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Riscaldamento globale e cambiamenti climatici: nuovo rapporto ONU, ci restano solo dieci anni per mettere le cose a posto

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Pensavamo di avere a disposizione diversi decenni e, invece, ci restano circa dieci anni per evitare che il riscaldamento globale, con i conseguenti cambiamenti climatici, diventi irreversibile, provocando danni gravissimi all’ambiente della Terra con conseguenti estinzioni di massa, processo già in corso, di moltissime specie.

Le conseguenze di questo cambiamento saranno imprevedibili ma, sicuramente, non positive, con ricadute pesanti sia sulla quantità e la varietà delel specie viventi sul nostro pianeta, sia per il futuro stesso della razza umana.

È quanto emerge da un nuovo rapporto, appena reso pubblico e coordinato dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), che arriva mentre i governi si preparano per la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si terrà a Cancún, in Messico, dal 29 novembre al 10 dicembre.

I risultati mettono in luce l’enorme “divario di emissioni” emesse nel 2020 rispetto agli accordi presi tra le nazioni: quasi nessuno riuscirà a mantenere gli impegni presi relativamente all’emissione di gas serra. In particolare, sono Stati Uniti, Cina ed India i principali colpevoli di eccesso di emissioni ma sono molti gli stati di tutto il mondo che, lungi dal mantenere gli impegni presi in fatto di riduzione delle emissioni, continuano a non mettere in atto politiche davvero efficaci per il contenimento del fenomeno.

I risultati indicano che l’incontro delle Nazioni Unite a Copenaghen potrebbe rivelarsi più un successo che un fallimento se tutti gli impegni, le intenzioni e i finanziamenti, incluso il pieno appoggio alle promesse delle economie in via di sviluppo, saranno soddisfatti“, ha dichiarato, manifestando un certo ottimismo, il direttore esecutivo dell’UNEP, Achim Steiner, sottolineando che, attraverso appositi negoziati, le attuali opzioni sul tavolo “possono ancora farci arrivare quasi al 60 del calo di emissioni previste per il contenimento dell’aumento delel temperature a livello globale.” 

In base all’accordo di Copenaghen, raggiunto lo scorso dicembre, sono stati presi impegni e impegni in materia di emissioni fino al 2020, ma è ormai chiaro che questi sono ampiamente considerati insufficienti per contenere in due gradi l’aumento delle temperature.

Il gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climaticoIPCC ), vincitore del premio Nobel per la pace, ritiene che per evitare i peggiori effetti del cambiamento climatico, i paesi industrializzati devono ridurre le emissioni dal 25 al 40%, rispetto ai livelli del 1990, entro il 2020 e che le emissioni globali devono essere dimezzate entro il 2050.

La stima, evidenziata dal rapporto, è che per mantenere il rialzo delle temperature globali entro i due gradi Celsius, o anche meno se possibile, durante il XXI secolo, sarà necessario cominciare ad abbassare il picco delle emissioni globali entro i prossimi dieci anni e non superare emissioni globali per 44 gigatonnellate di CO2 equivalente entro il 2020.

Il rapporto, redatto congiuntamente da oltre 30 scienziati di spicco, afferma inoltre che il pieno rispetto degli impegni dell’Accordo di Copenaghen potrebbe ridurre le emissioni a circa 49 gigatonnellate di CO2 equivalente entro il 2020, lasciando solo un gap di 5 gigatonnellate da colmare.

Le conclusioni dell’IPCC arrivano ad informare che, probabilmente, anche se più ambizioso, sarebbe meglio contenere l’aumento delle temperature entro 1,5°.

Se riusciremo a realizzare questo ambizioso obbiettivo, potremo impedire l’estinzione di altre specie viventi, la distruzione totale del corallo, fondamentale per l’ecosistema marino e permetterà di ridurre la crescita del livello dei mari a dieci centimetri entro il 2100, salvaguardando le isole e le zone costiere. Se invece questo limite dovesse essere superato, avremo un ulteriore aumento delle zone a caldo estremo, piogge torrenziali alternate a priodi di forte siccità, cosa che avrà effetti engativi sulla produzione alimentare, soprattutto nelle zone già in difficoltà, come i paesi del centro Africa, il Mediterraneo e l’America Latina.

 

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