Inquinamento da plastica. Una parola che a sentirla riecheggia tristemente come un’eco, tant’è copiosa e continua la sua riproduzione. Purtroppo, il più grande imputato di questo grande sterminio, perché è proprio di questo che si parlerà nell’imminente futuro, è l’uomo, senza distinzione alcuna.
Ogni azione che compiamo quotidianamente – e che sembra non avere pertinenza con l’argomento – come mangiare, lavarsi, bere, produce un rifiuto. Eppure, nel contesto generale, l’uomo si comporta come se la cosa non avesse nulla a che fare con lui.
Sfortunatamente, quest’atteggiamento controproducente per gli altri e per se stessi, ha prodotto dagli anni sessanta ad oggi un incremento di circa 8,3 miliardi di tonnellate di rifiuti solidi. E non è tutto.
Nonostante il grido delle associazioni sull’emergenza plastica, si stima che, agli albori del 2050, ci troveremo ad osservare tristemente un mare, con più plastica che creature marine. Habitat distrutti, decine di animali che muoiono per intossicazione o per danni di varia natura provocati dalle scorie. Ed ancora, la scoraggiante stima che in tutto il pianeta, solo in mare, si stanno riversando 10 Mila tonnellate di plastica ogni anno. Almeno stando ad una recente statistica.
Questa crescita esponenziale, mette i brividi; maggiormente se consideriamo come, tra le produzioni più distruttive per l’ambiente, ci sono i prodotti monouso e gli imballaggi.
Peggio, c’è la considerazione che questo materiale, sia per convenzione al 3° posto tra le maggiori produzioni. Eppure, una nuova speranza arriva da un team di ricercatori, che è riuscito ad ideare un nuovo sistema che potrebbe, nel tempo, risolvere il danno da plastica (forse) alla radice.
Distruggere la plastica si può accelerando il processo di decomposizione
Andiamo per gradi. L’industria petrolchimica produce più di 88 milioni di tonnellate di polietilene, cioè il più semplice dei polimeri sintetici, ed è anche la più comune fra le materie plastiche. Gli scienziati secondo uno studio pubblicato di recente su Science hanno trovato un nuovo metodo valido per riciclarlo. Tutto questo, potrebbe aiutare ad affrontare la crescente crisi d’inquinamento da plastica.
Il polietilene si presenta in diverse forme ed è utilizzato a più livelli e per le più diversificate produzioni; dai sacchetti di plastica agli imballaggi alimentari, dall’isolamento elettrico alle tubazioni industriali.
Tutto questo ci porta, sia ad una sorta di “benessere” globale, sia purtroppo ad una crescita sempre maggiore che indissolubilmente si lega all’inquinamento. Infatti, essendo così comune, si espande sempre di più nella produzione, ma soprattutto nell’ambiente scontrandosi con la triste realtà di un sistema di riciclaggio inefficiente e, oserei dire, quasi fatiscente.
Uno dei principali motivi, è che finiamo per buttare via moltissima plastica. Ovviamente, la massiccia produzione e il conseguente e selvaggio consumo, staccano di netto sullo smaltimento. Quindi, tristemente, finisce nelle discariche o nell’oceano, dove si rompe lentamente, o viene bruciato negli inceneritori di rifiuti che emettono sostanze chimiche tossiche.
Ma nel nuovo studio i ricercatori, hanno trovato un modo per accelerare il processo di decomposizione del polietilene e trasformarlo in molecole alchil aromatiche, che vengono utilizzate come tensioattivi nei cosmetici e nei detersivi per il bucato, nei lubrificanti per macchinari e nei fluidi refrigeranti.
“A livello globale, oggi è un mercato da 9 miliardi di dollari“, ha detto in un’e-mail Susannah Scott, un ingegnere chimico dell’Università della California, Santa Barbara, co-autore dello studio, in riferimento alle molecole alchil aromatiche. “Qui c’è valore economico e scala“.
Smaltimento a 570°F senza solventi
Non è la prima volta che gli scienziati hanno capito come scomporre il polietilene: ci sono altri metodi per riciclare chimicamente il materiale. Ma i metodi convenzionali per decomporre la plastica richiedono di riscaldarla a temperature comprese tra i 983 e i 1832 gradi Fahrenheit (500 e 1000 gradi Celsius) e di utilizzare solventi o idrogeno aggiunto per accelerare il processo.
Al contrario, il nuovo metodo degli sviluppatori richiede solo il riscaldamento fino a circa 570 gradi Fahrenheit (300 gradi Celsius) e non utilizza solventi o idrogeno aggiunto, ma si basa solo su un catalizzatore relativamente delicato di platino con ossido di alluminio.
Il loro processo ha aiutato a disassemblare i polimeri della plastica in modo meno grossolano, permettendo loro di estrarre le preziose molecole alchil aromatiche intatte.
La studiosa Scott, ha detto che il catalizzatore funziona per “tagliare i legami che tengono la catena del polimero in pezzi più piccoli“; trasformando infine la plastica solida in un liquido dal quale possono estrarre le preziose sostanze chimiche.
Il nuovo processo degli autori è molto meno dispendioso in termini di energia rispetto ad altri mezzi per decomporre il polietilene. Questa è una buona notizia per l’ambiente. E’ anche più economico, il che è una buona notizia per le aziende che potrebbero voler aumentare la scala. La tecnica non è ancora pronta per questa scalata, ma la scoperta potrebbe essere utilizzata per dare alla plastica una nuova vita come materia prima di valore invece che come rifiuto inquinante.
Nota integrativa
La nuova scoperta, specificano gli autori della nuova ricerca, non deve certo essere un deterrente per dare all’industria petrolchimica la licenza per produrre ancora più plastica.
In quanto la creazione del polietilene, minaccia anche la salute pubblica a causa delle emissioni tossiche e del clima.
“Dobbiamo ancora lavorare per abituare il mondo dalla minor produzione e, al minor consumo di plastica. Ma la nuova tecnologia potrebbe contribuire a ridurre la quantità di rifiuti che vengono prodotti e a ripulire il casino che abbiamo già tra le mani”.
Una cosa però è certa, se esistesse un processo denominato “disastro ambientale” l’uomo sarebbe condannato all’unanimità, in quanto ignorare i fatti non li cambia.