianeta, microrganismi chiamati metanogeni proliferano in luoghi dove c’è scarsità di ossigeno, come le rocce in profondità e i tratti digestivi degli animali e rilasciano il metano come prodotto di scarto. Tuttavia, anche le reazioni geotermiche, prive di attività biologica, possono produrre metano. E’ anche possibile che il metano su Marte sia di origine antica, intrappolato all’interno del pianeta per milioni di anni e rilasciato in maniera intermittente attraverso le crepe del terreno.

Il New York Times cita anche una mail dello scienziato italiano Marco Giuranna, dell’Istituto nazionale di astrofisica, responsabile delle misurazioni di metano della missione Mars Express, la navetta europea in orbita attorno al pianeta e ancora operativa.

Giuranna nella mail afferma che gli scienziati al lavoro sulle missioni Curiosity, Mars Express e Trace Gas Orbiter (la nuova missione europea lanciata nel 2016) hanno discusso queste ultime misurazioni, che avrebbero rilevato nell’atmosfera 21 parti di metano per miliardo, il livello più alto mai rilevato dalle varie missioni che si sono succedute negli anni.

Secondo Giuranna è ancora troppo presto per dare una risposta definitiva. “Ci sono molti dati da processare. Avrò dei risultati preliminari entro la prossima settimana“, ha scritto lo scienziato italiano nella mail citata dal Times.

Le pozze salate di Marte potrebbero essere adatte ad ospitare microorganismi

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I ricercatori stanno cercando di ottimizzare le possibilità di ricerca della vita su Marte per il rover Mars 2020 che la NASA lancerà il prossimo anno. Ora, secondo alcuni scienziati, la recente scoperta che Marte ospita, almeno periodicamente, acqua liquida appena appena sotto la sua superficie, apre alla possibilità che il Pianeta Rosso possa essere cosparso di pozzanghere di fango con un’alta concentrazione di sali.

Studiando sulla Terra pozze simili a quelle che, si pensa, sarà possibile trovare su Marte,  fatte di di fango salato, gli astrobiologi della Wichita State University hanno scoperto che la vita batterica potrebbe sopravvivere anche dopo che le pozze si siano completamente asciugate, secondo quanto riporta Space.com. La scoperta non garantisce in alcun modo che ci sia o sia mai esistita la vita su Marte, ma suggerisce che Marte, attualmente, possa essere più ospitale di quanto gli scienziati supponessero.

I ricercatori della Wichita State University che hanno presentato la loro ricerca nei giorni scorsi, durante una conferenza della American Society for Microbiology, hanno messo batteri in barattoli contenenti una soluzione di acqua salata simile a quella che dovrebbe trovarsi su Marte. Poi hanno lasciato asciugare la soluzione e l’hanno poi reidratati mentre l’acqua evaporava e si condensava a temperature variabili, come accadrebbe su Marte.

“Il prossimo step, sarà di ottenere condizioni sperimentali sempre più vicine a quelle di Marte, al fine di testare meglio i limiti di questi batteri particolarmente resilienti.” Ha concluso Schneegurt.

Fonte: Space.com

Lunedì sarà lanciato in orbita il primo veicolo spaziale mosso a fotoni

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Tra qualche giorno, presumibilmente il 24 giugno, un razzo Falcon Heavy di SpaceX, verrà lanciato dalla Florida verso lo spazio, portando in orbita un satellite delle dimensioni di una pagnotta, assolutamente privo di un sistema di propulsione a propellente, solido o liquido che sia.

Questo satellite si muoverà nello spazio utilizzando un’enorme “vela solare” in poliestere.

Anche se può sembrare un’idea folle, se ne parlava da tempo: far muovere nel vuoto dello spazio una sonda senza motore, senza carburante e senza pannelli solari, sfruttando esclusivamente la spinta dei pacchetti di energia luminosa che chiamiamo fotoni. Insomma, la propulsione di questo satellite sarà affidata alla luce emessa dal Sole.

La navicella spaziale che verrà lanciata lunedì, chiamata LightSail 2, è stata sviluppata grazie al crowfunding, dalla Planetary Society, un’organizzazione statunitense che promuove l’esplorazione dello spazio, co-fondata dal leggendario astronomo Carl Sagan nel 1980.

Diciamo subito, però, che non si tratta di un’idea rivoluzionaria. Anzi, in sé circola già da parecchio tempo.

Già nel 1600, Johannes Kepler ha parlato di vele tra le stelle“, racconta Bill Nye, l’amministratore delegato della Planetary Society.

Keplero teorizzò che le vele e le navi potessero essere adattate per “sfruttare le brezze celesti” e, anche se lui probabilmente non immaginava che queste brezze si sarebbero concretizzate nella luce del Sole, “oggi sappiamo che esiste davvero il vento solare. Non è solo poesia“.

In realtà, costruire una vela solare non richiede tecnologie all’avanguardia come si potrebbe immaginare. Una vela solare è, essenzialmente, un grande quadrato fatto con una pellicola molto sottile (meno della larghezza di un capello umano), ultra-leggera e riflettente.

La vela solare del LightSail 2 Ha una superficie di 32 metri quadrati ed è fatto di Mylar, una tipo di poliestere che è sul mercato dagli anni ’50.

Il principio della navigazione sfruttando il vento solare è molto semplice: quando i fotoni rimbalzano sulla vela, trasferiscono il loro slancio nella direzione opposta alla luce che rimbalza.

La spinta fornita dai fotoni è minuscola, ma continua e illimitata. “Una volta che sei in orbita, non rimani mai senza carburante“. L’agenzia spaziale giapponese lanciò una vela solare di test nel 2010, Ikaros, ma rimase una prova fine a sé stessa, fino ad oggi..

È un’idea romantica il cui tempo è finalmente giunto“, ha detto Nye. “Speriamo che questa tecnologia venga ulteriormente sviluppata e migliori“.

Energia illimitata

Nel 2015 fu lanciato il LightSail 1, destinato solo a testare lo spiegamento della vela, la cui missione fu funestata da parecchi problemi. Il LightSail 2 è costato 7 milioni di dollari, una miseria se confrontato ai costi delle normali missioni spaziali. È previsto che il satellite resti in orbita per un anno. “Vogliamo democratizzare l’esplorazione dello spazio“, ha affermato con entusiasmo Nye, che ha invitato università e imprese a riprendere lo sviluppo di questa tecnologia.

Pochi giorni dopo il suo lancio dal Kennedy Space Center, in Florida, LightSail 2 aprirà i suoi pannelli solari incernierati, quindi dispiegherà le quattro parti triangolari della sua vela, che insieme formano un quadrato gigante.

Per questa dimostrazione, i pannelli solari forniranno energia per le altre funzioni del satellite, come la fotografia e le comunicazioni via terra. La sonda aumenterà progressivamente la quota della sua orbita solo utilizzando la pressione della radiazione solare sulla vela.

Bene, a cosa servirà, in futuro, questa tecnologia?

Per cominciare, potrebbe facilitare l’esplorazione dello spazio profondo. Secondo i suoi progettisti, una sonda a vela solare, pur avendo una velocità iniziale molto più bassa di quella di una sonda normalmente alimentata a carburante, continuerà ad accelerare in modo permanente nel suo viaggio attraverso lo spazio, arrivando a raggiungere velocità inimmaginabili per le sonde normali.

Un’altra possibile applicazione potrebbe essere quella di mantenere una sonda stazionaria in un punto stabilito nello spazio, cosa che richiederebbe di apportare correzioni all’infinito. Ad esempio, un telescopio spaziale (Kepler è stato dismesso per avere finito il carburante) oppure un satellite in orbita geostazionaria sopra il Polo Nord.

“Servirebbe un’enorme quantità di carburante per tenere un satellite fermo in un punto stabilito per 10 anni, ma non è pratico”, ha detto Nye.

I fotoni, d’altra parte, sono illimitati e gratuiti.

L’isola dove potrebbe essere abolito il tempo

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A West Tromsø, un isola a nord del Circolo Polare Artico, non ha molto senso considerare il tempo in modo tradizionale. Questo nasce dal fatto che durante i mesi invernali il Sole non sorge mai, al contrario d’estate per 69 giorni non tramonta mai. È un’isola caratterizzata da “estremi”, e adesso i suoi abitanti stanno proponendo un idea altrettanto “estrema”.

La residente locale, Kjell Hveding, una lavoratrice di 56 anni, sta conducendo una petizione per far diventare l’isola la prima zona al mondo senza tempo. “Per molti di noi ottenerlo per iscritto significherebbe semplicemente formalizzare qualcosa che abbiamo praticato per generazioni”, ha dichiarato a Maureen O’Hare della CNN Travel.

Sommarøy, questo nome che in lingua norvegese significa Summer Island, almeno per una frazione dell’anno prende di significato. Hveding descrive questi mesi come se fossero un “free-for-all”, un momento in cui i bambini e gli adulti possono ricevere telefonate alle 2 del mattino, falciare il prato a mezzanotte o fare una nuotata oltre le ore normali.

“Mentre il governo sta discutendo per emanare la nuova legge che riguarda l’ora legale qui ne stiamo ridendo, visto che per noi non ha molto senso”, ha dichiarato Hviding alla conduttrice radiofonica della CBC, Carol Off. Qui a nord del circolo polare artico c’è una vita totalmente diversa.”

La petizione organizzata da Hviding è riuscita a raccogliere circa 100 firme, equivalenti a quasi un terzo della popolazione totale della città, e la scorsa settimana ha consegnato la lista al deputato locale. La proposta fino ad ora risulta un po’ confusa nei dettagli. In effetti alcune persone pensano che sia più un gesto simbolico che altro, mentre i cinici credono che sia una trovata pubblicitaria per aumentare il turismo dell’isola.

Hveding pensa che se il tempo tradizionale fosse abolito la gente sarebbe meno impulsiva e stressata, avendo a che fare con ritmi di vita diversi. Ma nello stesso momento abbandonare completamente l’orologio sarebbe impossibile, i residenti devono andare al lavoro, andare a scuola e organizzare riunioni con amici o vicini di casa, tutte attività basate sull’orario.

Ovviamente questa idea richiede un elaborazione e Hveding promette che non diventeranno fanatici dell’intero processo, ammettendo che passare tutto il tempo senza considerare l’orario risulterebbe troppo complesso“.

Tutti i firmatari sembrano davvero desiderosi di un po’ di autonomia e di flessibilità. Tuttavia, il corpo umano non è regolato da un orologio da polso, infatti i nostri ritmi quotidiani naturali sono sincronizzati con il sole e non con le ore che passano.

Molte delle funzioni del nostro corpo e le normali attività come dormire, svegliarsi, mangiare e andare in bagno, seguono naturalmente questo ciclo di 24 ore. In effetti, le cellule e gli organi del nostro corpo si regolano su un “orologio” interno. La ricerca ha stabilito che se andassimo contro questo ritmo naturale, si potrebbero avere effetti avversi sulla salute, come un aumento del rischio di malattie cardiache, disturbi digestivi, cancro e depressione. Inoltre, anche in assenza di luce sembra che le nostre cellule sappiano cosa fare per funzionare.

Le persone che in passato si sono dovute rintanare nelle caverne e nei bunker per svariato tempo, hanno perso del tutto il senso del tempo, ma il loro corpo ha comunque mantenuto il ciclo di 24 ore. Questo suggerisce che abbiamo un “orologio interno“, che prescinde dal significato umano del tempo.

Che ci piaccia oppure no, noi umani siamo intrinsecamente legati al tempo, e questo resterà vero anche se i residenti di Sommarøy riusciranno nella loro impresa.

“Anche se lasciassi l’orologio sul ponte, lo porteresti comunque con te”

“L’olio d’oliva tra storia, archeologia e scienza”, un libro di Thomas Vatrano e Bakhita Ranieri

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L’olio di oliva tra storia, archeologia e scienza”, un interessante libro scritto da Thomas Vatrano, agronomo, e Bahkita Ranieri, archeologa.

Il libro è stato presentato nei giorni scorsi nel Parco archeologico di Scolacium nell’ambito delle Giornate archeologiche del 7, 8 e 9 giugno e dell’evento “Le 4 stagioni di Scolacium”. L’argomento centrale del libro scritto a quattro mani è l’ulivo e l’olio da questo derivato.

Il testo è diviso in due parti. La prima, composta da dodici capitoli, più letteraria, legata agli usi e alle tradizioni degli antichi popoli legati a questa pianta e all’olio, considerato un vero e proprio oro liquido dagli antichi romani. Riferimenti sono stati presi dalla letteratura e dalle fonti storiche.

La seconda parte è composta da sedici capitoli, presenta una serie di argomenti riguardanti le ultime frontiere sulla tecnologia di estrazione, packaging, effetti salutari, shelf life. L’opera si conclude con un interessante capitolo riguardante il germoplasma olivicolo calabrese, degno di interesse e divulgazione scientifica.

Già 2000 anni fa” hanno spiegato al folto pubblico Vatrano e Ranieri si conoscevano ottime tecniche per la produzione di olio. Oggi in Italia si vive una fase di confusione legata alla volontà, spesso, di emulare la produzione spagnola, basata pero’ su modelli di coltivazione sub-intensiva con manodopera ridotta quasi a zero. Ma orograficamente l’Italia non è la Spagna, di conseguenza non si possono raggiungere quei numeri in termini di quantità della produzione. Occorre, invece, puntare decisamente sulla qualità”.

Attribuita ad Alberto Angela la Laurea magistrale honoris causa in Archeologia

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L’università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli ha deciso di attribuire la laurea magistrale honoris causa in Archeologia ad Alberto Angela.

Proprio un anno dopo l’attribuzione della cittadinanza onoraria  attribuitagli dalle città di Napoli e Pompei, Alberto Angela riceve un importante riconoscimento accademico per il suo grande lavoro, ormai trentennale, di divulgazione scientifica.

In commissione di laurea Paola D’Agostino e Massimo Osanna, il vicedirettore di Rai Uno Rosanna Pastore, l’ex Ministro Massimo Bray, il soprintendente Luciano Garella e illustri docenti di numerose discipline che spaziano dalla storia alla scienza.

Comunicato Stampa

“La straordinaria capacità di sintesi tra competenza e comunicazione, ovvero tra i valori della conoscenza scientifica e i metodi della trasmissione del sapere nell’era dei nuovi media”.Èquesta la sintesi delle motivazioni con cui l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, che nel 1993 è stato il primo Ateneo italiano ad avviare un percorso formativo sulla conservazione e la valorizzazione dei beni culturali,ha scelto di conferire la laurea magistrale honoris causa in Archeologia ad Alberto Angela.
Classe 1962, natali parigini,Alberto Angela, dopo la laurea in Scienze Naturali all’Università La Sapienza di Roma,si specializza in paleontologia e in paleoantropologia in alcune della più prestigiose Università americane (da Harvard alla Columbia)fino a diventare, negli ultimi trent’anni, con il suo impegno televisivo ed editoriale,uno dei più importanti divulgatori scientifici internazionali (con servizi e documentari realizzati in tutti i continenti: dalle Ande peruviane al Vietnam, dalla Tanzania al Congo).
Martedì 25 Giugno alle ore 16.30 nella Sala degli Angeli dell’Università Suor Orsola Benincasa ad un anno di distanza dallecittadinanze onorarie di Napoli e di Pompeila laurea honoris causa in Archeologia saràun altro riconoscimento al suo impegno particolare per la divulgazione scientifica e culturale del grande patrimonio artistico, storico e archeologico della Campaniaper il quale è diventata ormai cult la puntata di“Ulisse”dedicata a“I mille segreti di Napoli”, uno straordinario viaggio tra alcuni dei luoghi più suggestivi della città(dalla Cappella Sansevero al Tunnel Borbonico).
Dalla laudatio di Emma Giammattei alla lectio magistralis di Alberto Angela sul racconto ‘moderno’ dell’antico: il programma della cerimonia e la composizione della Commissione
A rappresentare la straordinaria variegatura delle sue competenze e delle sue conoscenze per la laurea honoris causa ad Alberto Angela ci sarà una commissione di laurea di grandissimo prestigio in rappresentanza dei diversi settori accademici che abbracciano il suo lavoro di divulgazione scientifica:dalla storia all’arte, dalla scienza alla letteratura.Una commissione nella quale ci saranno, tra gli altri,Massimo Bray, direttore generale dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Piero Craveri, presidente dell’Ente Morale Suor Orsola Benincasa,Paola D’Agostino, direttore del Museo Nazionale del Bargello di Firenze, Luciano Garella, Soprintendente al patrimonio archeologico del Comune di Napoli, Pierluigi Leone De Castris, direttore della Scuola di Specializzazione in Beni storici artistici del Suor Orsola, Massimiliano Marazzi, direttore del Centro Euromediterraneo per il beni culturali del Suor Orsola, Massimo Osanna, direttore del Parco Archeologico di Pompei, Rosanna Pastore, vicedirettore di Rai Uno,Marco Salvatore, direttore scientifico dell’IRCCS SDN e Laura Valente, presidente della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee.
Nella Sala degli Angeli del Suor Orsola (l’antica chiesa seicentesca della cittadella orsolina impreziosita da cinque grandi tele d’autoredi alcuni dei più celebri pittori napoletani del XVII secolo, dal Malinconico al Vaccaro) la cerimonia di conferimento della laurea magistrale honoris causa in archeologia ad Alberto Angela sarà aperta da Lucio d’Alessandro, Rettore dell’Università Suor Orsola Benincasa e vicepresidente della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, che anticipa come“questo importante riconoscimento vuole sottolineare la rilevanza pedagogica della sapiente interconnessione tra la conoscenza e i nuovi metodi della sua trasmissione che in Angela viene esaltata da una peculiare visione comunicativa capace di appassionare al bene culturale e al culto non inerte del passato anche i fruitori più giovani”.

Ad accompagnare, in qualità di presentatore, Alberto Angela sarà l’archeologo Antonio De Simone, professore straordinario di Storia dell’Architettura antica dell’Università Suor Orsola Benincasa, che con Angela ha lavorato per lunghi anni alla divulgazione delle scoperte di numerosi cantieri di scavo (dalla Villa dei Papiri di Ercolano fino alla Villa di Augusto di Somma Vesuviana). La laudatio sarà affidata ad Emma Giammattei, direttore del Dipartimento di Scienze Umanistiche del Suor Orsola.

La lectio magistralis di Alberto Angela sarà dedicata al tema “Raccontare l’antico: immagini e storie dell’archeologia”.

L’evento si terrà martedì 25 Giugno 2019 ore 16.30, presso la Sala degli Angeli dell’Università Suor Orsola Benincasa
Via Suor Orsola 10, Napoli

Rilevata, per la prima volta, la polarizzazione delle onde radio in un Gamma Ray Burst

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La fortuna e le attrezzature scientifiche all’avanguardia hanno permesso agli scienziati di osservare un’emissione di Gamma Ray Burst con un radiotelescopio e di rilevarne per la prima volta la polarizzazione delle onde radio, un fatto che potrà avvicinarci alla comprensione di ciò che causa le esplosioni più potenti dell’universo .

I Gamma Ray Bursts (GRB) sono le esplosioni di più potenti dell’universo, emissione di  potenti getti che percorrono lo spazio ad una velocità oltre il 99,9% della velocità della luce.

Studiare la luce proveniente dai Gamma Ray Burst mentre la rileviamo è la nostra migliore speranza di capire come questi potenti getti si formano, ma gli scienziati devono essere veloci per mettere in posizione i loro telescopi e ottenere i dati migliori. Il rilevamento di onde radio polarizzate da una emissione di GRB può offrirci nuovi indizi per capire quale sia l’orgine di questi potentissimi scoppi di energia. Oggi è possibile rilevare nuove informazioni grazie ad una nuova generazione di radiotelescopi avanzati.

La luce di questo particolare evento, noto come GRB 190114C, avvenuto circa 4,5 miliardi di anni fa, ha raggiunto il Neil Gehrels Swift Observatory della NASA il 14 gennaio 2019.

L’immediato avviso degli strumenti ha permesso al team di ricerca di dirigere il telescopio Atacama Large Millimeter / Sub-millimeter Array (ALMA) in Cile per osservare lo scoppio appena due ore dopo che Swift l’aveva scoperto. Altre Due ore dopo il team è stato in grado di osservare il GRB dal telescopio VLA (Karl Very Large Array) di Karl G. Jansky quando è diventato visibile nel New Mexico, negli Stati Uniti.

La combinazione delle misurazioni di questi osservatori ha permesso al team di ricerca di determinare la struttura dei campi magnetici all’interno del getto stesso, struttura che influisce sul modo in cui i segnali radio all’interno del getto sono polarizzati. Le teorie prevedono diverse disposizioni dei campi magnetici all’interno del getto, a seconda dell’origine dei campi, quindi catturare i dati radio ha permesso ai ricercatori di testare queste teorie con osservazioni dai telescopi per la prima volta.

Il gruppo di ricerca, costituito di scienziati dell’Università di Bath, della Northwestern University, dell’Open University of Israel, dell’Università di Harvard, la California State University di Sacramento, del Max Planck Institute di Garching e il Liverpool John Moores University hanno scoperto che solo lo 0,8% del getto di luce era polarizzato, il che significa che il campo magnetico del getto è risultato ordinato solo su zone relativamente piccole, ciascuna inferiore a circa l’1% del diametro del getto. Patch più grandi avrebbero prodotto una luce più polarizzata.

Queste misurazioni suggeriscono che nei getti GRB, i campi magnetici possono giocare un ruolo strutturale meno significativo di quanto si pensasse in precedenza.

Questo ci aiuta a restringere le possibili spiegazioni su quali siano le cause e le potenze di queste straordinarie esplosioni. Lo studio è pubblicato su Astrophysical Journal Letters.

Il primo autore, il dott. Tanmoy Laskar, del gruppo di Astrofisica dell’università di Bath, ha dichiarato: “Vogliamo capire perché alcune stelle producono questi getti straordinari quando muoiono e il meccanismo con cui questi getti sono alimentati, i flussi più veloci noti nell’universo, muovendosi a velocità prossime a quelle della luce e splendendo con l’incredibile luminosità di oltre un miliardo di soli combinati.

È stato un caso fortuito che l’obiettivo fosse ben piazzato in cielo per le osservazioni sia con ALMA in Cile che con il VLA nel New Mexico.Tutte le strutture hanno risposto rapidamente. A quel punto abbiamo trascorso due mesi in un meticoloso processo di analisi per assicurarci che le misurazioni effettuate fossero genuine e prive di effetti strumentali: tutto è andato a buon fine, ed è stato emozionante”.

La dottoressa Kate Alexander, che guidava le osservazioni VLA, ha dichiarato: “I dati a frequenza più bassa del VLA hanno contribuito a confermare che stavamo vedendo la luce dal jet stesso, piuttosto che dall’interazione del jet con il suo ambiente.”

Il dott. Laskar ha aggiunto: “Questa misura apre una nuova finestra sulla scienza dei GRB e, in generale, sugli studi dei getti energetici. Vorremmo capire se il basso livello di polarizzazione misurato in questo evento è caratteristico di tutti i GRB e, in tal caso, che cosa potrebbe dirci delle strutture magnetiche nei getti GRB e del ruolo dei campi magnetici nei getti energetici in tutto l’universo“.

La professoressa Carole Mundell, responsabile di Astrofisica presso l’Università di Bath, ha aggiunto: “La grande sensibilità di ALMA e la rapida risposta dei telescopi ci hanno permesso, per la prima volta, di misurare in con precisione il grado di polarizzazione delle microonde di un GRB afterglow solo due ore dopo l’individuazione  dell’esplosione e sondare i campi magnetici che, si pensa, guidino questi potenti, ultraveloci getti di energia“.

Il team di ricerca prevede di cercare altri GRB per continuare a svelare i misteri delle più grandi esplosioni nell’universo.

Lo studio “Rilevazione ALMA di uno shock inverso linearmente polarizzato in GRB 190114C” è pubblicato su Astrophysical Journal Letters, DOI: 10.3847 / 2041-8213 / ab2247.

Fonte: Phys.org 

I giovani stanno sviluppando spine craniali anomale a causa di smartphone e tablet

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A quanto pare, il nostro apparato scheletrico sta tentando di adattarsi agli particolari stress cui è sottoposto dalla vita moderna. Per esempio, i ricercatori un gruppo di ricercatori australiani ha trovato prove che i giovani sembrano presentare sempre più spesso sporgenze ossee alla base del cranio, proprio sopra il collo.
Esaminando 1.200 immagini a raggi X di adulti australiani, i ricercatori hanno scoperto che il 41% di quelli tra i 18 ed i 30 anni ha sviluppato questi speroni ossei, ovvero l’8% in più rispetto alla media generale.

Alcune di queste sporgenze hanno lunghezze di soli 10 millimetri e sono appena percettibili, mentre altre arrivavano fino a 30 mm.

Sono medico da 20 anni, e negli ultimi dieci anni ho constatato che sono sempre più numerosi i miei pazienti che presentano questa crescita sul cranio“, ha dichiarato alla BBC l’autore dello studio David Shahar, che opera presso l’Università The Sunshine Coast.

eops scientifici ampliati(Shahar e Sayer, Scientific Reports, 2018)

Queste escrescenze appaiono e crescono in una zona molto particolare del cranio: nella parte bassa della nostra testa abbiamo una grande placca conosciuta come l’osso occipitale, e verso il suo centro c’è una piccola protuberanza chiamata protuberanza occipitale esterna (EOP), dove sono attaccati alcuni legamenti e muscoli del collo.

La posizione dell’EOP è tecnicamente un’entesi. Questi punti dei nostri scheletri possono essere soggetti allo sviluppo di crescite spinose chiamate entesofiti, tipicamente in risposta a stress meccanici – ad esempio, eccessivo affaticamento muscolare. Come indicano Shahar e il suo collega Mark Sayers, c’è una prevalenza di EOP che crescono più a lungo nei giovani.

Secondo gli autori queste ossa sono diventate più evidenti sin dagli albori della “rivoluzione tecnologica della mano” a causa della cattiva postura che questi dispositivi provocano.

Di solito, le caratteristiche degenerative dello scheletro si presentano come sintomi dell’invecchiamento, ma in questo caso l’EOP ingrandito si presenta in soggetti giovani, in correlazione con il sesso del soggetto e al grado di protrazione della testa in avanti.

I maschi hanno molte più probabilità di avere un EOP più lungo oltre cinque volte il normale; ciò si allinea con le evidenze storiche  sull’EOP più sviluppato nei maschi, e potrebbe essere spiegato da una maggiore massa della testa e del collo, insieme ad una maggiore forza muscolare.

E, mentre la protrazione media della testa in avanti registrata in questo studio era di 26 mm, gli autori dicono che è significativamente più grande di quanto registrato nel 1996. Riconosciamo che fattori come la predisposizione genetica e l’infiammazione influenzano la crescita degli entesofiti“, scrivono gli autori. Tuttavia, ipotizziamo che l’uso delle moderne tecnologie e di dispositivi portatili come gli smartphone, possa essere la causa principale delle posture scorrette e del successivo sviluppo di spine craniali più robuste come caratteristica adattativa nel nostro campione.

Si tratta di risultati affascinanti e preoccupanti allo stesso tempo, tanto più che si tratta di idee supportate da un’ampia ricerca su come i dispositivi mobili possono alterare il nostro sistema muscolo-scheletrico.

Tra gli utenti dei dispositivi portatili, ad esempio, una recente revisione sistematica ha rilevato che le patologie relative al collo sono oggi più comuni del 67% rispetto a qualsiasi altra regione della colonna vertebrale.

Altri studi hanno rilevato che il 68% del personale e degli studenti riporta dolore al collo dopo aver usato dispositivi mobili per, in media, 4,65 ore al giorno. La cattiva postura, ovviamente, non è una novità, ma questo è molto più tempo di quanto noi umani abbiamo mai speso su libri o a scrivere fino a solo pochi decenni fa.

Per essere chiari, questi EOP allungati non sono necessariamente dannosi di per sé, ma potrebbero essere un sintomo di un problema più grande. I modi in cui il nostro corpo compensa una cattiva postura potrebbero aggiungere ulteriore stress a certe articolazioni e muscoli, aumentando le nostre possibilità di infortuni o problemi muscoloscheletrici in futuro.

Sebbene la rivoluzione dei tablet e degli smartphone sia pienamente ed efficacemente radicata nelle nostre attività quotidiane, dobbiamo ricordare che questi dispositivi hanno solo un decennio e che i disturbi sintomatici correlati stanno emergendo solo ora“, concludono gli autori.

I nostri risultati suggeriscono che il gruppo di età più giovane nel nostro studio ha sperimentato carichi posturali che sono atipici in tutti gli altri gruppi di età testati“.

La ricerca è stata pubblicata in Scientific Reports.