domenica, Aprile 20, 2025
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La scoperta di Cnosso

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La ricerca della civiltà minoica, come fu chiamata, inizia con il solito Heinrich Schliemann (1822-1890), lo “scopritore” di Troia, che cercò di comprare un terreno, in un sito che pensava potesse essere la capitale del leggendario re Minosse. Il proprietario si rifiutò di venderglielo e Schliemann dovette arrendersi.
Circa venti anni dopo, nel 1900, maggiore fortuna arrise ad Arthur Evans (1851-1941) che riuscì a portare alla luce l’altra grande civiltà dell’Età del Bronzo nel Mar Egeo, quella minoica.
La città che scavò a partire dal 1900 oggi è nota con il nome di Cnosso. Evans era il prototipo del gentiluomo vittoriano. Un’immagine lo ritrae durante gli scavi vestito di un abito di lino bianco e di un casco coloniale. Figlio di uno studioso e amministratore del British Museum fu anche un valente numismatico per la cui attività nel 1902 fu premiato con la medaglia della Royal Numismatic Society.
Evans era alla ricerca della città di Cnosso fin da quando, alcuni anni prima, in un mercato di Atene, aveva acquistato dei piccoli oggetti chiamati galattiti che riportavano strane figure ed incisioni. Evans giunse alla conclusione che provenissero da Creta, dalla collina di Kefala, oggi nella periferia della città portuale di Candia (l’antica Iraklio), proprio il terreno che Schliemann aveva cercato inutilmente di comprare.
Evans ebbe maggiore fortuna: acquistò la collinetta e cominciò a scavare. Sotto il leggero pendio coperto da sottobosco e alberi, la sua squadra ben presto si imbatté nelle rovine di quello che Evans identificò come il palazzo da lui cercato. Consacrò il resto della propria carriera, e quasi tutto il patrimonio di famiglia, a scavare nel sito, pubblicare i risultati e ricostruirne i resti.
La civiltà che aveva edificato quel palazzo era più antica di quella dei micenei ed Evans erroneamente ritenne che i “minoici” (così li definì l’archeologo britannico) avessero conquistato i micenei. Il nome di questa civiltà fu attribuito da Evans, poiché ancora oggi non sappiamo né come si autodefinissero, né da dove provenissero. La civiltà minoica aveva prosperato tra la fine del III e l’inizio del II millennio a.e.v. poi un terribile terremoto colpì Cnosso verso il 1700 a.ev. ma i sopravvissuti si ripresero e ricostruirono il Palazzo di Cnosso.
A quanto pare intorno al 1350 a.e.v. i micenei della Grecia continentale invasero e assoggettarono questa regione, portando con sé un nuovo modo di vivere, una nuova scrittura e uno stile di vita più militarista che durò per circa un secolo e mezzo, finché tutto crollò poco dopo il 1200 a.e.v. misteriosamente.
Tra i molti misteri rimasti insoluti in questa sensazionale scoperta, l’assenza di fortificazioni murarie è uno dei più importanti. La civiltà minoica era fondata essenzialmente sul mare e probabilmente una flotta poderosa (per l’epoca) assicurava la sua sicurezza. Questo fatto era una possibile spiegazione all’assenza di mura intorno al Palazzo di Cnosso ed agli altri palazzi minori sparsi per l’isola di Creta. Anche considerando questa possibilità, però, non ci sono spiegazioni convincenti sull’assenza totale di opere difensive.
Qualcuno ha ipotizzato che Creta potesse essere governata dalla donne attraverso un matriarcato poco bellicoso che rendeva inutili la costruzione di mura.
E questo ci porta al secondo mistero. Non sappiamo se Cnosso fosse governato da un Re o da una Regina. Oppure da una casta sacerdotale. Nessuno dei ritrovamenti effettuati chiarisce questo aspetto.
Nel Palazzo di Cnosso sono stati ritrovate numerose pitture raffiguranti tori o giochi effettuati con questi animali. Pare dunque che i minoici si dedicassero al salto dei tori nel cortile centrale del Palazzo oltre a qualche rituale sempre legato agli stessi animali nel palazzo o nei dintorni. Questo a sua volta fa tornare in mente il mito greco di Teseo e del Minotauro che tutti conosciamo per averlo studiato a scuola.
L’improvvisa e repentina scomparsa di questa civiltà ha alimentato per secoli la leggenda di Atlantide, il misterioso continente inghiottito dalle acque.

Dacci oggi il nostro ragno quotidiano

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Paura e repulsione sono i sentimenti che in genere proviamo quando ci imbattiamo in una delle 46.738 specie che costituiscono le 112 famiglie di questi artropodi terrestri provvisti di cheliceri che hanno il corpo suddiviso in due segmenti, cefalotorace e opistosoma, e otto zampe.
Una paura molto spesso immotivata, i ragni in possesso di un veleno letale per l’uomo sono pochissimi e queste creature in genere sono tutt’altro che aggressive e mordono soltanto per difesa. La letteratura medica riporta poco più di cento morti come conseguenza di morsi di ragno in tutto il Ventesimo secolo, a fronte ad esempio dei circa 1.500 decessi attribuibili ai tentacoli urticanti e ai pungiglioni di meduse nello stesso periodo.
In Italia le principali specie velenose sono la vedova nera ed il ragno violino ma è più probabile morire per un incidente d’auto che per il morso di questi creature. In realtà i ragni sono animaletti benefici e molto utili. Uccidono più insetti loro che gli uccelli o gli insetticidi messi insieme. Ogni anno i ragni mangiano una quantità di insetti equivalente al peso di tutti e 7 miliardi di esseri umani viventi sul nostro bel pianeta.
Dagli anni ’70 del Ventesimo secolo gli agricoltori cinesi hanno imparato ad utilizzare numerose specie di ragni per proteggere le loro colture di cotone dagli insetti infestanti. Si è registrato nel tempo un abbattimento del 60% nell’utilizzo di insetticidi sui campi di cotone protetti da questi guardiani ad otto zampe.
Le tecniche di distruzione degli insetti differiscono in base alle specie ed alle latitudini, si passa dal Latrodectus hasselti, che in Australia è il terrore di grilli, drosofile e e scarafaggi alle Cladomelea longipes che è il nemico numero uno delle tarme.
I ragni del genere Dinopis sono invece cacciatori spietati di formiche, stendono una sorta di rete sulle loro prede, specialmente formiche, cosi da pescarle e divorarle in alto, in questo modo impediscono che le formiche possano lasciare tracce olfattive per i loro simili.
Naturalmente l’utilità di questi animaletti va oltre la loro funzione di drastica riduzione del numero degli insetti, in Cambogia ed in alcune zone meridionali del Venezuela pare che alcuni di essi, come le tarantole, siano delle autentiche prelibatezze gastronomiche, dopo essere stati opportunamente privati dei loro peli estremamente irritanti.
Inoltre proprio le tossine prodotte da molte specie di ragni sono oggetto di studi, sempre più promettenti, per il possibile uso medico di alcune di esse nel trattamento dell’aritmia cardiaca, la malattia di Alzheimer,l’ictus, ischemie, ed addirittura per la disfunzione erettile.
Insomma Fido deve stare attento al titolo di miglior amico dell’uomo, potrebbe avere un rivale inaspettato.

Le immagini del Polo Nord di Marte riprese da Mars Express

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I poli di Marte sono ricoperti da strati di ghiaccio impilati che si spostano leggermente in estensione e composizione durante tutto l’anno.
Durante l’estate, il polo è permanentemente coperto da spessi strati di ghiaccio d’acqua; durante l’inverno, le temperature precipitano al di sotto di -125 gradi Celsius e l’anidride carbonica inizia a precipitare e si accumula sotto forma di ghiaccio secco, creando uno strato addizionale più sottile spesso un paio di metri. L’inverno porta anche nuvole di biossido di carbonio, che possono oscurare le caratteristiche polari sottostanti e rendere difficile vederle chiaramente dall’orbita.
Questa visione della videocamera stereo ad alta risoluzione (HRSC) di Mars Express approfitta di una copertura nuvolosa molto ridotta e mostra la calotta polare settentrionale durante l’estate del 2006.
Il paesaggio è un increspato mix di colori, dai bianchi luminosi del ghiaccio d’acqua ai rossi scuri e ai marroni della polvere marziana, e mostra una serie di fenomeni interessanti.

Polo Nord di Marte

Questa immagine mostra la calotta di ghiaccio sul polo nord di Marte. L’area delimitata dalla striscia bianca indica l’area ripresa dalla telecamera stereo ad alta risoluzione Mars Express il 16 novembre 2006 durante l’orbita 3670. Credit: NASA MGS MOLA Science Team

Trogoli rosso scuro e color ocra sembrano tagliare la calotta di ghiaccio. Questi fanno parte di un più ampio sistema di depressioni che si snodano verso l’esterno dal centro del polo. Se visto su una scala più ampia, come nella mappa di contesto, questo modello diventa evidente: le depressioni increspate si curvano e si piegano e si dividono verso l’esterno in un orientamento antiorario, avvolgendosi attorno al polo e creando un motivo simile a strisce zebrate.
Si ritiene che queste caratteristiche a spirale si siano formate attraverso un mix di processi, tra i quali il più significativo è l’erosione del vento. Si pensa che i venti ruotino radialmente lontano dal centro del polo nord, spostandosi ciclicamente verso l’esterno per creare il modello a spirale che vediamo.
Questi venti, noti come venti catabatici, spostano verso il basso l’aria fredda e secca sotto la forza di gravità, spesso originando in aree elevate (come ghiacciai o altopiani innevati) e scorrendo verso il basso in aree più calde come valli e depressioni. mentre si muovono la forza di Coriolis li fa deviare da un percorso rettilineo a formare il modello a spirale di cui sopra che vediamo.
A sinistra del fotogramma sono visibili alcune correnti di nuvole estese, allineate perpendicolarmente a un paio di canali. Si pensa che siano causate da piccole tempeste locali che sollevano polvere nell’atmosfera marziana, erodendo scarpate e pendii mentre lo fanno e cambiando lentamente l’aspetto dei canali.
I poli sono aree particolarmente interessanti di Marte. Questi strati di ghiaccio contengono informazioni sul passato di Marte, in particolare riguardo a come il suo clima si è evoluto e cambiato negli ultimi milioni di anni: il ghiaccio si mescola con strati di polvere superficiale e si deposita sui poli nord e sud, fornendo un’istantanea delle caratteristiche del pianeta durante quel periodo storico.
Un obiettivo chiave di HRSC è quello di esplorare i vari fenomeni che si verificano nell’atmosfera marziana, come venti e tempeste, e i molti intriganti processi geologici che si svolgono attraverso – e sotto – la superficie del Pianeta Rosso.
La fotocamera ha restituito viste incredibilmente dettagliate di Marte per molti anni. Mars Express è arrivato sul Pianeta Rosso alla fine del 2003 e ha rivelato molte cose sul pianeta e sulla sua storia, inclusa la mappatura della sua superficie a risoluzioni di 10 m / pixel o superiori, esplorando quanto Marte potesse essere umido all’inizio della sua storia, caratterizzandone gli incredibili vulcani e le caratteristiche bizzarre della superficie, permettendo anche studi più profondi per determinare la struttura e i componenti della sua sottosuperficie.

Mars North Polar Ice Cap 3D

Questa immagine mostra parte della calotta di ghiaccio sul polo nord di Marte in 3D se vista con gli occhiali rosso-verde o rosso-blu. Questo anaglifo è stato derivato da dati ottenuti dai canali nadir e stereo della telecamera stereo ad alta risoluzione (HRSC) su Mars Express dell’ESA durante l’orbita di un’astronave 3670. Copre una parte della superficie marziana centrata a circa 244 ° E / 85 ° N. Il nord è in alto a destra. Credito: ESA / DLR / FU Berlino, CC BY-SA 3.0 IGO

Questo obiettivo di caratterizzare l’intero pianeta e la sua storia sarà proseguito e promosso dall’ESA-Roscosmos ExoMars Trace Gas Orbiter, arrivato su Marte nel 2016, e dal rover ExoMars Rosalind Franklin e dalla relativa piattaforma di scienza di superficie, che arriverà l’anno prossimo.
Questa immagine è stata pubblicata in coincidenza con la settima conferenza internazionale su Marte Polar Science and Exploration, che si è svolta in Argentina dal 13 al 17 gennaio 2020. Questa è l’ultima di una serie di conferenze internazionali e interdisciplinari per condividere le conoscenze sulle intriganti regioni polari del Pianeta Rosso.
Fonte: Scitech daily

La vita e le stelle di Goldilocks

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Abbiamo parlato spesso del concetto di zona riccioli d’oro, conosciuta anche come zona abitabile, ed è configurabile come quell’area orbitale intorno ad una stella nella quale è possibile che possa esistere acqua allo stato liquido sulla superficie di un pianeta.
Questa la consideriamo una condizione essenziale affinché la vita possa svilupparsi. Tuttavia questo non è l’unico criterio per valutare l’abitabilità di un pianeta e nemmeno le stelle sono tutte uguali così che possano stabilirsi dei criteri univoci. Grazie a decenni di ricerche sappiamo che ci sono anche le stelle di Goldilocks.
Le stelle non sono tutte uguali, ci sono stelle estremamente calde e luminose, le giganti blu e ci sono invece stelle più fredde e poco luminose, le nane rosse.
Noi siamo qui perché la nostra stella, il Sole si trova tra questi due estremi, un astro come il nostro prende il nome di nana gialla. Ma anche se noi siamo qui a contemplare l’universo sappiamo che nemmeno il Sole è una stella riccioli d’oro, cosi hanno affermato gli astronomi dell’Università di Villanova.
Le stelle che maggiormente si prestano a sostenere la vita, identificate nella tabella Herzsprung-Russell sono quelle di tipo K, stelle arancioni, più fredde del Sole e un po più calde delle nane rosse.
Queste stelle si trovano a metà strada, con proprietà intermedie tra le stelle come il nostro Sole, più luminose e meno longeve e le stelle nane rosse, più numerose e longeve.
Le stelle di tipo K, soprattutto quelle più calde, sono quelle dove si devono cercare pianeti abitabili e la loro abbondanza aumenta le probabilità di trovarli.
Questo hanno spiegato Edward Guinan e Scott Engle, astronomi dell’Università di Villanova, presentando le loro ricerche al 235° incontro dell’American Astronomical Society.
Ovviamente gli astronomi non cercano una seconda casa, ma “solo” se esistono pianeti in grado di ospitare la vita per capire se da qualche parte nell’universo c’è qualche forma di vita intelligente che si sta ponendo le nostre stesse domande.
La Vita è una strada molto battuta nell’universo o la Terra è un caso?
Guinan, Engle e altri hanno studiato una serie di stelle, dal tipo F fino a stelle di tipo G, negli ultravioletti e nei raggi X negli ultimi 30 anni come parte de programma “Sun in Time“. Di recente, hanno ampliato le loro ricerche per includere una raccolta di dati simili su stelle di tipo K, una ricerca che hanno chiamato Living with Goldilocks K-nwarfs. Queste stelle sembrano essere le più promettenti per supportare la vita.
Questi programmi hanno contribuito a valutare l’impatto dei raggi X e delle radiazioni ultraviolette delle stelle in questione sulla potenziale abitabilità dei loro pianeti.
La zona abitabile delle stelle di tipo K è più stretta ma queste stelle sono molto più comuni delle stelle come il nostro Sole e in un raggio di 100 anni luce dal nostro sistema solare ce ne sono un migliaio; inoltre, queste stelle restano nella sequenza principale molto più a lungo, e potrebbero quindi dare più tempo alla vita di nascere, evolvere e magari sviluppare forme di vita intelligente.
Il Sole ha circa 4,6 miliardi di anni e oggi è una stella di mezza età perché rimane nella sequenza principale circa 10 miliardi di anni. La vita con un certo grado di complessità è nata sul nostro pianeta circa 500 milioni di anni fa e si ritiene che la Terra rimarrà abitabile per un’altro miliardo di anni perché il Sole in questo lasso di tempo si espanderà diventando molto più luminoso. La zona abitabile quindi si allontanerà forse nell’orbita di Marte e se l’umanità o i suoi discendenti ci saranno ancora dovranno migrare.
Le nane rosse sono più comuni, ma bombardano lo spazio circostante di radiazioni intense e flare che potrebbero spogliare eventuali pianeti vicini delle loro atmosfere e quindi dell’acqua liquida. Al contrario, le stelle di tipo K hanno una vita molto lunga, compresa tra i 25 e gli 80 miliardi di anni, una finestra temporale immensa in cui la vita ha molto tempo per emergere e prosperare e inoltre sono stelle molto meno turbolente delle nane rosse.
Conosciamo già stelle di tipo K attorno alle quali ruotano pianeti, Kepler-442, Tau Ceti ed Epsilon Eridani ad esempio. Kepler-442 classificazione spettrale K5, ospita quello che è considerato uno dei migliori pianeti di Goldilocks, Kepler-442b, un pianeta roccioso che è poco più del doppio della massa terrestre, ha spiegato Guinan.
Ma ci sono altri parametri che potrebbero rendere la ricerca molto più complicata, un pianeta potrebbe essere solo in parte ospitato nella zona abitabile perché potrebbe compiere un’orbita fortemente ellittica, portandola ad estremi di temperatura incompatibili con la vita, almeno quella evoluta.
Anche la nostra galassia potrebbe avere una sua zona di abitabilità e se è cosi, noi ci siamo dentro, dovremmo solo guardare meglio nelle nostre vicinanze.
Fonte: Science Alert

Unicità di specie animali e vegetali del deserto del Succulent Karoo

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La talpa dorata di Van Zyl, è una creatura straordinaria, non presenta né occhi né orecchie visibili, e “nuota” appena sotto la superficie delle dune di sabbia sudafricane, per catturare insetti e lucertole anche di dimensioni pari al doppio delle proprie. Questa specie, in via d’estinzione, è stata trovata solo in due località, entrambe localizzate all’interno del deserto Succulent Karoo.
Questa è solo una delle rare creature presenti in questo luogo. Il deserto Succulent Karoo, si estende tra la Namibia e il Sudafrica, e secondo l’UNESCO, è il deserto più arido del pianeta, ma presenta comunque un’ampia biodiversità.
Talpa d'oro di Van Zyl.
La talpa dorata di Van Zyl.

Succulent Karoo, ospita oltre 6.300 specie di piante, migliaia delle quali non si trovano in nessun altra parte del mondo, tra cui sono presenti fiori selvatici che fioriscono in primavera. Il Succulent Karoo, presenta una rigogliosa natura selvatica, tra cui troviamo ben 70 specie differenti di scorpioni.
Purtroppo, come accade in altri luoghi, anche qui la natura è minacciata dalle azioni dell’uomo, e le cause sono il pascolo del bestiame, il bracconaggio di piante esotiche e l’estrazione della sabbia. La parte del deserto che rimane incontaminata è solo un quarto rispetto al totale, e gli ambientalisti stanno chiedendo maggiore tutela per questi luoghi cosi unici.

Cobus Theron, del Sudafrica Endangered Wildlife Trust (EWT), afferma che la situazione è urgente, dichiarando che “Questo luogo non è adeguatamente protetto, e l’obiettivo è cercare di ottenere un territorio legalmente protetto”.
Cobus Theron, spiega che è difficile far capire che un deserto cosi apparentemente inospitale è in realtà un prezioso ecosistema che necessità di protezione, “Questo ambiente che può apparire arido e molto resistente, in realtà è molto fragile”.

Il deserto che brulica di piante

Il Succulent Karoo, insolitamente per un deserto, è caratterizzato da una grande abbondanza di piante, tra cui troviamo un terzo delle specie presenti sulla Terra. Le piante grasse presenti nel deserto, tra cui ci sono le piante di cactus e di aloe, sono in grado di resistere ha temperature estremamente calde, grazie alla capacità di immagazzinare acqua all’interno degli steli e delle foglie. Le piante grasse, presentano meravigliosi fiori e riescono a fornire cibo e acqua, essenziali per la vita degli insetti presenti nel deserto, come scarafaggi, termiti e mosche.
482 Succulent Karoo map
Gli insetti, a loro volta sono una fonte di sostentamento per altri animali che si nutrono di essi, come gli scorpioni e le talpe dorate. Inoltre, nel Succulent Karoo, si possono trovare specie uniche, caratteristiche di questa regione, tra cui ci sono diversi tipi di tartarughe, uccelli e lucertole. Le piante presenti nel Succulent Karoo, in primavera fioriscono, riempiendosi di colori sgargianti, che ogni anno attirano moltissimi turisti, ma anche il tipo di attenzione sbagliata.

Bracconaggio e pascolo eccessivo

Quando senti la parola bracconaggio, vengono in mente gli animali selvatici come i rinoceronti e le tigri, ma in realtà esiste un crescente mercato illegale di piante grasse, che opera nella regione di Karoo, secondo quanto affermato da Marienne De Villiers, ecologa dell’organizzazione per la conservazione del governo sudafricano, CapeNature. 
I funzionari di CapeNature, nel 2015, hanno arrestato una coppia che aveva raccolto illegalmente oltre 2.200 piante, nei pressi della riserva naturale di Knersvlakte. Inoltre, secondo quanto afferma De Villiers, anche gli scorpioni, i ragni e alcune specie di lucertole sono vittime di bracconaggio in questa regione.
Wildflowers presso il West Coast National Park vicino alla città di Langebaan, a circa 100 km a nord di Cape Town, durante l'esposizione annuale di fiori selvatici, nel 2015.
Fiori selvatici presso il West Coast National Park, vicino alla città di Langebaan, a circa 100 km a nord di Cape Town, durante l’esposizione annuale dei fiori selvatici, nel 2015.

De Villiers, afferma che il Succulent Karoo, soffre anche a causa dei pascoli di bestiame, tra cui troviamo gli struzzi, le pecore e i bovini, che provocano seri danni al paesaggio desertico, specialmente durante il periodo di siccità. Nelle regioni caratterizzate da scarsità di pioggia, l’ambiente è delicato e lo si può danneggiare facilmente, e può essere ripristinato solo dopo lunghi periodi di recupero. In alcune regioni del Succulent Karoo, sono avvenute le estrazioni di uranio, diamanti e di sabbia, creando delle profonde cicatrici al paesaggio.

Identificazione della fauna selvatica

Per gli ecologi, che lavorano per proteggere le creature in via d’estinzione presenti nel Karoo, la sfida maggiore è identificare il luogo esatto dove vivono nel deserto. Ian Little, ricercatore presso la Cape Town University e membro dell’EWT, sta cercando, con estrema difficoltà, di proteggere le talpe dorate di Van Zyl, visto che sono difficili da rintracciare. Le talpe dorate di Van Zyl, secondo quanto asserito da Little, “Anche se cammini lentamente, loro sono in grado di sentirti arrivare da molto lontano, così da sparire sotto la sabbia in profondità. Inoltre, si muovono molto velocemente, rendendo difficile la cattura. L’unico modo per prenderle è impedirgli la fuga creando un solco nella sabbia, evitando cosi di fargli percorrere lunghe distanze”. 
I droni potrebbero essere la soluzione ideale. Un team di scienziati, ha utilizzato i droni con successo, nel vicino deserto di Nama Karoo, per rintracciare i conigli fluviali. Questa specie è in pericolo d’estinzione a causa della caccia e della perdita del suo habitat, e si riproduce al massimo due volte l’anno.
I fiori di campo fioriscono a Namaqualand, nel succulento Karoo.
I fiori di campo fioriscono a Namaqualand, nel Succulent Karoo.

Il team di scienziati, dell’Università John Moores di Liverpool, ha collaborato con l’EWT, e con l’ausilio dei droni e l’esperienza di ecologi e astrofisici, hanno provato a rintracciare i conigli.
I droni, muniti di sensori ad infrarossi, sono stati inviati nel deserto, e attraverso un algoritmo di apprendimento automatico, sono riusciti ad identificare le specie che venivano registrate. il team, grazie a questa tecnologia, ha avvistato cinque esemplari di conigli, fatto inaudito, visto il carattere timido della specie.
La tecnologia utilizzata per rintracciare i conigli, però, forse non sarà efficace per trovare le talpe dorate del Succulent Karoo. Questi animali emergono dalla sabbia per cacciare insetti all’alba e al tramonto, inoltre le temperature del deserto di notte precipitano, quindi i droni dovrebbero avere un attento tempismo per consentire agli scienziati di rintracciare le talpe, attraverso il rilevamento del calore corporeo maggiore rispetto alle sabbie più fresche. Little, dichiara che, “Il prossimo passo, una volta che sapremo in quale zona sono presenti le talpe dorate, sarà quello di proteggere formalmente le aree”.

I guardiani del deserto

Secondo quanto dichiara l’Environmental Literacy Council, un’organizzazione internazionale senza scopo di lucro, solo il 3% del Succulent Karoo è protetto. Il CapeNature, sta lavorando per cambiare le cose. CapeNature, nel 2002, ha creato un programma di gestione della biodiversità, che cerca di proteggere le aree non acquistandole, vista la mancanza di fondi, ma coinvolgendo proprietari terrieri e agricoltori nel creare paradisi faunistici nei loro terreni.

Villiers, assieme ai suoi colleghi, è stato in grado di scoprire quali erano le aree di proprietà privata importanti per la biodiversità. Successivamente, hanno convinto i proprietari terrieri a attivare un agricoltura ecosostenibile e creare nuove riserve naturali all’interno dei loro terreni. Villiers, dichiara che, “Inizialmente, eravamo degli estranei per queste persone, ma ora invece si è creato un meraviglioso gruppo con i proprietari terrieri, che si stanno impegnando nella conservazione del territorio“.
Grazie a questi progetti, nel corso del tempo, si sono riuscite a creare aree cuscinetto e corridoi faunistici in tutto il Capo Occidentale, contribuendo alla protezione del Succulent Karoo, e delle sue specie. Villiers, dichiara che “Queste aree, possono essere tutelate, solo se le persone si interessano a proteggere questi paesaggi incredibilmente belli”. 
Villiers, spera che il programma Stewardship, riuscirà ad istruire le persone sul valore che il deserto ha per gli anni a venire, “C’è ancora molto da scoprire sul deserto del Succulent Karoo, e probabilmente ci saranno molte altre specie che aspettano solo di essere scoperte”.

Ligo potrebbe avere rilevato una fusione di buchi neri primordiali

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In quasi cinque anni dalla loro prima rilevazione diretta, le onde gravitazionali sono diventate uno degli argomenti più discussi in astronomia. Attraverso strutture come il Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory (LIGO), i ricercatori hanno utilizzato queste increspature dello spazio-tempo principalmente per studiare il funzionamento interno della fusione dei buchi neri, ma LIGO ha anche rilevato onde gravitazionali da altri tipi di incidenti celesti, come collisioni di resti stellari ultradensi chiamati stelle di neutroni. A volte, tuttavia, LIGO rileva onde gravitazionali che lasciano gli astronomi perplessi, come nel caso di GW190425, un evento rilevato lo scorso aprile che è stato recentemente attribuito a una fusione di stelle di neutroni.
Il fatto che ha lasciato perplessi gli astronomi è che i dati di LIGO suggeriscono che questa coppia di stelle di neutroni era sostanzialmente in sovrappeso, collettivamente, circa 3,4 volte la massa del sole, che è mezza massa solare più pesante dei binari a stella di neutroni più massicci mai visti. “È il più pesante binario di stelle di neutroni conosciuto, e con un margine piuttosto ampio“, ha affermato Chad Hanna, un astrofisico della Pennsylvania State University che caccia le onde gravitazionali.
Alcuni teorici sospettano che GW190425 non sia nato dalla collisione di stelle di neutroni, ma piuttosto qualcosa di molto più esotico: una fusione di due buchi neri primordiali (PBH), oggetti mai visti prima che sono considerati possibili candidati come causa dell’esistenza della materia oscura — qualcosa di ancora non identificato che costituisce la maggior parte della materia dell’universo.
Secondo la teoria, i buchi neri primordiali si sarebbero formati dalle fluttuazioni di densità nell’universo primordiale e potrebbero ancora esistere oggi; potrebbero essere due buchi neri primordiali la causa della discrepanza di massa identificata nelle recenti osservazioni di LIGO.
Quasi mezzo secolo fa, il cosmologo Stephen Hawking propose che i PBH potessero essere completamente formati da regioni dell’universo infantile particolarmente dense di materia. Da allora, la popolarità dell’idea tra astrofisici e cosmologi è cresciuta e calata di anno in anno. Oggi, in assenza di prove dirette della loro esistenza, molti ricercatori considerano i PBH un’ipotesi di ultima istanza, da prendere in considerazione solo quando nessun altro scenario si adatta facilmente alle osservazioni. La possibilità che i PBH siano reali e diffusi in tutto l’universo non può ancora essere respinta.
I PBH sono candidati accattivanti per la materia oscura per diversi motivi, ma il più importante è che, essendo buchi neri, sono piuttosto scuri e tuttavia mantengono una forte attrazione gravitazionale. Nonostante ciò, Hanna afferma che se i PBH fossero abbastanza abbondanti da rendere conto di tutta la materia oscura dell’universo, i sondaggi astronomici avrebbero dovuto rilevarli facilmente. Di conseguenza, aggiunge, i PBH possono costituire solo una piccola parte della materia oscura – ammesso che esistano.
Non tutti sono d’accordo. “I buchi neri primordiali possono comprendere tutta la materia oscura“, ha detto Juan García-Bellido, un cosmologo teorico dell’Università Autonoma di Madrid. “Il trucco“, aggiunge, “è che gli oggetti antichi mostrino una serie di masse anziché una singola dimensione definitiva”.
Se i PBH rientrano in una gamma da mille volte meno massiccia del Sole a un miliardo di volte più grande, potrebbero costituire tutta la materia oscura dell’universo. “Tutti i vincoli pubblicati che affermano di escludere i buchi neri primordiali riguardo la ricerca della materia oscura presumono che questi PBH esistano in uno spettro monocromatico o a massa singola e siano uniformemente distribuiti nello spazio“, afferma García-Bellido. Affinché si manifestino così ampie gamme di massa, i PBH dovrebbero raggrupparsi in gruppi compatti in cui potrebbero occasionalmente scontrarsi, fondersi e ingrandirsi.
Poiché i PBH sarebbero stati creati poco dopo il big bang, inizialmente avrebbero potuto facilmente collegarsi tra loro. L’universo primordiale era un posto molto più piccolo di quello che è oggi dopo un’espansione durata quasi 14 miliardi di anni, rendendo più facile per i PBH incontrarsi e fondersi.
Man mano che l’universo continuava ad espandersi e emergevano le prime stelle e galassie, queste fusioni sarebbero diventate sempre più rare. Quindi, mentre è possibile che LIGO abbia osservato la fusione di PBH, in realtà è improbabile, secondo l’astronoma Katerina Chatziioannou, membro del team LIGO presso il Flatiron Institute di New York City e co-autore di uno studio che apparirà su Astrophysical Journal Letters che discute di GW190425 come prodotto della collisione di stelle di neutroni.
Lo scorso aprile, in allerta per la rilevazione da parte di LIGO del GW190425, i telescopi di tutto il mondo hanno cercato un segnale elettromagnetico corrispondente che ci si aspetterebbe in genere dalla collisione esplosiva di due stelle di neutroni. Ma non è stato rilevato alcun segnale del genere, proprio come dovrebbe essere nel caso della fusione di due buchi neri primordiali. “Non ci aspettiamo segnali luminosi dalla fusione di due buchi neri primordiali“, ha spiegato Chatziioannou.
Anche così“, aggiunge però, “la mancanza di luce non esclude le stelle di neutroni. Le massicce stelle di neutroni avrebbero potuto avere una fusione relativamente placida, collassando direttamente in un buco nero prima di innescare qualsiasi fuoco d’artificio celeste. È anche possibile che la posizione dell’evento nel cielo possa essere da qualche parte che i telescopi terrestri non potrebbero sondare, come in una regione dietro il sole”.
Le più recenti osservazioni forniscono solo accenni allettanti sul fatto che i PBH potrebbero essere là fuori, occasionalmente riuniti nell’oscurità cosmica. Una firma più chiara verrebbe da una coppia di buchi neri in cui ognuno pesa meno del sole. “Se trovassimo un buco nero con una massa inferiore a quella del Sole, questo deriverebbe da un meccanismo che nessuno ha predetto, astrofisicamente, al di fuori di un buco nero primordiale“, chiarisce Hanna. García-Bellido concorda. “La pistola fumante sarebbe la scoperta di un buco nero con meno di una massa solare o un buco nero con una massa maggiore di 50 [volte il Sole]“, dice.
Sebbene le osservazioni di LIGO possano segnare il primo rilevamento di PBH, sia Chatziioannou che Hanna concordano sul fatto che è più probabile che le onde gravitazionali provengano semplicemente da stelle di neutroni in sovrappeso.
Esistono già teorie per la formazione di tali ingombranti stelle di neutroni e non richiedono scenari speculativi dall’alba dell’universo. “È decisamente molto meno probabile che [le fonti di questi eventi] siano buchi neri primordiali rispetto alle sole stelle di neutroni che sono più pesanti di ciò che vediamo nella galassia“, afferma Chatziioannou. “Non è impossibile; è solo meno probabile“.
Sebbene Hanna definisca “debole” il caso di GW190425 come binario di buchi neri primordiali, García-Bellido rimane più ottimista. “Tutti gli eventi LIGO potrebbero essere dovuti a buchi neri primordiali“, afferma. “Solo il tempo, e più dati, lo diranno“.
Fonte: Scientific American

Trovati in un meteorite granuli di polvere interstellare più vecchi del sistema solare

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È proprio il caso di dire “Polvere di Stelle”.
All’interno di un meteorite, gli scienziati hanno trovato minuscoli granuli minerali più vecchi del Sole e del sistema solare. Alcuni di questi “grani presolari“, hanno scoperto i ricercatori, hanno tra i cinque ed i sette miliardi di anni, il che li rende in assoluto i più antichi esempi di materiale solido conosciuti sulla Terra.
Inizialmente questi grani di polvere si sono formati nello spazio interstellare dal materiale espulso da stelle mature che poi si è condensato in polvere. I ricercatori che li hanno identificati pensano che, molto probabilmente, questa “polvere” si sia formata a seguito di un boom della formazione stellare che la Via Lattea ha vissuto circa sette miliardi di anni fa.
Se confermata, questa scoperta dimostrerebbe che i ricercatori possono studiare meteoriti per comprendere meglio la storia della formazione stellare nella nostra galassia.
Quando le stelle da piccole a medie (da circa 0,5 a 5 volte la massa del Sole) si avvicinano alla fine della loro vita, si espandono in stelle giganti rosse ed espellono il loro strato esterno. Ciò si traduce in nuvole di materiale in espansione che gli astronomi chiamano nebulose planetarie.
Nel tempo, il materiale di queste nebulose planetarie si raffredda e si condensa in granelli di polvere e minerali. Alcuni di questi grani vengono quindi incorporati in masse di gas interstellare, contribuendo a formare nuove generazioni di stelle, pianeti, asteroidi e così via.
Qualsiasi grano presolare esistente sul nostro pianeta prima della formazione della Terra è ormai scomparso da tempo, modificato dai processi geologici avvenuti nel corso di 4,5 miliardi di anni. Ma i meteoriti che cadono sulla Terra sono una specie di capsule temporali cosmiche, conservando il materiale primordiale da cui si è formato il sistema solare.
Da quando i ricercatori hanno iniziato a trovare grani presolari nei meteoriti nel 1987, hanno studiato queste antiche reliquie per scoprire quanti anni hanno e da dove provengono.
Ora, un team di ricercatori guidato dal cosmologo Philipp Heck del Field Museum di Chicago ha analizzato 50 granuli presolari contenenti un minerale chiamato carburo di silicio. I campioni provenivano dal famoso meteorite di Murchison, caduto sulla Terra in Australia nel 1969.
Minuscole particelle energetiche chiamate raggi cosmici attraversano lo spazio e possono colpire minerali all’interno di rocce come minuscoli proiettili spaziali. Questo, a sua volta, provoca la frammentazione di alcuni atomi di silicio e carbonio presenti in queste rocce in altri elementi come l’elio e il neon.
Misurando quanti di questi minerali del meteorite di Murchison sono stati trasformati in elio e neon, i ricercatori sono stati in grado di determinare per quanto tempo sono stati esposti ai raggi cosmici e, quindi, quanti anni hanno.
È risultato che l’età dei granuli di carburo di silicio sottoposti a studio variava approssimativamente dall’età del Sole fino a circa 7,6 miliardi di anni. La maggior parte dei grani di polvere interstellare sono risultati essere da 4 a 300 milioni di anni più vecchi del Sole.
Heck e il suo team pensano che l’abbondanza di questi grani presolari relativamente giovani potrebbe essere un’ulteriore prova del fatto che la Via Lattea ha subito un periodo di intensa formazione stellare circa sette miliardi di anni fa.
Attraverso altri metodi, gli astronomi hanno scoperto che la Via Lattea probabilmente ha sperimentato più formazione di stelle rispetto alla media di circa sette miliardi di anni fa.
Quindi, se si tiene conto del tempo impiegato da queste stelle per evolversi in giganti rosse e nebulose planetarie, dovrebbe risultare una maggiore quantità di granelli di polvere che si sono formati solo milioni di anni prima che il sole si formasse, ha spiegato Heck.
Sono ancora entusiasta all’idea di trovare una roccia, estrarne dei minerali e imparare qualcosa sulla storia della nostra galassia“, ha detto.
I ricercatori hanno dettagliato i loro risultati il 13 gennaio negli Atti della National Academy of Sciences.
Altra fonte: Dokeo

Hubble ha scoperto piccoli agglomerati di materia oscura

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In parole povere, si ritiene che la Materia Oscura non solo rappresenti la maggior parte della massa dell’Universo, ma funga anche da impalcatura su cui sono costruite le galassie. Ma per trovare prove di questa massa misteriosa e invisibile, gli scienziati sono costretti a fare affidamento su metodi indiretti simili a quelli usati per studiare i buchi neri. In sostanza, misurano come la presenza della Materia Oscura influenzi le stelle e le galassie nelle sue vicinanze.
Ad oggi, gli astronomi sono riusciti a trovare prove di ammassi di materia oscura attorno a galassie medie e grandi. Utilizzando i dati del telescopio spaziale Hubble e una nuova tecnica di osservazione, un team di astronomi dell’UCLA e del JPL della NASA ha scoperto che la materia oscura può formare grumi molto più piccoli di quanto si pensasse in precedenza. Questi risultati sono stati presentati al 235 ° incontro dell’American Astronomical Society (AAS).
La teoria più ampiamente accettata sulla materia oscura afferma che non è costituita dalle stesse cose della materia barionica (nota anche come materia normale o “luminosa”), ovvero protoni, neutroni ed elettroni. La Materia Oscure, invece, si pensa che sia costituita da una sorta di particella subatomica sconosciuta che interagisce con la materia normale solo attraverso la gravità, la più debole delle forze fondamentali – le altre sono forze l’elettromagnetica, la forza nucleare forte e la forza nuckeare debole.

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Una simulazione al computer della distribuzione della materia nell’universo. Le regioni arancioni ospitano galassie; le strutture blu sono gas e materia oscura. Credito: collaborazione TNG

Un’altra teoria ampiamente accettata afferma che la materia oscura si muove lentamente rispetto ad altri tipi di particelle e quindi è soggetta a aggregazione. In conformità con questa idea, l’Universo dovrebbe contenere una vasta gamma di concentrazioni di materia oscura, che vanno da piccole a grandi. Tuttavia, fino ad ora, non erano mai state osservate piccole concentrazioni.
Utilizzando i dati ottenuti da Wide Field Camera 3 (WFC3) di Hubble, il team di ricerca ha cercato di trovare prove di questi piccoli aggregati misurando la luce dai nuclei luminosi di otto galassie distanti (alias quasars) per vedere come viene influenzata mentre viaggia attraverso lo spazio. Questa tecnica, che viene comunemente utilizzata dagli astronomi per studiare galassie distanti, ammassi stellari e persino esopianeti, è nota come lente gravitazionale.
Originariamente prevista dalla Teoria della relatività generale di Einstein, questa tecnica si basa sulla deformazione della luce emessa da oggetti lontani provocata dalla forza gravitazionale di grandi oggetti, ad esempio galassia, che vi si trovano davanti.

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Immagini di Hubble di un quasar di sfondo e della sua galassia ospite che circonda il nucleo centrale di una galassia massiccia in primo piano. Credito: NASA / ESA / A. Nierenberg (JPL) / T. Treu (UCLA)

Come sperato, le immagini di Hubble hanno mostrato che la luce proveniente da questi otto quasar era soggetta a un effetto di lente coerente con la presenza di piccoli ciuffi lungo la linea di vista del telescopio e dentro e intorno alle galassie di lenti in primo piano. Gli otto quasar e le galassie erano allineati in modo così preciso che l’effetto di deformazione produceva quattro immagini distorte di ciascun quasar.
Usando elaborati programmi di calcolo e intense tecniche di ricostruzione, il team ha quindi confrontato il livello di distorsione con le previsioni di come apparivano i quasar senza l’influenza della Materia Oscura. Queste misurazioni sono state anche utilizzate per calcolare le masse delle concentrazioni di materia oscura, il che indicava che erano da 1 / 10.000 a 1 / 100.000 volte la massa dell’alone della Materia Oscura della Via Lattea.
Oltre ad essere la prima volta che sono state osservate piccole concentrazioni, i risultati del team confermano una delle previsioni fondamentali della teoria della “materia oscura fredda“. Questa teoria postula che, poiché la materia oscura si muove lentamente (“freddo”), è in grado di formare strutture che vanno da concentrazioni minuscole a gigantesche, grandi anche diverse volte la massa della Via Lattea.
Questa teoria afferma anche che tutte le galassie nell’Universo si sono formate all’interno di nuvole di Materia Oscura note come “aloni” e si sono incorporate in esse. Al posto dell’evidenza di piccoli gruppi, alcuni ricercatori hanno suggerito che la materia oscura potrebbe effettivamente essere “calda” – cioè in rapido movimento – e quindi troppo veloce per formare concentrazioni più piccole.

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Distribuzione della materia oscura quando l’Universo aveva circa 3 miliardi di anni, mostrando la distribuzione continua di particelle di materia oscura (a sinistra) e aloni di materia oscura (a destra). Credito: VIRGO Consortium / Alexandre Amblard / ESA

Tuttavia, le nuove osservazioni offrono una prova definitiva che la teoria della materia oscura fredda e il modello cosmologico che supporta – il modello Lambda Cold Dark Matter (? CDM) – è corretta. Come ha spiegato il membro del team Prof. Tommaso Treu dell’Università della California, Los Angeles (UCLA), queste ultime osservazioni di Hubble forniscono nuove intuizioni sulla natura della materia oscura e su come si comporta.
Abbiamo fatto un test osservazionale molto convincente per il modello della materia oscura fredda ed è stato superato a pieni voti“, ha detto. “È incredibile come dopo quasi 30 anni di attività, Hubble consenta viste all’avanguardia sulla fisica fondamentale e sulla natura dell’universo che non avevamo nemmeno immaginato quando fu lanciato il telescopio“.
Anna Nierenberg, una ricercatrice del Jet Propulsion Laboratory della NASA che ha condotto il sondaggio Hubble, ha spiegato ulteriormente:
“La ricerca di concentrazioni di materia oscura prive di stelle si è rivelata impegnativa. Il team di ricerca di Hubble, tuttavia, ha usato una tecnica in cui non era necessario cercare l’influenza gravitazionale delle stelle come traccianti della materia oscura. Il team ha preso di mira otto “lampioni” cosmici potenti e distanti, chiamati quasar (regioni attorno a buchi neri attivi che emettono enormi quantità di luce). Gli astronomi hanno misurato il modo in cui la luce emessa dall’ossigeno e dal gas al neon in orbita attorno a ciascuno dei buchi neri dei quasar è deformata dalla gravità di un’enorme galassia in primo piano, che agisce come una lente d’ingrandimento”.

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Immagine dall’Universo Oscuro, che mostra la distribuzione della materia oscura nell’universo. Credito: AMNH

Il numero di piccole strutture rilevate nello studio offre più indizi sulla natura delle particelle di materia oscura poiché le loro proprietà influenzerebbero il numero di grumi formati. Tuttavia, il tipo di particella di cui è composta la materia oscura rimane per il momento un mistero. Fortunatamente, lo spiegamento di telescopi spaziali di prossima generazione nel prossimo futuro dovrebbe aiutare in tal senso.
Questi includono il James Webb Space Telescope (JWST) e il Wide Field Infrared Survey Telescope (WFIRST), entrambi osservatori a infrarossi che dovrebbero salire su questo decennio. Con la loro sofisticata ottica, spettrometri, ampio campo visivo e alta risoluzione, questi telescopi saranno in grado di osservare intere regioni dello spazio colpite da enormi galassie, ammassi di galassie e i loro rispettivi aloni.
Questo dovrebbe aiutare gli astronomi a determinare la vera natura della materia oscura e come appaiono le sue particelle costituenti. Allo stesso tempo, gli astronomi progettano di usare questi stessi strumenti per saperne di più sull’Energia Oscura, un altro grande mistero cosmologico che per ora può essere studiato solo indirettamente.
Fonte: Hubblesite

Le deiezioni canine e la cura della cataratta

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Siamo negli Anni Venti dello scorso secolo e il  chimico  tedesco Otto Rohm per primo riesce   a trasformare  monomeri (molecole semplici) allo stato  liquido nelle lastre chiare e trasparenti di un polimero.
Rohm aveva inventato  il Plexiglas o polimecratilato di metile, ovvero un polimero con caratteristiche molto  speciali. La cosa  più sorprendete di questa invenzione è che probabilmente  tutto nasce dall’insofferenza per  il cattivo odore delle deiezioni canine.
Nel 1904 infatti Rohm lavorava nell’azienda municipalizzata del gas di Stoccarda ed il  suo ufficio era a poche decine di metri da una conceria. Da li perveniva il fastidioso, cattivo odore dovuto al trattamento delle pelli effettuato immergendole in vasche di  cacca canina fermentata.
Il  nostro  buon Otto si disse che doveva  esistere una soluzione alternativa per evitare le offese olfattifere  di quel  procedimento.  Ben presto Rohm individuò un conciante sintetico che chiamò Oropon.  Il successo commerciale fu impetuoso ed il nostro Otto fondò insieme ad un’altro  Otto (Haas) la società commerciale “Rohm  e Hass Company” che fece affari d’oro grazie al brevetto di Rohm.
Proseguendo nel solco di questa  prima scoperta Rohm riuscì negli anni Venti ad inventare il Plexiglas un  polimero trasparente e molto resistente. Il  nostro intraprendente chimico fu uno dei primi a sfoggiare un paio di occhiali da vista con lenti acriliche invece che di vetro.
La scoperta del Plexiglas e delle sue caratteristiche ingolosì ben presto le forze armate aeree sia tedesche, Luftwaffe, che inglesi,  RAF. L’idea era quella di sostituire i parabrezza ed i finestrini degli aerei con il resistentissimo Plexiglas. Purtroppo   la “materia prima” necessaria alla sua costruzione,  il metacrilato di metile aveva costi produttivi proibitivi e questo rallentò l’idea di utilizzarlo per le flotte aeree  militari.
Il  problema fu risolto da William Chalmers che trovò il modo di produrre il metacrilato di metile con acetone e acido cianidrico due sostanze a buon mercato. Il  materiale risultante fu battezzato come Perpex.
Perpex e Plexiglas furono adottati e montati, sin dal 1936,  sia sugli Spitfire inglesi che sugli aerei da combattimento tedeschi. Si trattò di un netto miglioramento rispetto ai tettucci ed ai finestrini in vetro, ma nonostante la loro robustezza, sia il  Perpex, come lo chiamavano gli anglosassoni, che il Plexiglas  come  lo chiamavano i tedeschi, era tutt’altro che indistruttibile. Una raffica diretta aveva  il potere di mandarlo in frantumi e disseminare di piccole schegge tutto l’abitacolo.
E spesso queste piccole schegge di perpex colpivano gli occhi dei piloti o degli altri membri dell’equipaggio. Ed a questo punto entra  in scena un oculista britannico Harold Ridley che curando i piloti feriti si rese conto che questi piccoli frammenti di perpex, contrariamente a qualunque altro materiale che penetra  in un occhio umano non creavano alcuna irritazione. 
Ridley allora ebbe un’idea straordinaria.  Quel materiale cosi innovativo poteva essere usato per curare la cataratta, quel deposito opaco che si forma  nel cristallino dell’occhio, soprattutto quando si invecchia. Fino a quel momento la cataratta era curata chirurgicamente rimuovendo il cristallino e fornendo il paziente di occhiali con lenti molto spesse per sopperire al calo visivo.
Nel 1949 Ridley effettuò il primo  impianto  di lente  artificiale in Perpex con successo, soltanto che le tecniche operatorie del tempo non erano ancora sufficientemente evolute e spesso sorgevano complicazioni post-operatorie.
Ridley però aveva dimostrato che i problemi di rigetto con  il Perpex  erano superati.
Sarà l’oftalmologo Cornelius  Binkhorst   qualche anno dopo a migliorare  la tecnica operatoria compiendo una rivoluzione nel campo della  cura della  cataratta. Con il  passare degli anni gli affinamenti della  strumentazione, dei materiali e delle tecniche operatorie hanno fatto si che questa  operazione  a bassa invasività, che non richiede  neppure  punti di sutura, duri circa un quarto d’ora e lasci il paziente  di tornare a casa, in assenza di complicazioni,  al massimo due ore  dopo l’intervento.
E tutto questo, se ci pensiamo bene, grazie al fastidio provocato a Otto Rohm dalla  puzza della cacca dei cani.

Alla ricerca del tempo perduto

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Esiste una asimmetria tra il tempo sentito e vissuto e quello misurabile dagli orologi. Questa discrepanza per la prima volta è stata notata da una delle menti scientifiche più brillanti della storia umana, Hermann von Helmholtz, medico, fisico e naturalista tedesco nato a Potsdam il 31 agosto del 1821 e morto nei pressi di Berlino l’8 settembre 1894.
Hermann von Helmholtz aveva appena 28 anni quando si imbattè in questa discrepanza durante la stimolazione dei muscoli delle zampe delle rane. Egli dimostrò che il segnale nervoso si propaga con una velocità misurabile che era tanto più piccola all’aumentare della distanza dell’elettrodo dal muscolo interessato alla stimolazione.
La ricerca, iniziata nel 1849, pervenne ad Alexander von Humboldt, eminenza grigia della scienza tedesca di quel periodo, grazie ai buoni uffici dell’amico e collega Emil Du Bois Reymond, altro luminare della fisiologia del XIX secolo.
Dopo un’iniziale e infastidito rifiuto, von Humboldt dovette ricredersi ed in una lettera al giovane von Helmholtz, datata 12 febbraio 1850, scriveva “E’ una scoperta cosi’ notevole che parla da sola, per la sorpresa che suscita”.
In quel periodo era opinione comune tra medici e scienziati che gli effetti di una stimolazione fossero istantanei, senza alcuna latenza misurabile.
Due anni dopo, nel 1852, von Helmholtz riuscì a misurare la velocità di propagazione degli impulsi nervosi. Egli scoprì che la velocità del segnale nervoso era mediamente pari a 26,4 metri al secondo, una velocità dieci volte meno rapida del suono ed infinitamente più bassa di quella della luce.
Grazie anche all’assistenza della moglie Olga, il grande medico e naturalista tedesco riscontrò inoltre che la velocità decresceva alle basse temperature. Lo stimolo nervoso sembrava velocissimo, praticamente istantaneo soltanto perché percorreva una brevissima distanza.
Questa intuizione costituiva un indizio molto forte che questo evento era almeno in parte condizionato da processi chimici come poi fu in seguito confermato.
In una comunicazione all’Accademia delle Scienze di Parigi, nel 1851, von Helmholtz chiamò questo periodo di latenza, in francese, temps perdu. E, a proposito di tempo perduto, von Helmholtz scopri’ in seguito l’intervallo di un decimo di secondo, necessario a suo parere, ad attivare dopo l’arrivo dell’informazione, l’impulso a muovere il muscolo.
Cosa intendeva effettivamente von Helmholtz quando parlava di tempo perduto?
Appare ragionevole che esso intendesse riferirsi a quel tempo che sfugge alla nostra coscienza, che scorre senza che noi ce ne accorgiamo. Non quindi ad un tempo inesistente o smarrito ma piuttosto ad un tempo che ci trova del tutto inconsapevoli.