mercoledì, Aprile 2, 2025
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Il misterioso “Tully Monster”

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Qualche volta gli scienziati scoprono animali così bizzarri da avere difficoltà a classificarli.

Una di queste creature insolite è vissuta 300 milioni di anni fa ed è nota con il nome di Tulli monstrum o Mostro di Tully.

Il suo fossile è stato ritrovato nei letti fossili del Mazon Creek, nell’Illinois, Stati Uniti. Il giacimento di Mazon Creek, è uno dei più noti lagerstatten fossili del mondo. Risale alla fine del Carbonifero medio e si è formato in un ambiente anossico, in un deposito di fanghiglia sottostante una zona di acque basse. Il particolare tipo di conservazione del sedimento permette la fossilizzazione delle parti molli degli animali, un fatto rarissimo.

Se lo osserviamo con sguardo distratto, il Tully può sembrare molto simile a una lumaca ma dove dovrebbe esserci una bocca è presente un’appendice lunga e sottile, provvista di una sorta di artiglio. A completare le stranezze, gli occhi, che sormontano degli steli sporgenti dalla testa dello strano animale.

Il Tully era un essere vivente così particolare che ancora gli scienziati non sono nemmeno riusciti a comprendere con certezza se si tratta di un vertebrato o di un invertebrato. Nel 2016, un gruppo di scienziati ha affermato di aver risolto il mistero del Tully, fornendo una prova del fatto che fosse un vertebrato. Ma Chris Rogers e  i suoi colleghi hanno condotto un nuovo studio che mette in discussione questa conclusione, il mistero quindi rimane.

Il mostro di Tully è stato scoperto da Francis Tully, un collezionista di fossili, (dal quale prende il nome) negli anni 50. La sua condizione di “animale misterioso” e controverso ha dato al Mostro di Tully molta popolarità tanto da farlo diventare il fossile di stato dell’Illinois

Sono stati fatti diversi tentativi di classificare l’essere con studi concentrati per lo più sull’aspetto di alcune delle sue caratteristiche più importanti. Un esempio è la linearità del fossile che viene interpretata come dovuta alla presenza di un intestino, la banda chiara e scura del fossile e gli peculiari artigli afferranti della sua bocca. Il piano corporeo del Mostro di Tully è così insolito che amplierà notevolmente la diversità di qualsiasi gruppo a cui appartiene, cambiando il modo in cui pensiamo a quel gruppo di animali.

Come abbiamo detto, la ricerca portata a termine nel 2016 sostiene che l’animale appartenga al gruppo dei vertebrati perché i suoi occhi contengono granuli di pigmento chiamati melanosomi, che sono disposti per forma e dimensione allo stesso modo di quelli negli occhi dei vertebrati. Ma la ricerca portata avanti da Chris Rogers e soci ha fatto notare che anche gli occhi di alcuni invertebrati come polpi e calamari contengono melanosomi suddivisi per forma e dimensione in modo simile agli occhi del mostro di Tully, e che questi possono ancora essere conservati nei fossili.

Il gruppo di lavoro di Rogers per dissipare il mistero attorno al mostro di Tully ha usato un acceleratore di particelle che emette radiazioni di sincrotrone. L’acceleratore si trova presso la Stanford University in California. Grazie a questa macchina, Rogers e i suoi colleghi hanno esplorato la composizione chimica di campioni fossili e animali che vivono oggi.

Il sincrotrone bombarda gli esemplari con intense esplosioni di radiazioni per “eccitare” gli elementi al loro interno. Gli elementi cosi eccitati rilasciano raggi X con una firma specifica. Rilevando le firme dei raggi X emessi, Rogers e i suoi colleghi possono dirci quali elementi sono stati eccitati e alla fine di cosa è fatto il campione analizzato.

Rogers e i suoi colleghi hanno scoperto che i melanosomi dagli occhi dei moderni vertebrati hanno un rapporto più elevato di zinco rispetto al rame se confrontati ai moderni invertebrati che lo studio ha analizzato. I ricercatori hanno notato con sorpresa che lo stesso modello poteva essere visto nei vertebrati fossilizzati e negli invertebrati trovati a Mazon Creek.

Il team ha quindi analizzato la chimica degli occhi del Tully e hanno scoperto che il rapporto tra zinco e rame era più simile a quello degli invertebrati rispetto ai vertebrati. Ciò suggerisce che l’animale potrebbe non essere stato un vertebrato, contraddicendo lo studio del 2016.

Inoltre i ricercatori hanno scoperto che gli occhi del Tully contengono diversi tipi di rame rispetto a quelli trovati negli occhi dei vertebrati. Ma anche il rame non era identico a quello degli invertebrati che hanno studiato. Quindi, mentre il lavoro di Rogers aggiunge peso all’idea che il Tully non sia un vertebrato, non lo identifica nemmeno chiaramente come un invertebrato.

Servirebbe un’analisi più approfondita della chimica dei melanosomi e degli altri pigmenti presenti negli occhi in una gamma più ampia di invertebrati per restringere le ricerche sul gruppo di animali a cui Tully appartiene.

Il mistero continua.

Fonte: Live Science 

Il nuovo Motorola razr è un inno alla nostalgia. Ed è bellissimo (magari un po’ caro)…

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Motorola lo ha fatto davvero: l’iconico telefono RAZR è tornato, rinasce come razr (tutto minuscolo), uno smartphone Android con il display pieghevole.

Il design è davvero bello e ricorda molto da vicino lo storico RAZR di quindici anni fa.

Sarà lanciato a gennaio 2020 al costo di 1.499 dollari, in Europa costerà più o meno la stessa cifra in euro. Come hanno chiarito Samsung e Huawei: i telefoni con display pieghevole comportano costi aggiuntivi. I preordini inizieranno a dicembre. Il razr è davvero costoso perfino rispetto all’iPhone 11 Pro, il prezzo è oltraggioso ma il telefono è bellissimo.

Motorola Razr - Telefono pieghevole
L’originale RAZR a confronto con il moderno razr.

Ritorno a un design iconico – Non è esagerato dire che il RAZR originale, rilasciato nel 2004, ha dato ai telefoni cellulari qualcosa che prima non avevano: il sex appeal. Prima del RAZR c’erano stati telefoni di bell’aspetto come il Motorola StarTac e il Nokia 3310, ma il RAZR rendeva i telefoni cellulari sottili, leggeri ed eleganti.

Motorola Razr - Telefono pieghevole
Estremamente sottile e leggero

Il nuovo razr evoca l’iconica silhouette della RAZR ma è completamente moderno. Il corpo è realizzato in acciaio inossidabile e vetro, la parte posteriore ha una trama sottile per una migliore presa e, naturalmente, c’è il display OLED in plastica flessibile. Il razr è più largo dell’originale, ma è altrettanto alto quando aperto e all’incirca dello stesso spessore (14 mm) ripiegato.

Motorola Razr - Telefono pieghevole

Motorola si è anche assicurato di mantenere il notevole “mento” del RAZR nel nuovo rasoio, utilizzandolo per un lettore di impronte digitali, una porta USB-C che supporta la ricarica rapida tramite l’adattatore di alimentazione TurboPower incluso e un’ampio altoparlante dall’ottima resa.

Motorola Razr - Telefono pieghevole
Una volta piegato è grande come una carta di credito

A differenza di altri smartphone pieghevoli che cercano di comprimere un tablet in un telefono, il razr risolve un problema reale che deve essere risolto: piegare un telefono grande in un telefono più piccolo in modo che sia effettivamente tascabile.

Motorola razr vs. iPhone 11 Pro
Il razr ha circa la metà delle dimensioni di un iPhone 11 Pro quando è piegato.

Non c’è piega: il Galaxy Fold di Samsung, il FlexPai di Royole e il Mate X di Huawei hanno tutti pieghe visibili per piegare lo lo schermo a metà che sono difficili da non vedere. Il display OLED in plastica flessibile da 6,2 pollici 21: 9 di razr (risoluzione 2.142 x 876) non ha una piega. C’è una leggera ondulazione sul display che si nota a malapena quando pieghi il razr. Ma non c’è piega quando è aperto, il che rende molto più coinvolgente guardare contenuti come video e siti Web. Spettacolare!

Display per telefono pieghevole Motorola razr hands on
Non c’è piega nel display OLED.

Più durevole – Motorola ha rassicurato i media che ha testato a fondo il razr per la durata di funzionamento in tutte le condizioni.

Oltre a utilizzare i robot per piegare e aprire il display più e più volte (non è chiaro quante pieghe lo schermo possa sopportare), Motorola afferma di aver sottoposto il razr alla stessa batteria di stress test che gli altri telefoni devono superare. Ciò include lanciare il razr con altri oggetti facendolo cadere ad angoli diversi per verificare la presenza di danni da impatto. E in un sottile colpo alla Samsung, Motorola afferma che 90 persone hanno mangiato il razr nel mondo reale per sottoporlo a condizioni reali.

Motorola Razr - Telefono pieghevole
La cerniera è trattata con rivestimenti speciali per evitare che detriti e liquidi danneggino gli interni.

Inoltre, gli ingegneri e i designer di Motorola hanno affermato di aver fatto di tutto per applicare un rivestimento proprietario al display in plastica in modo che non si danneggiasse. Hanno anche progettato gli ingranaggi della cerniera personalizzata non solo per durare ma anche per bloccare detriti e liquidi.

Telefono pieghevole Motorola razr
Ha specifiche di fascia media, quindi bisognerà vedere come rende con Android.

Specifiche smartphone – Il razr viene fornito con un chip Snapdragon 710, 6 GB di RAM e 128 GB di spazio di archiviazione. Queste sono specifiche di fascia media ma sembra che Android 9 Pie funzioni senza problemi. Motorola afferma che le doppie batterie del razr (integrate nella metà superiore e inferiore), che ammontano a 2.510 mAh, durano “tutto il giorno“.

Lo schermo secondario non è un espediente: come il RAZR originale, il nuovo razr ha uno schermo più piccolo all’esterno chiamato “Quick View Display“. Questo display OLED 4: 3 da 2,7 pollici (risoluzione 800 x 600) mostra l’ora, notifiche, controlli del lettore musicale e fornisce controlli delle impostazioni rapide. Ma non è utile solo per quello. Ruotando il telefono si attiva la fotocamera posteriore f / 1.7 da 16 megapixel per scattare selfie (c’è anche una fotocamera f / 2.0 da 5 megapixel all’interno del telefono anche per i selfie).

Visualizzazione rapida Motorola razr con visualizzazione diretta
La fotocamera posteriore da 16 megapixel può essere utilizzata per selfie ad alta risoluzione quando il razr è ripiegato.

Il display Quick View è ottimo anche per le videochiamate e ha una sua versione della “App Continuity” del Galaxy Fold per la transizione delle esperienze delle app tra gli schermi esterni e interni. Gli sviluppatori dovranno programmare le loro app per il display Quick View, ma Motorola dice che non sarà un grosso problema.

Motorola Razr - Telefono pieghevole
Il razr è il telefono che renderà reali i telefoni pieghevoli?

Videosorveglianza: il quadro normativo in Italia (parte II)

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Abbiamo visto nel precedente articolo come il trattamento dei dati personali effettuato mediante l’uso di sistemi di videosorveglianza non sia oggetto di specifica legislazione; purtuttavia, trovano però applicazione nel settore, le disposizioni generali in materia di protezione dei dati, integrate dalle disposizioni emanate dall’Autorità Garante.

Nel frattempo, analizzando i diversi interventi legislativi in materia nonché la quantità di quesiti, segnalazioni, reclami e richieste di verifica preliminare in materia sottoposti all’Autorità, il Garante nell’aprile 2010 riterrà nuovamente necessario un ulteriore intervento di indirizzo, emanando il primo Provvedimento generale sulla videosorveglianza che sostituirà quello già in vigore dal 2004, inserendo importanti novità.

Un aggiornamento necessario, ponderato, quale contromisura al proliferare incontrollato degli impianti di videosorveglianza, come al rapido processo evolutivo degli algoritmi utilizzati nei software di analisi video, sempre più performanti e attivi nella profilazione generale di un essere umano (cd. videosorveglianza intelligente, provv. n° 140 del 07/04/2011).

Ma nell’emanare la nuova disposizione il Garante terrà conto anche di un altro fattore molto importante: l’attribuzione ai sindaci di specifiche competenze in materia di incolumità pubblica e tutela della sicurezza urbana e la possibilità di far uso di sistemi di videosorveglianza per motivi di prevenzione e sicurezza.

Infatti, importanti novità sulla videosorveglianza si trovano all’interno del D.Lgs n92/08 e nel D.Lgs 11/09; il cd. pacchetto sicurezza ha, tra le altre cose, riformulato l’art. 54 del TUEL, attribuendo ai sindaci il compito di “sovrintendere alla vigilanza su tutto ciò che possa interessare la sicurezza urbana e l’ordine pubblico” e di adottare gli atti loro attribuiti dalla legge e dai regolamenti in materia di ordine e sicurezza pubblica, nonché svolgere le funzioni affidate ad essi dalla legge in materia di sicurezza e di polizia giudiziaria.

Con la modifica dell’art. 54 i primi cittadini, al fine di prevenire e contrastare determinati pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, potranno adottare con atto motivato tutti i provvedimenti contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali.

L’art. 6 del D.Lgs n° 11/09 in materia di sicurezza pubblica, di contrasto alla violenza sessuale e atti persecutori (cd. stalking), ha introdotto la facoltà in capo alle amministrazioni comunali di utilizzare, per le finalità di tutela della sicurezza urbana, sistemi di videosorveglianza in luoghi pubblici o/o aperti al pubblico; tutte le informazioni, le immagini raccolte mediante l’utilizzo di tali sistemi saranno conservati per un tempo massimo di sette giorni, fatte salve specifiche esigenze di ulteriore conservazione.

Generalmente le motivazioni che spingono le amministrazioni pubbliche e i privati nel dotarsi di un sistema di videosorveglianza, sia esso analogico o IP, collegato a un DVR/NVR locale o remotizzato presso una SOC (sala operativa di controllo), sono quelle – purtroppo mal risposte – di prevenire i reati predatori, vandalici o contro la persona.

Pertanto, una finalità dichiarata che diventa funzione unica e cardinale del sistema di videosorveglianza – ragionamento semplicistico e concretamente errato -, è questa: nessuno compie un atto illecito, a maggior ragione un reato, sapendosi sorvegliato, identificato, quindi punibile!
Equazione decisamente discutibile, con un solo risultato, tutto sommato scontato: quello di filmare solo gli accadimenti e gli attori.

Invero ci sono delle circostanze in cui il ragionamento è condivisibile; tuttavia è decisamente azzardato considerarlo sistemico, come sbagliato è mutarne gli effetti fino ad affermare, con convinzione, che i sistemi di videosorveglianza impediscono i reati!

Orbene, prima di convincersi che l’istallazione di una telecamera possa bloccare le intenzioni di qualcuno dal compiere un atto illegale, o ancor di più, consumare un reato, andrebbe anzitutto analizzato il contesto ambientale, in modo da accertarsi quanto realmente una telecamera costituisca un deterrente idoneo a dissuadere chiunque dal compiere condotte illecite.
Infatti:

  • se volessimo proteggerci da atti vandalici per mano di soggetti socialmente marginalizzati, o da stranieri che vivono in clandestinità, l’effetto dissuasivo sarebbe pressoché nullo perché i marginalizzati solitamente non hanno consapevolezza del rischio corso, mentre gli stranieri irregolari raramente sono identificabili;
  • se volessimo proteggerci da atti compiuti da soggetti in stato d’ira (dove nessuno ha la piena facoltà e il controllo di sé), anche qui l’effetto deterrente sarebbe pressoché nullo;
  • se volessimo proteggerci dall’azione criminale di esperti professionisti, che agiscono con premeditazione, organizzati e pronti a tutto, l’effetto deterrente sarebbe decisamente nullo;
  • paradossalmente, quando vogliamo assicurarci un effetto dissuasivo utilizzando un impianto nascosto, l’effetto deterrente è pressoché inesistente.

Insomma, a ben vedere la videosorveglianza non ha poi dimostrato l’effetto deterrenza sperato.
Però registra! Ah beh, se registra abbiamo una prova?

Una convinzione, anche questa, fuorviante e che rischia di giocare brutti scherzi. Mi spiego meglio: la finalità che si pone cercando di utilizzare un file video che porti all’identificazione, presunta, dell’autore di un illecito/reato è dimostrare la genuinità delle immagini (manipolazione), ma soprattutto che esse sono resistenti a qualsivoglia contestazione in sede giudiziale (risoluzione video).

È bene ricordare come le telecamere e i filmati della videosorveglianza non rappresentano prove ma mezzi di prova, a determinate condizioni e nel pieno rispetto delle norme; in merito a ciò, l’art. 189 del codice di procedura penale inserisce la videosorveglianza nella sfera della prova atipica, quale mezzo non regolamentato ma utilizzabile in sede processuale perché ammessa, tra l’altro, dall’art. 234 del codice stesso.

Conclusioni

I sistemi e le tecnologie nel settore della videosorveglianza rappresentano una buona soluzione ai problemi di security, perché costituiscono un ottimo mezzo per l’analisi successiva di fatti o situazioni rischiose, con lo scopo di individuarne i responsabili o le corrette soluzioni future applicabili, impedendo il ripetersi dei fatti.

Ma la videosorveglianza non è la soluzione a tutte le vulnerabilità, men che meno uno strumento da utilizzare con superficialità, giacché molto spesso assumiamo come verità (sicurezza) qualcosa di illusorio (videosorveglianza).

Ho tentato di riassumere i due “capisaldi” della tesi in due precedenti articoli, consultabili ai seguenti link: https://www.safetysecuritymagazine.com/articoli/luso-dei-droni-nelle-attivita-sicurezza/https://www.safetysecuritymagazine.com/articoli/limpatto-privacy-dei-sistemi-videosorveglianza-nelle-attivita-pubblica-sicurezza-sicurezza-urbana-sicurezza-privata/.

Nei prossimi articoli analizzeremo le principali criticità rappresentate dall’ampliamento del ricorso alla videosorveglianza rispetto alla tutela della privacy dei cittadini.

Articolo a cura di Giovanni Villarosa

Articolo originariamente pubblicato su safetysecuritymagazine.com e ripubblicato con il permesso dell’autore.

Nuovi casi di peste polmonare in Cina

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In Cina, per la precisione a Pechino, due persone sono state ricoverate con la preoccupante diagnosi di peste polmonare, una rara variante della peste, altamente contagiosa e mortale se non trattata correttamente e rapidamente.

Il ricovero è avvenuto in un ospedale del centro di Pechino, riferiscono le autorità locali. Nella capitale cinese risiedono oltre 21 milioni di persone.

I pazienti provengono dalla provincia nord-occidentale della Mongolia Interna, hanno comunicato i funzionari distrettuali in una dichiarazione online, aggiungendo che “sono state implementate le pertinenti misure di prevenzione e controllo“.

Il governo di Pechino non ha risposto alle richieste di commenti da parte dell’agenzia AFP, ma l’OMS ha confermato che le autorità cinesi hanno comunicato i casi di peste.

La Commissione cinese per la salute sta attuando sforzi per contenere e trattare i casi identificati e aumentare la sorveglianza“, ha dichiarato Fabio Scano, coordinatore dell’OMS in Cina.

Scano ha dichiarato ad AFP che “il rischio di trasmissione della peste polmonare è per i contatti stretti e comprendiamo che questi vengono sottoposti a screening e gestiti“.

Secondo il sito Web dell’OMS, la peste polmonare a base polmonare è molto contagiosa e “può scatenare gravi epidemie attraverso il contatto da persona a persona e la presenza di goccioline nell’aria”.

I sintomi includono febbre, brividi, vomito e nausea.

Su Weibo, una piattaforma di social media simile a Twitter, i censori cinesi hanno cancellato l’hashtag “Pechino conferma che sta trattando i casi di peste” nel tentativo di tenere sotto controllo le discussioni – e il panico – intorno alla malattia.

L’influenza aviaria nell’anno del gallo… La peste suina nell’anno del maiale“, ha scritto un altro. “Il prossimo anno è l’anno del topo… La peste sta arrivando“.

Lo Yersinia pestis, il batterio responsabile dell’infezione, può essere trasmesso all’uomo dalle pulci trasportate da ratti infetti.

Nel 2014, un uomo è morto a causa della pestilenza nella provincia nord-occidentale del Gansu in Cina e le autorità misero in quarantena 151 persone.

Anche alle 30.000 persone che vivevano a Yumen, la città in cui morì l’uomo, fu impedito di Lasciare la città con posti di blocco piazzati tutto intorno al perimetro della città.

Secondo la National Health Commission della Cina, un totale di cinque persone sono morte per la peste tra il 2014 e settembre di quest’anno ma le notizie di stampa riportarono decessi per peste polmonare già nel 2009 quando a Ziketan, nella provincia cinese del Qinghai, al confine con il Tibet, furono registrati tre decessi e più di diecimila persone restano isolate in quarantena per scongiurare la diffusione del batterio.

Fonte: Agence France-Presse

Come inventarsi un lavoro partendo dai benefici derivanti dal piantare un albero da frutto sul proprio terreno

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Greg Peterson, inizia la sua attività di piantarei di frutteti nel 1999, cominciando con una coltivazione su un terreno di meno di un acro, vicino alla 16th Street e Bethany Home Road. Qui avvia una fattoria urbana che al momento conta circa 75 alberi.

La sua attività, che iniziò come un hobby, diventa ben presto una carriera. Peterson, consegue un master in Pianificazione Urbana e Ambientale presso la Arizona State University, e da almeno 15 anni tiene corsi su come piantare e curare gli alberi da frutto.

La sua compagnia, la The Urban Farm, insieme ad altri gruppi presenti nella città di Phoenix, sta sviluppando il concetto di alberi no profit, con l’dea non solo di piantare alberi, ma sopratutto quelli giusti nel luogo adatto.

Il beneficio degli alberi da frutto è piuttosto tangibile: sono una fonte di cibo naturale e non solo. Infatti, se piantati correttamente, non solo quelli da frutto ma tutte le tipologie di alberi, diventano utili e funzionali, ad esempio, mitigando la calura nel periodo estivo.

Piantare gli alberi nel periodo autunnale e invernale, a seconda della tipologia, consente loro di radicarsi più facilmente prima che arrivi il caldo secco estivo.

Gli alberi da frutto offrono benefici nutrizionali

La Trees Matter, si occupa di piantare alberi “da ombra” nei campus, nelle case private intorno alla metropolitana di Phoenix e nelle scuole pubbliche, inoltre, collabora con la Salt River Project. Il direttore esecutivo della Trees Matter, è Aimee Esposito, che anche nel suo cortile, si prende cura di un melograno e di un fico.

La Trees Matter, ospita seminari nell’ambito del programma chiamato “Urban Food Forest”.

Esposito, quest’anno, è rimasta particolarmente entusiasta per una nuova idea, un prontuario che indica gli alberi da frutto più comuni a Phoenix, divisi per stagione. Esposito, si domanda se “La gente sa che si produce cibo con gli alberi che piantiamo? E che diventano una risorsa da utilizzare? Il nostro lavoro sta anche in questo, e ricerchiamo modi per renderlo noto”.

Peterson, ritiene che gli alberi da frutto servano a far comprendere alle persone da dove proviene il loro cibo e che da essi si possono ottenere benefici nutrizionali. Secondo il Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti, la popolazione americana per circa tre quarti non mangia abbastanza frutta e verdura.

Peterson, crede che producendo frutta e verdura di qualità, le persone sarebbero stimolate a mangiarle e non solo: coltivando il proprio cibo si riesce ad avere il controllo sulla produzione e sui valori nutritivi”. 

Peterson, spiega che “il frutto, una volta raccolto, inizia e degradarsi dal punto di vista nutrizionale, se ad esempio raccogliamo una pesca, inizialmente è molto dura e non matura, ma staccata dall’albero inizia a degradarsi”.

Peterson, per la valle di Phoenix, raccomanda alcuni alberi da frutto, tra cui troviamo:

  • Il Cedro.
  • I frutti con nocciolo, come pesca, albicocca e prugna.
  • Il Melo.
  • L’Uva.
  • Il Gelso.
  • L’Olivo.
  • Il Melograno.
  • Il Mesquite.

La “The Urban Farm”, possiede un vivaio aperto in determinati giorni, da ottobre a febbraio.

Gli alberi sono il “sistema di raffreddamento della natura”

Gli alberi, oltre ad offrire cibo genuino e un fattore estetico per l’ambiente, sono in grado di abbassare le temperature attraverso l‘evapotraspirazione.

Questo processo consiste nel trasferimento di umidità dalla pianta all’atmosfera.

Esposito, descrive gli alberi come un sistema di raffreddamento naturale, alcuni alberi autoctoni come la mesquite, l’ironwoods e il palo verdes, hanno un’ulteriore vantaggio, essi sono in grado di resistere ai climi rigidi, caratteristici della valle di Phoenix.

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Rose Hammond, cura gli alberi presso la Urban Farm Nursery, a Phoenix, in Arizona. Nicole Neri, Nicole Neri / La Repubblica.

L’Agenzia per la protezione ambientale, ha creato un elenco di alberi e vegetazione utili per rinfrescare le isole di calore urbano. Infatti, secondo gli studi dell’EPA, l’evapotraspirazione, da sola o in combinazione dell’ombreggiatura della vegetazione, è in grado di diminuire il picco delle temperature estive dai 2 ai 9° F.
La Trees Matter, da alcuni mesi, ha ripreso il programma “Trees for Schools”, come parte dei suoi obiettivi educativi. L’associazione, lavora in collaborazione con le scuole per piantare gli alberi all’interno dei campus e spiega agli addetti alla manutenzione come potersi prendere cura di essi.

Esposito, spera di espandersi un giorno per poter cosi piantare gli alberi da frutto all’interno delle scuole.

Come acquistare o raccogliere un albero gratuito

La The Urban Farm, offre la possibilità ai residenti di acquistare gli alberi decidui, cioè quelli che perdono le foglie nei periodi freddi ogni anno, tra cui troviamo il melo, il pesco, il fico, l’albicocco e il prugno, e a partire da gennaio raccogliere terreno e pacciame. Inoltre, la The Urban Farm, offre lezioni e webinar sul posto.

La Trees Matter, e la Salt River Project, forniscono alberi “da ombra” adatti al deserto e resistenti alla siccità a titolo gratuito nel periodo autunnale e primaverile con delle clausole. Infatti, sul sito web della Trees Matter, si specifica che, per poter prendere gli alberi a titolo gratuito bisogna:

  • Essere un cliente della Salt River Project.
  • Possedere o avere in affitto una casa unifamiliare.
  • Avere la possibilità o ottenere il permesso di piantare sulla proprietà.
  • Partecipare a un seminario gratuito per imparare a piantare e curare un albero.

Purtroppo per le persone che vivono in appartamenti, condomini e bifamiliari, non ci sono i requisiti specifici per poter prendere gratuitamente un albero.

Gli alberi “da ombra”, possono raddoppiare la loro grandezza, offrendo cosi più cibo e maggior raffrescamento. I baccelli della mesquite, ad esempio, possono essere utilizzati per produrre farina, e a tal proposito, la Trees Matter, ospita una dimostrazione annuale per la raccolta di questo frutto e offre una colazione con pancake al mesquite.

Esposito chiarisce che “Le persone guardano gli alberi mesquiti e credono che producano solo baccelli e pacciame, invece sono un alimento base per molti animali selvatici e potrebbero esserlo anche per le persone”.

Esopianeti gonfiati

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I mondi alieni giganti noti come Gioviani caldi, con orbite prossime alle loro stelle ospiti, possono gonfiarsi come palloncini. Un nuovo studio ha provato la scoperta di un “Gioviano caldo” così gonfio da essere uno dei pianeti meno densi mai trovati.

Negli ultimi tre decenni, gli astronomi hanno confermato l’esistenza di oltre 4.000 pianeti extrasolari. Gli scienziati hanno scoperto che alcuni di questi esopianeti sono molto diversi da quelli presenti nel nostro sistema solare; per esempio, i ricercatori hanno trovato che molti Gioviani caldi sono giganti gassosi che orbitano attorno alle loro stelle più vicino di quanto Mercurio faccia con il Sole.

Ricerche portate avanti precedentemente hanno mostrato che un certo numero di Gioviani caldi sono insolitamente grande ma non particolarmente “pesanti”, questo a portato a ritenere che questi pianeti abbiano aumentato il loro volume a causa del calore infernale ricevuto per l’eccessiva vicinanza alle loro stelle.

Tuttavia, “non è ancora chiaro perché alcuni gioviani caldi abbiano aumentato cosi il loro volume“, ha detto a Space.com l’autore principale del nuovo studio Luigi Mancini, del Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg, in Germania.

Probabilmente esiste un elenco di circa 20 teorie sulla fisica nascosta dietro l’inflazione di questi pianeti, come effetti di marea o forti correnti elettriche“, ha spiegato il coautore dello studio Gaspar Bakos, un astrofisico dell’Università di Princeton. “Far espandere un pianeta così grande non è facile“.

Ora, gli scienziati hanno scoperto un Gioviano caldo particolare, “un pianeta a bassissima densità“, ha detto Bakos. “La speranza è di trovare più pianeti di questo tipo, per capire perché e come avviene il loro aumento di volume“.

I ricercatori hanno rivolto la loro attenzione a un pianeta in orbita attorno a WASP-174, una stella nana giallo-bianca con circa 1,25 volte la massa del nostro Sole e 1,35 volte il diametro del Sole. Questa stella di 2,2 miliardi di anni di età si trova a circa 1.325 anni luce dalla Terra.

Ricerche precedenti avevano individuato un pianeta gigante che orbitava a una distanza di appena il 5,5% di un’unità astronomica (che equivale alla distanza Terra – Sole di circa 150 milioni di chilometri) attorno a questa stella. Questo Gioviano caldo, chiamato WASP-174b, sembrava avere al massimo 1,3 volte la massa di Giove, ma le stime del suo diametro variavano dal 70% al 170% di quello di Giove.

Per capire come mai WASP-174b nonostante le dimensioni abbia una cosi bassa densità gli scienziati che hanno lavorato al nuovo studio hanno analizzato i dati raccolti da telescopi terrestri posti nell’emisfero australe, oltre a quelli del satellite Transit Exoplanet Survey (TESS).

Gli scienziati dopo aver analizzato i dati hanno fissato il diametro del WASP-174b a oltre 1,4 volte quello di Giove, il che significa che il pianeta ha un volume molto grande, con una densità di soli 0,135 grammi per centimetro cubo, circa della stessa densità del legno di balsa, quindi WASP-174b è tra i pianeti meno densi che siano mai stati catalogati.

La natura di WASP-174b potrebbe renderlo un argomento ideale per gli scienziati per analizzare un’atmosfera esoplanetaria, rispetto ai pianeti meno espansi che sono più piccoli e più difficili da vedere, ha aggiunto Bakos.

Ci saranno studi futuri che proveranno a rilevare quali molecole formano la sua atmosfera“, ha detto Bakos. “Meglio caratterizziamo questo tipo di pianeti, più dati avremo per creare una teoria coerente sul perché esistono“.

La ricerca è descritta in un documento che è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics e che è stato pubblicato sul server di prestampa arXiv.org il 18 settembre.

Fonte: Space.com

Marte: con il mistero del metano ancora irrisolto, Curiosity ne serve agli scienziati uno tutto nuovo: l’ossigeno

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Per la prima volta nella storia dell’esplorazione di Marte, gli scienziati hanno misurato i cambiamenti stagionali nei gas che che compongono l’atmosfera direttamente sopra la superficie del cratere Gale.

I risultati sono stati sconcertanti: l’ossigeno, il gas che quasi tutte le creature terrestri usano per respirare, si comporta in un modo che finora gli scienziati non sono in grado di spiegare attraverso alcun processo chimico noto.

Durante gli ultimi tre anni marziani (quasi sei anni terrestri), uno strumento nel laboratorio di chimica portatile Sample Analysis at Mars (SAM) posto all’interno del rover Curiosity della NASA ha “annusato” l’aria del cratere Gale e ne ha analizzato la composizione.

I risultati del SAM hanno confermato la composizione dell’atmosfera marziana in superficie: 95% in volume di anidride carbonica (CO2), 2,6% azoto molecolare (N2), 1,9% argon (Ar), 0,16% ossigeno molecolare (O2) e monossido di carbonio (CO) 0,06%. Hanno anche rivelato come le molecole nell’aria marziana si mescolano e circolano con i cambiamenti della pressione dell’aria durante tutto l’anno. Questi cambiamenti sono causati dalla CO2, infatti questo gas si congela sui poli in inverno, riducendo così la pressione dell’aria in tutto il pianeta. Quando la CO2 evapora nell’atmosfera, in primavera e in estate, la pressione dell’aria torna ad aumentare.

Nell’aria presente sul cratere Gale, gli scienziati hanno scoperto che l’azoto e l’argon seguono un modello stagionale prevedibile, crescendo e calando in concentrazione nel cratere Gale durante tutto l’anno rispetto alla quantità di CO2 presente nell’aria.

I ricercatori si aspettavano che l’ossigeno si comportasse nello stesso modo ma, durante la primavera e l’estate, la quantità di questo gas nell’aria è aumentata di ben il 30%, per poi tornare ai livelli previsti in autunno. Questo schema si ripete ogni primavera, anche se la quantità di ossigeno aggiunta all’atmosfera varia.

L’implicazione immediata di questa osservazione è che qualcosa lo produca o lo rilasci per poi riassorbirlo.

Quando ce ne siamo accorti, siamo rimasti allibiti“, ha dichiarato Sushil Atreya, professore di scienze climatiche e spaziali all’Università del Michigan ad Ann Arbor. Atreya è coautore di un articolo su questo argomento pubblicato il 12 novembre nel Journal of Geophysical Research: Planets.

Non appena gli scienziati hanno scoperto l’enigma dell’ossigeno, gli esperti di Marte si sono messi al lavoro cercando di spiegarlo. Prima hanno verificato due volte e tre volte l’accuratezza dello strumento del SAM utilizzato per misurare i gas: lo spettrometro di massa quadrupolo: Lo strumento è risultato essere perfettamente funzionante.

A questo punto, i ricercatori hanno considerato la possibilità che le molecole di CO2 o di acqua (H2O) potrebbero rilasciare ossigeno quando si scindono nell’atmosfera, portando a un aumento di breve durata. Ma occorrerebbe cinque volte più acqua sulla superficie di Marte per produrre tutto quell’ossigeno in più e la CO2 si scinde troppo lentamente per generarne così tanto in così poco tempo.

E come spiegare la successiva riduzione dell’ossigeno? Le radiazioni solari potrebbero aver scisso le molecole di ossigeno in due atomi che sono poi andati dispersi nello spazio?

No, hanno concluso gli scienziati, dal momento che occorrerebbero almeno 10 anni affinché quella quantità di ossigeno scompaia attraverso questo processo.

Stiamo cercando una spiegazione“, ha detto Melissa Trainer, scienziata planetaria presso il Goddard Space Flight Center della NASA a Greenbelt, nel Maryland, che ha guidato questa ricerca. “Il fatto che il comportamento dell’ossigeno non si ripeta nello stesso modo ad ogni stagione ci fa pensare che la questione non dipenda dalla dinamica atmosferica. Deve esserci una fonte chimica che non possiamo ancora spiegare“.

Per gli scienziati che studiano Marte, la storia dell’ossigeno è curiosamente simile a quella del metano. Il metano è costantemente nell’aria all’interno del Gale Crater in così piccole quantità (0,00000004% in media) che è appena percettibile anche dagli strumenti più sensibili su Marte. Tuttavia, è stato misurato dallo spettrometro laser sintonizzabile SAM. Lo strumento ha rivelato che la concentrazione del metano sale e scende stagionalmente, ma aumenta di oltre il 60% nei mesi estivi per ragioni ancora inspiegabili (In effetti, il metano aumenta anche in modo casuale e drammatico. Gli scienziati stanno cercando di capire perché).

Con le nuove scoperte sull’ossigeno, il team della Trainer si sta chiedendo se vi sia un collegamento tra ciò che provoca le variazioni stagionali del metano e ciò che le provoca per l’ossigeno.

Almeno occasionalmente, i due gas sembrano fluttuare in tandem.

Con il mistero del metano di Marte irrisolto, Curiosity serve agli scienziati uno nuovo: l'ossigeno
Credito: Melissa Trainer / Dan Gallagher / NASA Goddard

Stiamo iniziando a vedere questa allettante correlazione tra metano e ossigeno per buona parte dell’anno su Marte“, ha detto Atreya. “Penso che ci sia qualcosa. Non ho ancora le risposte. Nessuno lo sa“.

L’ossigeno e il metano possono essere prodotti sia biologicamente (dai microbi, ad esempio) che abioticamente (dalla chimica relativa all’acqua e alle rocce).

Gli scienziati stanno prendendo in considerazione tutte le opzioni, anche se non hanno prove convincenti di attività biologica su Marte.

Curiosity non è dotato di strumenti in grado di dire definitivamente se la fonte del metano o dell’ossigeno su Marte sia biologica o geologica. Gli scienziati si aspettano che le spiegazioni non biologiche siano più probabili e stanno lavorando per comprenderle appieno.

Il team di ricercatori ritiene che il suolo marziano possa essere l fonte dell’ossigeno extra primaverile. Dopotutto, è noto che il suolo di Marte è ricco di questo elemento, sotto forma di composti come il perossido di idrogeno e perclorati.

Un esperimento effettuato dai lander Viking ha mostrato decenni fa che il calore e l’umidità possono provocare il rilascio di ossigeno dal suolo marziano. Ma quell’esperimento ebbe luogo in condizioni molto diverse dall’ambiente esterno marziano, e non spiega la caduta improvvisa autunnale della concentrazione dell’ossigeno, tra gli altri problemi.

Non sono disponibili altre spiegazioni, per ora. Ad esempio, le radiazioni ad alta energia che colpiscono il suolo potrebbero indurre il rilascio di O2 nell’aria, ma ci vorrebbero un milione di anni per rilasciare abbastanza ossigeno dal suolo per giustificare la concentrazione misurata in una sola primavera, come riportano i ricercatori nel loro articolo.

Non siamo ancora stati in grado di elaborare un processo che produca la quantità di ossigeno rilevata, ma pensiamo che debba essere qualcosa nel suolo superficiale che cambia stagionalmente perché non ci sono abbastanza atomi di ossigeno disponibili nell’atmosfera per giustificare il comportamento che vediamo“, ha affermato Timothy McConnochie, assistente ricercatore presso l’Università del Maryland a College Park e un altro coautore del documento.

Con il mistero del metano di Marte irrisolto, Curiosity serve agli scienziati uno nuovo: l'ossigeno
Credito: Melissa Trainer / Dan Gallagher / NASA Goddard

Gli unici veicoli inviati su Marte dotati di strumenti in grado di misurare la composizione dell’aria marziana vicino al suolo furono i lander gemelli Viking della NASA, che scesero sul pianeta nel 1976.

Gli esperimenti dei due lander coprirono solo pochi giorni marziani, quindi non poterono rivelare modelli stagionali dei diversi gas. Le nuove misurazioni SAM sono le prime a farlo. Il team SAM continuerà a misurare i gas atmosferici in modo che gli scienziati possano raccogliere dati più dettagliati durante ogni stagione. Nel frattempo, Trainer e il suo team sperano che altri esperti di Marte lavoreranno per risolvere il mistero dell’ossigeno.

Fonte: Phys.org

UFO: quando gli alieni “disattivarono” i missili nucleari americani

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Sette anziani ufficiali dell’Aeronautica degli Stati Uniti in pensione decisero di convocare una conferenza stampa presso il National Press Club di Washington, era il 9 maggio del 2001. La conferenza venne ripresa dalla CNN.

Gli anziani ufficiali raccontarono una storia a dir poco stupefacente e improbabile: rivelarono di aver assistito a un attacco da parte di un UFO che rese temporaneamente non utilizzabili dei missili a testata nucleare USA durante gli anni della guerra fredda.

Il ricercatore UFO Robert Hastings commentò: “Chiunque sia a bordo di queste navi sta inviando un segnale a Washington e Mosca, avvisandoli che stiamo giocando con il fuoco. Il possesso o la minaccia nucleare potenzialmente minacciano la razza umana e l’integrità dell’affare planetario”.

Hastings non prestò servizio nell’esercito, ma lavorò con Robert Salas, un ufficiale addetto al lancio dei missili Minuteman dell’Aeronautica ora in pensione, per riunire un equipaggio di ex aviatori le cui storie per certi aspetti erano molto simili.

Nel periodo che va dal 1963 al 1980, tutti gli ufficiali coinvolti erano operativi nei siti missilistici nucleari statunitensi e tutti dichiararono che presunte macchine aliene dalle svariate forme, discoidali, sferiche, coniche, comparvero  davanti a loro o ai loro colleghi (Hastings ha affermato di non poter escludere che contatti alieni di cui non abbiamo sentito parlare siano in corso ancora oggi).

Alcuni di questi ufficiali in pensione hanno successivamente confessato di non aver visto le navi stesse, ma  di essere venuti a conoscenza di resoconti affidabili dei colleghi. Nella maggior parte dei casi, concordano i diversi racconti, quando questi presunti oggetti volanti alieni si avvicinarono, i missili smisero di rispondere ai controlli dei tecnici.

Gli alieni però, secondo Salas non spararono a nessun missile, si limitarono a sorvolare le basi per poi scomparire nella notte.

Avrebbero potuto fare molti più danni“, Confessò Salas quando gli venne chiesto come sapeva che gli alieni non avevano nessuna intenzione ostile.

Come la maggior parte dei veterani che raccontano le loro esperienze di incontri ravvicinati, Bruce Fenstermacher, capitano dell’Aeronautica in pensione, in realtà non intendeva  essere così sicuro e definitivo come Hastings e Salas riguardo ai presunti alieni.

Penso che ci stiano monitorando in modo da non confondere le cose“, disse, esprimendo fiducia negli alieni come guardiani interplanetari illuminati.

Charles Halt, un colonnello in pensione, non sapeva cosa gli sarebbe accaduto quando vide qualcosa che “sembrava un grande occhio, di colore rosso, che si muoveva attraverso gli alberi” in una foresta inglese vicino a una base di Suffolk chiamata Bentwaters. L’oggetto, improvvisamente, “esplose” frammentandosi in “cinque oggetti bianchi” che sfrecciarono nel cielo notturno senza torcergli un capello.

Robert Jamison era un giovane luogotenente che lavorava come ufficiale di controllo presso la base aeronautica di Malmstrom, nel Montana nel 1967. “Il mio compito principale era quello di puntare i missili nella giusta direzione“, disse, quasi per scherzo. Ma una notte di marzo, tutti e dieci i suoi missili improvvisamente andarono “no go” proprio mentre le voci di una avvistamento UFO circolavano a Malmstrom. Mentre di persona non ha mai visto alcun alieno, riferisce di avere, però, sentito parlare di un atterraggio UFO in un “profondo burrone” nelle vicinanze e intervistò una guardia di sicurezza che descrisse “due piccole luci rosse distanti“. L’incidente divenne famoso come l’avvistamento UFO del Montana.

Se diversi missili nucleari fossero andati davvero offline, sicuramente “ci sarebbe stato il panico“, spiegò un ex ufficiale missilistico dell’Aeronautica militare impegnato nella politica estera a Washington (che volle rimanere anonimo). Nella sua esperienza di lavoro attraverso oltre 300 allarmi nucleari, “al massimo” tre o quattro missili passarono allo stato “no-go”.

Durante la sua testimonianza aggiunse: “Se questi ragazzi dicono la verità, un intero gruppo di dieci missili “no go” sarebbe un evento piuttosto significativo dal punto di vista della dissuasione“.

Ma gli ufficiali presenti alla conferenza non affrontarono nessuna folla di scettici. Al Press Club si radunarono tanti sostenitori, circa 30 persone, congratulandosi con loro per il coraggio dimostrato. Un gentiluomo prese il microfono per confessare di essere stato “un contattato” a Santa Monica nel 1986 e nel 1997. “Posso affermare che questo fenomeno è reale“, disse. Un altro giornalista chiese al panel se fosse “il momento di ammettere che ci sono altri esseri spirituali nell’universo“.

Queste le dichiarazioni che Salas e altri ex ufficiali rilasciarono nella conferenza stampa di diciotto anni fa, una conferenza stampa che mirava a riconoscere i misteriosi “no go” dei missili a testata nucleare causati da esseri alieni come monito per le potenze nucleari, o forse per trasmettere una minaccia.

Ma i fatti hanno un’altra spiegazione, piaccia o meno gli UFO non erano i responsabili dei misteriosi malfunzionamento, misteriosi appunto e forse spiegabili più prosaicamente come guasti tecnici.

Il caso sollevato da Salas comunque creò un discreto clamore ma l’ex comandante della base di Malmstrom, Eric D. Carlson, rese nota la sua versione dei fatti, confermando il blocco dei missili, dovuto tuttavia ad un guasto tecnico e non all’apparizione di uno o più UFO.

Diversi ufologi ritennero l’intervento di Eric Carlson parte di un tentativo d’insabbiamento della vicenda. Una parola che leggiamo spesso in casi del genere, dove si segnalano misteriose presenze, si ipotizzano dietro di esse misteriose figure aliene e non potendo confermare quanto ipotizzato, l’ufologo di turno inciampa sul solito insabbiamento che tanto piace al complottismo imperante.

Fonte: Wired

Il DNA è solo una dei milioni di possibili molecole in grado di trasmettere le informazioni genetiche

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La vita codifica le informazioni nel DNA e nell’RNA, che sono molecole complesse finemente sintonizzate sulle loro funzioni. Ma esistono altri modi per archiviare informazioni molecolari ereditarie?

Alcuni scienziati credono che la vita che conosciamo non avrebbe potuto esistere prima che esistessero gli acidi nucleici, quindi capire come si sono formati sulla Terra primordiale è un obiettivo fondamentale della ricerca. Il ruolo centrale che rivestono gli acidi nucleici nel flusso di informazioni biologiche li rende anche obiettivi chiave per la ricerca farmaceutica e le molecole sintetiche che imitano gli acidi nucleici costituiscono la base di molti trattamenti per le malattie virali, incluso l’HIV.

Altri polimeri simili agli acidi nucleici sono noti, ma molto rimane sconosciuto riguardo alle possibili alternative per la conservazione delle informazioni ereditarie.

Utilizzando sofisticati metodi computazionali, gli scienziati del Earth-Life Science Institute (ELSI) del Tokyo Institute of Technology, il German Aerospace Center (DLR) e la Emory University hanno esplorato il “quartiere chimico” degli analoghi dell’acido nucleico.

Sorprendentemente, hanno trovato ben oltre un milione di varianti, suggerendo un vasto universo inesplorato di chimica rilevante per la farmacologia, la biochimica e gli sforzi per comprendere le origini della vita. Le molecole rivelate da questo studio potrebbero essere adattate per creare centinaia di milioni di potenziali farmaci.

Gli acidi nucleici sono stati identificati nel 19° secolo, ma la loro composizione, ruolo biologico e funzione non sono stati compresi dagli scienziati fino al 20° secolo. La scoperta della struttura a doppia elica del DNA nel 1953 rivelò una semplice spiegazione del funzionamento della biologia e dell’evoluzione.

Tutti gli esseri viventi sulla Terra conservano informazioni nel DNA, che consiste di due filamenti di polimeri avvolti l’uno attorno all’altro come un caduceo, con ogni filo che è il complemento dell’altro. Quando i fili vengono separati, la copia del complemento su uno dei modelli genera due copie dell’originale. Il polimero del DNA stesso è composto da una sequenza di “lettere“, le basi adenina (A), guanina (G), citosina (C) e timina (T), e gli organismi viventi hanno sviluppato modi per assicurarsi durante la copia del DNA che venga riprodotta quasi sempre la sequenza appropriata di lettere. La sequenza di basi viene copiata nell’RNA dalle proteine, che viene quindi tradotta in una sequenza proteica.

Fili del DNA

Occasionalmente, si verificano piccoli errori durante la copia del DNA e altri vengono talvolta introdotti da mutageni ambientali. Questi piccoli errori costituiscono la base per la selezione naturale: alcuni di questi errori danno luogo a sequenze che producono organismi più adatti, sebbene la maggior parte abbia scarso effetto e molti addirittura si dimostrano letali.

La capacità di nuove sequenze di consentire ai loro ospiti di sopravvivere meglio è il “cricchetto” che consente alla biologia di adattarsi quasi magicamente alle sfide proposte dai continui cambiamenti ambientali.

Questo è il motivo alla base del caleidoscopio delle forme biologiche che vediamo intorno a noi, dai batteri alle tigri, le informazioni memorizzate negli acidi nucleici consentono la “memoria” in biologia.

Ma il DNA e l’RNA sono l’unico modo per conservare queste informazioni? O sono forse solo il modo migliore, scoperto solo dopo milioni di anni di rimaneggiamenti evolutivi?

Esistono due tipi di acidi nucleici in biologia e forse 20 o 30 analoghi dell’acido nucleico che si legano efficacemente. Volevamo capire se ce n’è ancora uno da trovare o addirittura un milione in più. La risposta è che sembrano essercene molti, molti più di quanto ci aspettassimo ”, afferma il professor Jim Cleaves dell’ELSI.

Sebbene i biologi non li considerino organismi, anche i virus usano gli acidi nucleici, in particolare l’RNA, per conservare le loro informazioni ereditarie, sebbene alcuni virus utilizzino una variante del DNA. L’RNA differisce dal DNA per una singola base, ma l’RNA agisce secondo regole molecolari molto simili a quelle del DNA. La cosa notevole è che, tra l’incredibile varietà di organismi sulla Terra, queste due molecole sono essenzialmente le uniche che la biologia utilizza.

Biologi e chimici si sono chiesti da tempo perché sia così. Sono queste le uniche molecole che potrebbero svolgere questa funzione? E, se no, sono le migliori, cioè esistono altre molecole potrebbero svolgere questo ruolo ma la biologia le ha provate ed escluse durante l’evoluzione?

L’importanza centrale degli acidi nucleici in biologia li ha anche resi a lungo bersaglio di farmaci per i chimici. Se un farmaco può inibire la capacità di un organismo o di un virus di trasmettere la capacità di essere infettivi alla propria prole, può ucciderli efficacemente. Eliminare l’eredità di un organismo o di un virus è un ottimo modo per ucciderlo.

Gli organismi con grandi genomi, come gli esseri umani, devono essere molto precisi nel copiare le loro informazioni ereditarie e quindi i meccanismi evolutivi li hanno resi molto selettivi nel non usare precursori errati nel copiare i loro acidi nucleici.

Al contrario, i virus, che in genere hanno genomi molto più piccoli, sono molto più tolleranti nell’utilizzare molecole simili, ma leggermente diverse, per riprodursi. Ciò significa che sostanze chimiche che sono simili ai mattoni degli acidi nucleici, noti come nucleotidi, a volte possono compromettere la biochimica di un organismo più di altri.

La maggior parte dei farmaci antivirali utilizzati oggi sono analoghi nucleotidici (o nucleosidici, che sono molecole che differiscono per la rimozione di un gruppo fosfato), compresi quelli usati per trattare l’HIV, l’herpes e l’epatite virale. Anche molti importanti farmaci antitumorali sono anche analoghi nucleotidici o nucleosidici,

Cercare di comprendere la natura dell’ereditarietà e in che altro modo potrebbe funzionare, è solo la ricerca più semplice che si possa fare, ma ha anche alcune applicazioni pratiche davvero importanti“, afferma il co-autore Chris Butch, ex ELSI e ora professore all’università di Nanchino.

Poiché la maggior parte degli scienziati crede che la base della biologia sia l’informazione ereditaria, senza la quale la selezione naturale sarebbe impossibile, gli scienziati evoluzionisti che studiano le origini della vita si sono concentrati sui modi di produrre DNA o RNA da semplici sostanze chimiche che avrebbero potuto essersi prodotte spontaneamente sulla Terra primitiva.

La maggior parte degli scienziati pensa che l’RNA si sia evoluto prima del DNA, e per sottili ragioni chimiche che rendono il DNA molto più stabile dell’RNA, il DNA divenne il disco rigido della vita.

Il co-autore Dr. Jay Goodwin, un chimico della Emory University, afferma che “È davvero emozionante considerare il potenziale di sistemi genetici alternativi, basati su questi nucleosidi analoghi – che questi potrebbero essere emersi e si sono evoluti in ambienti diversi, forse anche su altri pianeti o lune all’interno del nostro sistema solare. Questi sistemi genetici alternativi potrebbero espandere la nostra concezione del “dogma centrale” della biologia in nuove direzioni evolutive, in risposta ad ambienti sempre più difficili qui sulla Terra“.

Esaminare tutte queste domande di base è difficile. D’altra parte, calcolare le molecole prima di produrle potrebbe potenzialmente far risparmiare molto tempo ai chimici. “Siamo rimasti sorpresi dal risultato di questo calcolo“, afferma il co-autore Dr. Markus Meringer, “sarebbe stato molto difficile stimare a priori che esistono più di un milione di acidi nucleici. Ora lo sappiamo e possiamo iniziare a esaminare alcuni di questi in laboratorio“.

È assolutamente affascinante pensare che usando le moderne tecniche computazionali potremmo imbatterci in nuovi farmaci quando cerchiamo molecole alternative al DNA e all’RNA in grado di immagazzinare informazioni ereditarie. Sono studi interdisciplinari come questo che rendono la scienza stimolante e divertente ma di grande impatto“, afferma il co-autore Dr. Pieter Burger, anch’esso della Emory University.

Riferimento: “One Among Millions: The Chemical Space of Nucleic-Like Acid-Molecules” di Henderson James Cleaves II, Christopher Butch, Pieter Buys Burger, Jay Goodwin e Markus Meringer, 9 settembre 2019, Journal of Chemical Information and Modeling.

Una bella foto del Gale Crater ripresa dal Butte Central su Marte da Curiosity

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Il rover marziano della NASA Curiosity ha pubblicato una straordinaria immagine in bianco e nero del Pianeta Rosso.

Pubblicata sul sito web della NASA Mars Exploration, la foto è stata scattata nel 2.574° giorno marziano di Curiosity, mentre continua a indagare sul Butte central, una struttura rocciosa che sorge nella parte centrale del cratere Gale, la cui età geologica è stata stimata tra 3,5 miliardi e 3,8 miliardi Anni.