lunedì, Aprile 21, 2025
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Probabilmente i segnali radio veloci non sono messaggi alieni

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L’universo è un luogo ricco di misteri che noi esseri umani fatichiamo a comprendere e nonostante tutti gli sforzi, per ora brancoliamo nel buio con un lumicino che è la nostra ragione, una flebile luce che rischiara un incerto futuro.
Uno di questi misteri identificato da una acronimo “FRB” che significa Fast Radio Burst o “Lampo radio veloce” è stato segnalato per la prima volta nel 2007 scandagliando i dati d’archivio del 24 luglio 2001 ottenuti con il rediotelescopio di 64 metri di diametro dell’osservatorio di Parkes.
Negli ultimi tempi si parla molto di un FRB molto particolare, il segnale emesso ha uno schema che si ripete ogni 16 giorni con 4 giorni di emissioni veloci intermittenti e dodici di silenzio.
Non abbiamo ancora scoperto quale sia la causa di questi potenti lampi radio che giungono ai nostri strumenti spesso da miliardi di anni luce di distanza. Stranamente, un gran numero di questi segnali non si è mai ripetuta, moltissimi FRB sono imprevedibili e solo 5 su 100 sono abbinati a una galassia.
Si è cercato di spiegare gli FRB con le stelle di neutroni “magnetar” ma rimangono i dubbi sulla effettiva capacità di questi oggetti celesti di emettere energia su una scala di tipo novae rilevate nei lampi radio.
Spesso, in presenza di fenomeni ancora senza spiegazione in tanti propongono una spiegazione che prende in considerazione una possibile origine “aliena”, ipotesi certamente affascinanti che attirano molti lettori, come molti titoli dimostrano, ma affrettate e del tutto insoddisfacente.
Sembra un po’ come voler evocare gli Dei, ha fatto notare lo scienziato planetario e astrobiologo Charley Lineweaver dell’Australian National University su “ScienceAlert”.

Propulsori alieni

Una risposta agli FRB è stata proposta da alcuni fisici nel 2017; secondo loro questi segnali sarebbero il prodotto delle radiazioni emesse dai propulsori di navi spaziali aliene, mentre per altri invece i segnali sarebbero riconducibili a comunicazioni extraterrestri.
Il fisico Paul Ginsparg della Cornell University e fondatore di arXiv, non esclude queste risposte, anche se ritiene che esistano spiegazioni “non aliene” più plausibili. L’idea aliena è invece da scartare, come afferma Seth Shostak, presidente del SETI, data la distanza dalla quale provengono i segnali, da qualche centinaio di milioni di anni luce fino a diversi miliardi di anni luce.
Secondo Shostak gli alieni non avrebbero potuto organizzare un’impresa del genere e trasmettere lo stesso segnale. L’universo, secondo lo scienziato non è abbastanza vecchio per permettere che civiltà aliene comunichino da cosi lontano.
Affinché gli FRB siano prodotti da una qualche civiltà extragalattica, dovrebbero esistere almeno un centinaio di esse, in grado di produrre segnali radio cosi potenti che possano viaggiare nel cosmo per miliardi di anni ed essere rilevate dai nostri radiotelescopi.
Sulla Terra utilizziamo trasmissioni radio da pochissimo tempo, circa 125 anni e le nostre trasmissioni più vecchie quindi hanno percorso solo 125 anni luce, un’inezia, a mala pena hanno raggiunto le stelle più vicine, ma per eventuali civiltà poste oltre questo limite noi non esistiamo.
Una civiltà evoluta e tecnologicamente avanzata è in grado di produrre certamente un segnale potente, ma i segnali FRB giungono fino a noi da luoghi diversi dell’universo e da epoche diverse come se tutte queste ipotetiche civiltà avessero sviluppato questa tecnologia al momento giusto arrivando sulla Terra più o meno negli stessi anni, una coincidenza veramente poco probabile.

Solitudine cosmica

Nonostante da decenni ascoltiamo le stelle, non abbiamo ricevuto segnali “inequivocabilmente intelligenti” da altre civiltà eventualmente presenti e questo sembra un paradosso se prendiamo in considerazione l’equazione di Drake che suggerisce invece che nella nostra galassia dovrebbero essercene diverse.
Tuttavia, abbiamo un solo esempio di civiltà intelligente, la nostra sulla Terra è l’unica tra le migliaia di specie e questo potrebbe significare che la nostra intelligenza non è inevitabile, potrebbe invece essere molto rara.
Anche Lineweaver è dello stesso avviso, secondo lui l’intelligenza umana non è una caratteristica convergente dell’evoluzione e aggiunge che i nostri parenti più stretti, a livello intellettivo, si trovano qui, sul nostro stesso pianeta.
Esistono molte ragioni per ritenere naturali gli FRB, come è successo per l’oggetto interstellare Oumuamua che è assurto agli onori della cronaca come possibile sonda aliena per essere poi spiegato semplicemente come fenomeno naturale.
Secondo un astronomo che studia questi segnali, il miglior argomento che esclude in toto l’origine aliena degli FRB sono le diverse proprietà dei segnali (alcuni ampi, alcuni stretti, alcuni polarizzati, altri no, alcuni hanno più impulsi, alcuni sono un singolo impulso).
L’astronomo, parlando con ScienceAlert è voluto rimanere anonimo per non essere preso di mira dai cospirazionisti. Lo stesso astronomo ha dichiarato: “Sembra un po’ assurdo che la modifica di alcune di queste proprietà (ad esempio, cambiando la polarizzazione rispetto all’impulso), renderebbero un motore spaziale migliore“.
D’altra parte, noi vediamo una varietà di pulsar che producono fenomeni simili, che tutti concordano sul fatto che siano fenomeni naturali“.
Anche l’astronomo Andy Howell dell’Osservatorio di Las Cumbres e dall’Università della California di Santa Barbara ha condiviso in un twet la stessa linea di pensiero.

Idee estreme

Quanto esposto non vuole escludere aprioristicamente la tesi extraterrestre, gli scienziati devono possedere una mente aperta e ricettiva a tutte le possibili risposte, anche le più improbabili, che qualche volta possono rivelarsi corrette come lo fu quella delle placche tettoniche inizialmente derisa dai più.
Queste idee possono attirare l’attenzione del grande pubblico verso la scienza, non solo verso le scoperte ma anche verso il lavoro che gli scienziati svolgono nell’ipotizzare, cercare le prove e scrivere una teoria.
Queste discussioni forniscono ai non scienziati un’indicazione del tipo di osservazioni sorprendenti che vengono fatte, del divertimento che gli scienziati provano pensano, ipotizzando e teorizzando e delle possibilità che esistono là fuori“, ha detto Ginsparg a ScienceAlert.
La speculazione a volte può portare ad una nuova generazione di strumentazioni, che può quindi confermare o confutare le ipotesi più estreme e fantasiose, o vedere qualcosa di diverso e inaspettato. E anche questo è ciò che rende divertente la scienza“.
La difficoltà sta nel comprendere la differenza tra ponderare idee come esercizio di pensiero e prove basate su dati e precedenti esperienze, osservazioni e conclusioni.
O, come diceva Ginsparg, “in una discussione sulla teoria delle stringhe, un fisico anziano una volta ha sostenuto che non si può “provare”che non esiste Babbo Natale, ma abbiamo modi alternativi di spiegare i fenomeni osservati con meno ipotesi inutili“. Quindi, per ora, resisteremo agli alieni fino a quando gli alieni non ci diranno diversamente.
Fonte: Science Alert

Il mito di Atlantide

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La storia di Atlantide giunge fino a noi grazie al filosofo greco Platone. Questi all’interno di due sue brevi opere Timeo e Crizia scritte nel IV secolo a.e.v., più di mille anni dopo l’eruzione di Tera, ci racconta di una civiltà incredibile e di un’isola che nel giro di un giorno e una notte affondò sotto le onde, scomparendo per sempre. È nel Timeo che afferma letteralmente: «Avvennero terribili terremoti e diluvi, trascorsi un solo giorno e una sola notte tremendi […] l’isola di Atlantide scomparve sprofondando nel mare». Non dice mai dove fosse situata, se non che «davanti a quell’imboccatura che, come dite, voi chiamate colonne d’Ercole, aveva un’isola, e quest’isola era più grande della Libia e dell’Asia messe insieme».
Secondo Platone fu un sacerdote egizio a raccontare per la prima volta il mito di Atlantide ad un legislatore greco in visita di nome Solone,  in una data che si colloca intorno al 590 a.e.v. Secondo il sacerdote egizio questi terribili eventi si erano svolti 9.000 anni prima, cosa però altamente improbabile visto che intorno al 10.000 a.e.v. ovvero durante il Neolitico non esistevano civiltà complesse.
La cosa più probabile, volendo dare un minimo di fondamento di verità a questo mito e che gli anni fossero 900 e non 9000, tali da collocare la scomparsa di Atlantide in concomitanza con l’eruzione di Thera o eruzione di Santorini, una catastrofica eruzione vulcanica che si stima sia avvenuta intorno al 1500 a.e.v.
Platone inoltre descrive in modo molto dettagliato l’aspetto di Atlantide, dicendo ad esempio che era formata da anelli concentrici di terra e acqua che si alternavano, dando misure specifiche delle varie parti della città e così via. Non usa però altrettanta precisione per la sua ubicazione tanto che Atlantide è stata ricercata in zone molto differenti del pianeta, dalle coste dell’isola di Cipro alle Bahamas.
La cosa più probabile è che Atlantide sia un luogo mitico, inventato da Platone per descrivere la sua concezione di città e società perfette. Non è possibile per altro escludere del tutto che un’isola, non certamente un continente, sia stata spazzata via dagli effetti dell’eruzione di Santorini e magari da un correlato tsunami.
Spesso infatti la mitologia greca nasconde briciole di verità che però è difficile dipanare dagli elementi favolistici e di fantasia sedimentati nel corso dei secoli. Una cosa è certa,  l’eruzione di Thera fu percepita anche dal lontano Egitto, sia per l’enorme nuvola di gas espulsi nell’atmosfera sia per i gli innumerevoli pezzi di pomice che galleggiando sono certamente arrivate sulle spiagge del paese africano.
Alcuni egittologi hanno perfino ipotizzato che una famosa iscrizione egizia, detta la «Stele della Tempesta», possa essere un resoconto contemporaneo di ciò che videro e udirono durante e dopo l’esplosione vulcanica. Certamente dopo quella spaventosa eruzione i traffici commerciali da queste isole all’Egitto si interruppero per molto tempo e questo può aver alimentato la leggenda della scomparsa di un grande impero insulare.
Così, l’eruzione di Santorini potrebbe essere alla base del racconto di Platone su Atlantide e della sua millenaria leggenda.

La scoperta di Troia – seconda parte

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La scoperta di Troia - seconda parte
La scoperta di Troia - seconda parte
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Con il nostro racconto siamo rimasti alla scoperta di uno strato delle molte città di Troia che Schliemann erroneamente aveva interpretato come la città assediata e poi distrutta dai greci a causa del rapimento della bella Elena da parte di Paride (o Alessandro, cosi viene anche chiamato) principe troiano.

Proseguendo negli scavi in modo dissennato Schliemann danneggiò seriamente un palazzo risalente al periodo storico che stava ossessivamente cercando. Con il tempo emerse che alcune descrizioni di questi straordinari ritrovamenti erano stati artefatti ed abbelliti dall’archeologo tedesco, a partire dalla presenza della giovane moglie Sophia, durante il ritrovamento del tesoro di Priamo.

Sophia non si trovava nemmeno sul posto il giorno in cui Schliemann afferma di aver rinvenuto il tesoro. I suoi stessi diari e quaderni dimostrano che si trovava invece ad Atene. Inoltre molti studiosi affermano che il famigerato tesoro di Priamo non sia altro che l’accozzaglia di innumerevoli reperti trovati in tempi e luoghi diversi nei siti oggetto degli scavi.

Oggi il Tesoro di Priamo è esposto al Museo Puškin di Mosca, e lì rimane, nonostante sia rivendicato da ben quattro paesi: l’Armata Rossa durante l’ultimo assalto alla Germania Nazista se ne era impossessata con la giustificazione che rappresentava un sia pur piccolo indennizzo alle devastazioni effettuate dalle armate hitleriane in Unione Sovietica nel corso di quattro anni di crudele e drammatica guerra.

Schliemann che nel frattempo aveva aperto un sito di scavi a Micene alla ricerca dei resti di Agamennone continuò a scavare nel sito dove erano affiorate le città troiane per un ventennio ancora, avvalendosi dell’aiuto di Wilhelm Dörpfeld, architetto con una certa esperienza in campo archeologico, il quale riuscì a convincerlo dell’errore commesso, e del fatto che lo strato corretto da prendere in esame era Troia VI o VII.

Schliemann cominciò quindi a pianificare un ulteriore assalto alla collina di Hissarlik mirando agli strati successivi, ma il giorno di Natale del 1890 fu colto da un malore per le strade di Napoli e l’indomani morì.

Spettò a Dörpfeld, con l’aiuto finanziario della vedova di Schliemann, continuare gli scavi e quando individuò le rovine di Troia VI, risalenti ad un periodo compreso tra il 1700 ed il 1250 a.e.v. si convinse che quella era la Troia sconfitta da Ulisse e dal suo cavallo di legno. Non tutti gli studiosi furono però d’accordo con le argomentazioni di
Dörpfeld.

Carl Blegen, un archeologo dell’Università di Cincinnati, dopo aver esaminato i risultati di Dörpfeld, concluse che la distruzione di Troia VI fosse dovuta a un terremoto e non a un conflitto armato. Lo dedusse dal fatto che diversi muri furono trovati in dissesto, con grosse pietre sparpagliate, uno scenario più consono agli effetti di un terremoto che ad un conflitto bellico.

Più promettente per l’archeologo americano erano i resti di Troia VIIa, che presentava segni inequivocabili di un assedio quali punte di freccia conficcate nelle mura, cadaveri lasciati per le strade, e altri fattori che indicavano che sul luogo fosse stata combattuta almeno una grossa battaglia.

Passarono circa cinquanta anni e emerse una nuova generazione di archeologi, tra cui un gruppo deciso a tornare a esplorare, dal 1988, la collina di Hissarlik. Stavolta si trattava di un gruppo internazionale, guidato da due uomini, Manfred Korfmann dell’Università di Tubinga, impegnato a investigare i resti dell’Età del Bronzo, e Brian Rose dell’Università di Cincinnati, responsabile invece delle rovine successive.

Utilizzando la tecnica del telerilevamento, a Korfmann parve di individuare un grande muro che poteva essere stato il baluardo tra i troiani e gli assedianti greci, ma gli scavi rivelarono che si trattava in realtà di un grande fossato. Quello che però emerse fu che tutti gli archeologi, ad iniziare dal leggendario Schliemann avevano scavato soltanto la cittadella, ovvero la parte della città dove risiedeva il re e la sua corte.

I resti riportati alla luce da Korfmann hanno consentito di attribuire alla città dimensioni più di dieci volte maggiori, dimostrando che l’agglomerato urbano si estendeva per almeno venti ettari, con una popolazione compresa fra i quattromila e i diecimila abitanti alla fine della tarda Età del Bronzo, una vera e propria metropoli per l’epoca.

Manfred Korfmann morì all’improvviso nel 2005, ma gli scavi internazionali proseguono sotto una nuova direzione. Troia, con ogni probabilità, non ha ancora finito di sorprenderci con i suoi tesori e le sue vestigia.

Nuovo coronavirus, aggiornamento 15 febbraio 2020

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A livello globale il numero di casi confermati di malattia da nuovo coronavirus sono, a ieri, 67.091. Il totale dei decessi è salito a 1526 mentre i pazienti dichiarati guariti e dimessi dagli ospedali sono ora 8.446.
Nella giornata di ieri è stato registrato il primo caso confermato di infezione da nuovo coronavirus in Africa, in Egitto per la precisione. Stando a quanto hanno dichiarato le autorità egiziane, si tratta di un uomo di nazionalità straniera e tutte le persone con cui è stato in contatto sono già sotto osservazione.
Sono ora 28 le nazioni in cui si sono verificati casi di nuovo coronavirus. Sono saliti a 286 le persone colpite dell’infezione a bordo della nave Diamond Princess, in quarantena nella baia di Yokohama, con un incremento di 67 nuovi casi rispetto al giorno precedente.
Questa mattina si è registrato il primo decesso causato da nuovo coronavirus in Europa. Una persona di nazionalità cinese che era ricoverata in Francia è deceduta.
In Cina molti uffici hanno ormai riaperto ma la maggior parte dei dipendenti lavorano da remoto, via internet. Si tratta del più grande test mai effettuato di lavoro da remoto. Questa esperienza potrebbe generare interessanti implicazioni per il lavoro che andranno oltre la fine del pericolo del nuovo coronavirus.
Dalla CDC americana hanno fatto sapere che probabilmente l’infezione da nuovo coronavirus durerà fino ad oltre la prossima estate.

Nuovi dettagli su Ultima Thule, l’ultimo oggetto visitato da New Horizons

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Successivamente al riuscito flyby con Plutone, la sonda spaziale New Horizons fu inviata verso un oggetto più piccolo posto più in profondità nella Cintura di Kuiper. Mentre passava oltre, la navicella spaziale catturò immagini di un piccolo mondo costituito da due lobi molto distinti, con proprietà che gli scienziati trovarono un po’ confuse. Per i dettagli del lontanissimo corpo celeste si è dovuto aspettare, poiché la trasmissione di gran parte dei dati di New Horizons verso Terra è stata molto lenta.
L’attesa per quei dati è finita, poiché le immagini ad alta risoluzione sono ora disponibili e gli scienziati le hanno usate per cercare di comprendere meglio la formazione e la struttura di ciò che ora è noto come Arrokoth (dalla parola Powhatan per “cielo”). Sebbene i dati non rispondano a tutte le domande a cui vorremmo trovare risposta, ci danno delle ottime idee su come si sarebbe potuta formare una struttura così strana.
New Horizons è stata la sonda più veloce lanciata dalla Terra (altre sonde hanno raggiunto velocità maggiori con l’aiuto dell’effetto fionda), e Arrokoth è molto piccolo, il che significa che la sonda ha dovuto avvicinarsi molto prima che poter riprendere i dettagli del lontano corpo celeste. Ciò ha lasciato una finestra ristretta per la raccolta di dati durante il flyby. Appena due giorni prima del flyby, Arrokoth si presentava ancora come un singolo pixel nelle telecamere di New Horizons. Non è cresciuto più di 10 pixel fino a circa mezza giornata prima. Quindi la stragrande maggioranza dei dati proviene da una finestra ampia appena 12 ore.
Tuttavia, durante quel periodo, le telecamere a bordo di New Horizons catturarono immagini che hanno permesso di sondare la composizione di Arrokoth e sono state in grado di risolvere elementi di soli 33 metri di larghezza sulla sua superficie. Ora ne conosciamo la struttura del corpo, siamo in grado di estrapolare modelli sulla sua storia e fare ipotesi sulla sua chimica.
Arrokoth si muove all’interno da una regione del Sistema Solare chiamata Cintura di Kuiper, in particolare da un’area oltre l’influenza gravitazionale di Nettuno, il più grande pianeta della zona. In questa regione, c’è abbastanza materiale per formare corpi ghiacciati, ma così disperso che i corpi sembrano essere rimasti piccoli, senza interagire abbastanza frequentemente da formare pianeti più grandi. L’influenza di Nettuno ha sparso ulteriormente alcuni oggetti della Cintura di Kuiper verso l’interno, dove le collisioni con altri corpi erano più probabili e l’influenza del Sole era più forte. Ma Arrokoth attualmente orbita oltre il punto in cui è probabile che ciò accada.
Se vero, ciò significa che è probabile che l’oggetto sia composto da materiale che è rimasto sostanzialmente invariato dalla formazione del Sistema Solare. E, secondo tutte le indicazioni, ciò è vero.
Le valutazioni della densità del cratere sulla superficie di Arrokoth sono coerenti con un’età di quattro miliardi di anni, quella del sistema solare stesso. E la superficie ha il colore rosso tipico di altri oggetti di questa regione della fascia di Kuiper, suggerendo che la sua superficie non ha visto significative modifiche chimiche.
Il colore rosso sembra provenire da un complicato mix di idrocarburi a catena più lunga chiamati collettivamente tholins. Questi sono costruiti da reazioni chimiche tra molecole più brevi guidate dall’esposizione alle radiazioni. Nel caso di Arrokoth, queste molecole più brevi sembrano includere metanolo, un alcool a singolo atomo di carbonio e l’unica sostanza chimica identificata chiaramente nei dati di New Horizons. Il metanolo potrebbe essersi formato da reazioni chimiche tra metano e acqua, ma ci sono solo deboli indicazioni della presenza di acqua su Arrokoth e nessuna chiara firma del metano. È possibile – anche probabile, dato ciò che sappiamo della Cintura di Kuiper e di altri oggetti all’interno di essa – che siano presenti sotto la superficie, ma ciò non è stato confermato da questo sorvolo.
Di qualunque cosa sia fatta, Arrokoth non è molto denso ed è probabilmente simile alle comete in questo senso. Se fosse denso meno della metà di una cometa tipica, gira abbastanza velocemente da sfaldarsi. Se fosse molto più denso, i due lobi si sarebbero schiacciati di più quando si sono fusi.

Come due sono diventati uno

Una delle cose che richiede una spiegazione è la forma insolita di Arrokoth. Sembra essere quello che viene chiamato un “binario di contatto“, il che significa che è formato da due oggetti che si sono delicatamente fusi l’uno contro l’altro. Ma in questo caso, gli oggetti stessi sembravano essere un po’ sfumati, richiedendo che fosse spiegata anche la loro forma appiattita e allungata.
Uno dei risultati chiave del flyby è stata la generazione di due immagini successive da prospettive leggermente diverse, che hanno consentito una visione stereoscopica di Arrokoth. La ricostruzione 3D costruita da quella vista indica che i due lobi non sono così appiattiti come apparivano all’inizio. Questo livello di appiattimento potrebbe essere spiegato dalla rotazione di ciascun oggetto e la forma più arrotondata significa che la rotazione di ciascuna parte dovrebbe essere solo leggermente superiore alla rotazione corrente di Arrokoth per creare il grado di planarità appropriato.
La modellizzazione del tipo di collisioni che potrebbe avere unito due corpi separati indica che qualsiasi velocità di avvicinamento oltre i cinque metri al secondo avrebbe comportato una frattura dei due corpi, piuttosto che la struttura a due lobi ordinata che vediamo. Ciò suggerisce che i due corpi devono essersi formati l’uno vicino all’altro, dalla condensazione della stessa nuvola di materiale. È improbabile che qualcosa di diverso da quello fornisca questo tipo di velocità di approccio graduale.
Ma anche un approccio lento avrebbe richiesto qualcosa per smorzare il loro slancio originale. Quindi, i ricercatori hanno considerato una varietà di elementi che avrebbero potuto farlo. Ma molte semplici opzioni non funzionano. Arrokoth è semplicemente troppo lontano dal Sole – oltre 40 volte la distanza della Terra dal Sole – perché la luce abbia avuto un effetto significativo sul movimento dei corpi. Le collisioni non sono state abbastanza frequenti da eliminare abbastanza lo slancio.
Ciò che è rimasto ai ricercatori è il gas che originariamente orbitava attorno al Sole all’inizio della storia del Sistema Solare. Mentre l’energia del Sole ha spinto via gran parte di questo gas, questo sarebbe stato presente nel momento in cui i due corpi si sono originariamente formati grazie al quale avrebbero avuto una velocità orbitale più lenta. Ciò avrebbe fornito un attrito ai due corpi che hanno formato Arrokoth, consentendo loro di avvicinarsi abbastanza lentamente da fondersi senza frantumare nessuno dei due nel punto in cui si è verificato il contatto.

Niente anelli, grande cratere

La caratteristica più macroscopica di Arrokoth è un cratere che ha preso il soprannome di “Maryland“, che si trova sul più piccolo dei due lobi ed è largo circa sei chilometri e profondo almeno mezzo chilometro. La sua sagoma altrimenti rotonda è interrotta da uno sperone che si estende nel cratere; come si è formato non è chiaro. Ci sono molte piccole depressioni che sembrano essere crateri, ma nessuna di esse è più larga di un chilometro.
I crateri in genere indicano che il materiale che lo ha generato impattandolo è stato espulso dalla superficie di un corpo celeste piccolo come Arrokoth situato nei paraggi, quindi i ricercatori ne hanno cercato i resti: piccole lune o anelli, che sono stati trovati su altri oggetti minori del Sistema Solare. Ma non si sono trovati segni di lune e se è presente un anello, deve essere incredibilmente rarefatto.
Ci sono molti altri dettagli che sono già stati esplorati: tre articoli significano molto testo e dati supplementari. Ma la pubblicazione dei dati significa anche che i ricercatori che studiano altri processi del Sistema Solare e gli oggetti della Cintura di Kuiper inizieranno a ripensare ai loro oggetti di interesse alla luce di ciò che ora sappiamo di Arrokoth.
Intanto, New Horizons continua ad addentrarsi nella fascia di Kuiper, sempre più lontano.
Science, 2020. DOI: 10.1126 / science.aay3705 , 10.1126 / science.aay6620 , 10.1126 / science.aay3999  ( Informazioni sui DOI ).

Dopo l’attenuazione della sua luminosità, Betelgeuse sembra stia cambiando forma – video

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La stella che costituisce la spalla della figura disegnata dalla costellazione di Orione si è visibilmente attenuata negli ultimi mesi del 2019 e ora emette solo al 36% della sua luminosità normale. Gli astronomi e gli esperti osservatori delle stelle possono facilmente vedere la differenza, e li fa parlare… della possibilità che la stella diventi una supernova.
L’oscuramento è associato a un cambiamento in Betelgeuse che potrebbe portare alla stella “diventare supernova?”
In quello scenario, l’esplosione di Betelgeuse potrebbe portarla a diventare luminosa come la Luna piena per alcuni mesi.
Perché si è attenuata?
Una squadra guidata da Miguel Montargès, astronomo della KU di Lovanio in Belgio, sta osservando la stella con il  Very Large Telescope dell’ESO  da dicembre. Tra le prime osservazioni del team c’è questa straordinaria nuova immagine (immagine di copertina) della superficie di Betelgeuse alla luce visibile. È stato presa alla fine dell’anno scorso con lo  strumento SPHERE del telescopio.
Per fortuna la stessa squadra aveva fotografato Betelgeuse a gennaio 2019, prima che iniziasse ad attenuarsi, in luce visibile e usando lo stesso telescopio, dando ora la possibilità di effettuare importanti confronti tra prima e dopo, come si vede nel video sottostante:

Il video mostra quanto la stella è sbiadita, ma anche come è cambiata la sua forma apparente.
Quindi cosa sta succedendo?
I due scenari a cui stiamo lavorando sono un raffreddamento della superficie dovuto all’eccezionale attività stellare o all’espulsione di polvere di gas stellare polvere verso di noi“, afferma Montargès. “Naturalmente, la nostra conoscenza delle supergiganti rosse rimane incompleta, e questo è ancora un lavoro in corso, quindi una sorpresa può ancora accadere“.
Si pensa che Betelgeuse stia tra i 650 ed i 700 anni luce di distanza e che la stella abbia circa 15-20 volte la massa del Sole. La massa fa un’enorme differenza nel calcolare in quale fase del suo sviluppo è Betelgeuse.

Fondamentalmente, l’oscuramento di Betelgeuse e la sua “nuova” forma apparente è causato dalla polvere.
L’immagine sopra, questa volta ripresa ad una lunghezza d’onda di luce simile a quella rilevata dalle termocamere, anche questa ripresa nel dicembre 2019, è stata presa usando lo strumento VISIR sul Very Large Telescope e mostra che la luce infrarossa viene emessa dalla polvere che circonda Betelgeuse. Le nuvole di polvere si formano quando la stella espelle materiale nello spazio, cosa che gli astronomi sanno che Betelgeuse è incline a fare. È per questo che Betelgeuse è noto per oscurarsi di tanto in tanto, anche se non è mai diventata così debole come in questo momento.
In questo nuovo video è possibile vedere la superficie di Betelgeuse, quel minuscolo punto nero al centro dell’immagine.

Nel corso della loro vita, le supergiganti rosse come Betelgeuse creano ed espellono enormi quantità di materiale anche prima di esplodere come supernovae“, ha dichiarato Emily Cannon, una studentessa di dottorato presso la KU Leuven che lavora con le immagini SPHERE delle supergiganti rosse. “La tecnologia moderna ci ha permesso di studiare questi oggetti, a centinaia di anni luce di distanza, con dettagli senza precedenti che ci danno l’opportunità di svelare il mistero di ciò che provoca la loro perdita di massa“.

Betelgeuse era l’undicesima stella più luminosa nel cielo notturno, ma ultimamente ha perso quella posizione.
Diventerà una supernova?
Sì, sicuramente lo farà.
Quando?
Nei prossimi 100.000 anni. In termini cosmici, è un attimo…

A Chernobyl una specie di funghi prolifera tra le radiazioni

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Ekaterina Dadachova e i suoi colleghi dell’Albert Einstein College of Medicine di New York, hanno scoperto che alcuni funghi possono usare una molecola chiamata melanina, un pigmento presente anche nella pelle umana, per raccogliere l’energia dalle radiazioni e utilizzarla per la crescita.
Arturo Casadevall, collega di Dadachova, ha spiegato che ciò potrebbe permettere di sviluppare tecnologie e trattamenti per proteggere dalle radiazioni gli astronauti durante le lunghe missioni spaziali. Potrebbero anche essere usati per rivestire le paratie delle navi spaziali con lo scopo di assorbire le radiazioni spaziali esterne.
Dall’incidente del 1986 avvenuto nella centrale atomica di Chernobyl, il numero di questi “funghi neri“, ricchi di melanina, presenti nella centrale è aumentato vertiginosamente. Casadevall ipotizza che i funghi si nutrano delle radiazioni che contaminano i resti del reattore nucleare.
Dadachova, Casadevall e i loro colleghi hanno testato come tre diverse specie di funghi rispondono alle radiazioni gamma emesse dal renio-188 e dal tungsteno-188. Hanno scoperto che tutti e tre, Cladosporium sphaerospermum, Cryptococcus neoformans e Wangiella dermatitidis, crescono più rapidamente in presenza della radiazione. I risultati sono pubblicati in PLoS One.

Cercatori di calore

Alcuni funghi decompongono il materiale radioattivo, come la grafite calda, presenti in ciò che resta del reattore di Chernobyl. Precedenti studi hanno dimostrato che la maggior parte dei funghi, trovati nelle regioni contaminate, cresce verso varie fonti di radiazioni diverse.
Questi funghi tendono anche a produrre la melanina come pigmento, che si ritiene li protegga da una serie di stress ambientali. “Sotto stress da esposizione a radiazioni ionizzanti, le comunità di funghi nel suolo, sviluppano una proporzione più elevata di specie fungine contenenti melanina“, afferma John Dighton, un microbiologo della Rutgers University di New Brunswick, New Jersey.
Il team di Dadachova, ha scoperto che l’esposizione alle radiazioni ha fatto cambiare la molecola fungina della melanina in modo che fosse quattro volte migliore nell’eseguire una comune reazione chimica metabolica. I ceppi fungini senza melanina, non hanno avuto una crescita più rapida in risposta alle radiazioni.
La melanina nelle cellule della pelle umana potrebbe trasformare le radiazioni in nutrimento?
Casadevall ipotizza che potrebbe, ma la quantità di energia fornita sarebbe probabilmente molto piccola e certamente non abbastanza per un astronauta impegnato nello spazio. “Attualmente non ci sono prove per questa teoria“, dice Casadevall, “tuttavia il fatto che si verifichi nei funghi aumenta la possibilità che lo stesso possa verificarsi negli animali e nelle piante“.
FONTE: Nature.

Marte e la storia del fossile di ammonite

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Marte è un pianeta che da secoli attira lo sguardo e soprattutto la fantasia umana. Il pianeta rosso è certamente uno dei più popolari in ambito fantascientifico ed è stato oggetto di molte opere di grande successo.

Per i greci il pianeta rosso era il Dio della Guerra e gli extraterrestri vengono spesso chiamati “marziani”. Secondo alcuni divulgatori Marte un tempo era popolato e sulla sua superficie ci sarebbero le vestigia di un’antica civiltà ormai scomparsa e sepolta nella polvere. Facce, piramidi, cupole, muraglie, cittadelle, fortificazioni, statue, tutto questo sarebbe presente in molte foto scattate da sonde spaziali lanciate dalla NASA.

Ma c’è un qualche tipo di vita su Marte?

Proprio l’agenzia spaziale americana, la NASA, porta avanti un programma di esplorazione di Marte utilizzando veicoli spaziali che giunti sul suolo del pianeta rosso hanno rilasciato dei robot dotati di ruote, dei veri e propri rover, che grazie a una serie di strumenti scientifici installati a bordo, ci hanno rivelato molti importanti aspetti di Marte.

Uno di questi robot, chiamato Curiosity, dotato di fotocamere, spettrometri e rivelatori di radiazioni, ha scoperto la presenza di molecole organiche e metano stagionale. Queste scoperte però non ci dicono se c’è vita su Marte, ma che forse, subito dopo la sua formazione essa poteva essere presente.

Tuttavia su Marte non ci sono solo sostanze organiche; una sonda orbitale, la Mars Express, ha scoperto la presenza di acqua liquida nascosta sotto uno spesso stato di ghiaccio.

Sul pianeta rosso sembrano esserci tutti gli ingredienti adatti a sviluppare e sostenere la vita, tracce di antiche reti fluviali, acqua liquida nel sottosuolo, sostanze organiche, metano.

E a questo punto, non possiamo non tener conto dei cospirazionisti, o “complottisti”. Secondo queste persone, su Marte ci sarebbe stata indiscutibilmente anche la vita e la prova proverrebbe da una particolare foto scattata proprio dal rover Curiosity.

Osservando la foto scattata dal robot sembra di scorgere una conchiglia, un’ammonite per la precisione.

Ma cosa ci farebbe un’ammonite su Marte?

Questi esseri viventi appartenenti a un gruppo di molluschi cefalopodi ormai estinti, sono vissuti sul nostro pianeta nel Devoniano inferiore, circa 400 milioni di anni fa e scomparsi nello stesso periodo della fine dei dinosauri, 344 milioni di anni dopo.

Effettivamente, l’immagine che compare nella foto scattata dal rover Curiosity somiglia non poco a un’ammonite, ma lo è veramente? Una forma di vita del genere dovrebbe discendere da forme di vita molto più semplici comparse miliardi di anni fa sulla superficie di Marte, forme di vita batterica che avrebbero avuto bisogno di un clima stabile e di acqua per miliardi di anni.

un ammonite su marte. orig

Ma dobbiamo deludere i complottisti, anche quelli più agguerriti: su Marte l’abbondanza di acqua durò solo pochi milioni di anni e quello che vediamo nella foto non può essere un’ammonite, l’immagine deve avere certamente un’altra spiegazione, meno poetica ma certamente non meno interessante.

Se non siamo davanti a un fossile di ammonite cosa potrebbe essere quello che ci sembra una conchiglia?

Quello che vediamo ha una spiegazione, si tratta di un fenomeno istintivo noto con il nome di pareidolia, quella tendenza che ci porta a osservare forme e oggetti noti in strutture amorfe.

Sicuramente, quella che ci appare come la conchiglia di un essere vivente estinto da milioni di anni è una concrezione con i contorni erosi che ne hanno fatto emergere le forme arrotondate che osserviamo. Queste concrezioni, frutto di un deposito di materiale lavico sono appunto nell’area studiata dal rover Curiosity.

Non sarà semplice scoprire la vita su Marte, serviranno studi e analisi molto approfondite per poter affermare con assoluta certezza di aver scoperto la vita fuori dal nostro pianeta.

Fonti: https://www.cnet.com/pictures/weird-objects-on-mars-pictures/37/https://www.webmagazine24.it/; https://www.focus.it/scienza/spazio/pareidolia-ammonite-fossile-su-marte

La scoperta di Troia – prima parte

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La scoperta di Troia - prima parte
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E’ una mattina di maggio del 1873 ed Heinrich Schliemann osserva i suoi operai scavare sulla sommità di una collinetta dove lui è convinto vi siano i resti della leggendaria città di Troia quando, improvvisamente, uno di essi recupera dallo scavo un recipiente di rame.

Secondo il racconto di Schliemann, lui e la giovane seconda moglie Sophia con un coltello finirono di dissotterrare il grosso recipiente che era ricolmo di oggetti preziosi.
Sophia radunò gli oggetti nello scialle e li portò a casa, dove insieme li catalogarono e si resero conto di ciò che avevano appena scoperto: il tesoro di un re, composto da collane e anelli d’oro, due diademi, un cerchietto, sessanta orecchini e quasi novemila piccoli ornamenti.

C’erano anche coppe, vasi e altri recipienti in oro, argento ed elettro, come una salsiera in oro massiccio, una delle uniche due mai ritrovate, e un recipiente, anch’esso d’oro, a forma di melograno.

Schliemann riuscì a trafugare gli oggetti ritrovati portandoli con una barca nella loro casa di Atene, dove Sophia indossò alcuni dei gioielli più preziosi ed il marito le scattò alcune fotografie che sono rimaste nella storia dell’archeologia. Schliemann annunciò al mondo di aver scoperto il Tesoro di Priamo.

Ma chi era Heinrich Schliemann?

Nato nel 1822, era il quinto di nove figli di un pastore protestante. E sarà proprio il padre a trasmettere ad Heinrich l’amore per le civiltà passate, leggendo i versi dei poemi omerici e descrivendo le gesta degli eroi antichi della leggendaria città di Troia, fino ad allora ritenuta dagli studiosi solo frutto della fantasia. 

Il giovane Scdhliemann è un uomo deciso e con pochi scrupoli. Interrotti gli studi nel 1836 per problemi finanziari e dopo alcuni anni di infruttuosi tentativi di diventare un contabile, nel 1841 emigrò in Venezuela. Dotato di un grande talento per le lingue, arrivò a parlare e comprendere fino a sedici idiomi diversi, nel 1850 si imbarcò negli Stati Uniti dove incominciò ad arricchirsi, prestando denaro ai cercatori d’oro. Subì un processo per frode e quindi tornò a San Pietroburgo, dove qualche anno prima aveva intrapreso la carriera di commerciante.

E qui fece fortuna: nel 1853, allo scoppio della Guerra di Crimea,
Schliemann rifornì di vettovaglie e materiale bellico le truppe dello Zar arricchendosi smisuratamente.

Nel 1868 si ritirò dagli affari per dedicarsi alla sua passione giovanile, ovvero la ricerca delle antiche civiltà ed in particolare la mitica città di Troia.

Ma Schliemann aveva davvero scoperta la città che vide le gesta di Achille, Paride, Ettore, Priamo, Agamennone ed Ulisse?

Nel 1868 Schliemann intraprese un viaggio in Grecia e nel settembre del 1869, divorziato dalla prima moglie russa, si sposò con la giovane greca Sophia Engastromenou  e, da qui, si spostò in Turchia. Qui entrò in contatto con il viceconsole degli Stati Uniti in Turchia, un uomo di nome Frank Calvert.

Costui aveva a sua volta cercato i resti di Troia ed era convinto di averli trovati. Anzi, aveva già acquistato l’antica collina oggi chiamata Hissarlik, che in turco significa «luogo di fortezze». Aveva però dovuto arrestare i lavori di scavo per mancanza di fondi.

Schliemann, che si convinse ben presto che il sito poteva davvero essere l’ubicazione dell’antica Troia, intervenne finanziariamente e ben presto escluse Calvert da ogni ruolo pubblico rispetto alle scoperte che si andavano facendo. Solo nel 1999 al povero Calvert gli è stata restituita un pò di gloria postuma.

Schliemann iniziò i suoi scavi a Hissarlik nell’aprile del 1870 e per due anni non trovo praticamente niente. Nel 1872 intensificò gli scavi e lo fece per mezzo di un’enorme trincea che i suoi operai scavarono quasi da una parte all’altra della collina, per circa quattordici metri di profondità. La cosiddetta trincea Schliemann è visibile ancora oggi sotto forma di un grosso squarcio al centro del sito.

Calvert avvertì Schliemann che questo modo di scavare avrebbe potuto provocare danni irreparabili, ma Schliemann era un neofita dell’archeologia che stava muovendo i primi passi, soltanto a Pompei si scavava da quasi un secolo ed in pochissimi altri siti nel mondo da alcuni anni. Schliemann ignorò gli avvisi di Calvert e scavò la grande trincea sempre più in fondo, attraversando ogni sorta di edifici e di strati sovrapposti.

Scoprì che in quella collina le città sepolte una sopra l’altra erano nove, benché in un primo momento Schliemann ritenesse che fossero soltanto sei.
Schliemann si fermò al secondo strato dal basso, che battezzò la «città bruciata». Era convinto che fosse quella un tempo governata da Priamo, ma si sbagliava.

Grazie all’analisi delle ceramiche e alla datazione al carbonio-14, oggi sappiamo che Troia II risale al 2400 a.e.v. circa, nell’antica Età del Bronzo, oltre mille anni prima di quando si presume debba collocarsi la guerra di Troia.

….continua…..

Abbiamo trovato i geni che hanno permesso alle piante di colonizzare la terra 500 milioni di anni fa

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Il mondo 500 milioni di anni fa era molto diverso da oggi. La terra era spoglia, con solo batteri, funghi e alghe in grado di sopravvivere su di essa. Tutto il resto viveva nell’oceano, ma una volta che le piante hanno cominciato a trasferirsi sulla terra, hanno cambiato quasi tutto. Hanno contribuito a creare il terreno, fiumi e l’atmosfera ricca di ossigeno, che alla fine ha permesso agli animali di trasferirsi fuori dall’acqua.
Il nostro studio, recentemente pubblicato su Current Biology, ha scoperto che è stata l’espressione di alcuni nuovi geni hanno aiutato le piante a spostarsi dall’acqua alla terra. Le prime piante terrestri, come la flora di oggi, consistevano in molte cellule con molteplici funzioni che erano controllate da migliaia di geni. Abbiamo confrontato le serie genetiche complete di specie vegetali viventi che vanno dal grano alla quinoa e siamo stati in grado di scoprire i geni che per primi hanno permesso alle piante di colonizzare la terra e cambiare la vita sul nostro pianeta per sempre.
Abbiamo scoperto che due grandi gruppi di geni sono apparsi nelle piante durante la transizione verso la terra. Ciò significa che l’evoluzione delle piante terrestri è stata guidata dall’emergere di nuovi geni, precedentemente non presenti in parenti stretti. Lo sappiamo perché la selezione naturale rimuove i geni che non sono essenziali per il funzionamento dell’organismo, quindi se questi geni non avessero un ruolo importante, sarebbero andati persi.
È interessante notare che questi nuovi geni si trovano in tutte le piante terrestri coinvolte nel nostro studio, che comprende piante da fiore (pomodoro, riso e orchidea), nonché le piante senza fiore (conifere, ginkgo e muschio). Ciò suggerisce che questi geni erano cruciali per consentire alle piante di sopravvivere sulla terra, ma come hanno aiutato i precursori delle piante terrestri ad adattarsi al loro nuovo ambiente?

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Quando le piante terrestri si sono evolute, il numero di nuovi geni nel regno vegetale è esploso. Credito: Alexander Bowles,.

Le prime piante terrestri

Le alghe verdi sono tra le specie più vicine alle prime piante terrestri e si trovano principalmente negli ecosistemi acquatici, come gli oceani ed i fiumi. Sono in grado di assorbire acqua e sostanze nutritive dall’ambiente circostante. Quando le piante colonizzarono per la prima volta la terra, avevano bisogno di un nuovo modo di accedere ai nutrienti e all’acqua senza esserne immersi.
Abbiamo scoperto i geni che hanno aiutato le prime piante terrestri a farlo sviluppando i rizoidi – strutture simili a radici che li hanno aiutati a rimanere ancorati nel terreno e ad accedere all’acqua e ai nutrienti. Abbiamo anche identificato i geni coinvolti nel gravitropismo, che è ciò che aiuta le radici a crescere nella giusta direzione. Dopotutto, una vita fuori dall’acqua comporta la necessità di sapere da che parte sta. Questi nuovi geni hanno aiutato le piante a coordinare la crescita dei rizoidi verso il basso e hanno assicurato lo sviluppo dei germogli per massimizzare la quantità di luce che potevano assorbire.
La transizione delle piante dall’acqua alla terra è avvenuta in un paesaggio di calore e luce estremi e con poca acqua. I geni che abbiamo identificato hanno permesso alle prime piante terrestri di adattarsi allo stress della vita fuori dall’acqua, garantendo che potessero stabilirsi e tollerare queste dure condizioni.
Una grande differenza tra le piante terrestri e i loro parenti stretti, le alghe verdi, è che le piante terrestri sviluppano embrioni. Nei muschi e nelle felci, questo embrione assume la forma di una spora mentre in molte altre piante è il seme. Abbiamo trovato i geni che hanno permesso alle prime piante terrestri di produrre e proteggere questi embrioni con tessuti specializzati che limitavano i danni causati dalla luce ultravioletta e dal calore.
Proteggendo l’embrione, una pianta aumenta le probabilità che i suoi geni vengano trasmessi alla generazione successiva, rendendoli più propensi a disperdersi e sopravvivere e permettendo alle piante terrestri di colonizzare il paesaggio sterile.

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La diversità delle piante terrestri e dei parenti stretti delle alghe. Credito: Alexander Bowles.

Il passaggio delle piante dall’acqua alla terra è uno dei cambiamenti più importanti nella storia della vita sulla Terra. Il numero di nuovi geni emersi con l’evoluzione delle piante terrestri è di gran lunga maggiore rispetto a qualsiasi altro punto della storia evolutiva delle piante, anche più di quelli emersi con le piante da fiore.
Questa esplosione di nuovi geni segna probabilmente lo sviluppo evolutivo più importante nella storia della vita delle piante. In precedenza, gli scienziati pensavano che i cambiamenti graduali a livello genetico fossero alla base dell’emergere di piante sulla terra. Ora sappiamo che le prime piante terrestri sono state in grado di produrre un embrione, tollerare una serie di stress ambientali e ancorarsi alla terra attraverso un’esplosione di innovazioni genetiche.
Questi nuovi geni hanno permesso alle piante di dominare la terraferma, diversificarsi in oltre 374.000 specie e modellare i moderni ecosistemi che vediamo oggi in tutto il mondo.
Fonte: The Conversation