Scoperta una nuova classe di esopianeta composto da roccia e acqua

Intorno alle stelle più comuni dell'universo è stato scoperto un nuovo tipo di esopianeta, formato per metà da roccia e per metà da acqua; si tratta di una scoperta interessante soprattutto per la ricerca della vita nel cosmo

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Intorno alle stelle più comuni dell’universo è stato scoperto un nuovo tipo di esopianeta, formato per metà da roccia e per metà da acqua; si tratta di una scoperta interessante soprattutto per la ricerca della vita nel cosmo, affermano i ricercatori.

Le nane rosse sono il tipo più comune di stella, costituendo oltre il 70% della popolazione stellare dell’universo. Queste stelle sono piccole e fredde, dotate di massa in genere circa un quinto del sole e fino a 50 volte più deboli.

Il fatto che le nane rosse siano così comuni ha indotto gli scienziati a chiedersi se potrebbero avere pianeti che possono ospitare la vita come la conosciamo sulla Terra. Ad esempio, nel 2020, gli astronomi hanno scoperto Gliese 887, la nana rossa più brillante del nostro cielo alle lunghezze d’onda della luce visibili, che potrebbero ospitare un pianeta all’interno della sua zona abitabile, dove le temperature superficiali sono adatte a mantenere acqua liquida.

Tuttavia, non è chiaro se un esopianeta in orbita attorno ad una nana rossa possa essere potenzialmente abitabile, in parte a causa della mancanza di comprensione che i ricercatori hanno sulla composizione di questi mondi, in parte per via delle frequenti turbolenze di questa tipologia di stelle. Precedenti ricerche suggerivano che i piccoli esopianeti – quelli meno di quattro volte il diametro della Terra – in orbita attorno a stelle simili al Sole sono generalmente rocciosi o gassosi, e possiedono un’atmosfera sottile o densa di idrogeno ed elio.

Nel nuovo studio, gli astrofisici hanno cercato di esaminare le composizioni degli esopianeti attorno alle nane rosse. Si sono concentrati su piccoli mondi che si trovano intorno a nane rosse più vicine, e quindi più luminose e più facili da studiare, osservate dal Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS) della NASA.

Le stelle sono molto più luminose dei loro pianeti, quindi gli astronomi non possono vedere direttamente la maggior parte degli esopianeti. Invece, gli scienziati di solito rilevano gli esopianeti attraverso gli effetti che questi mondi hanno sulle loro stelle, come il calo di luminosità che si genera creata quando un pianeta passa davanti alla sua stella rispetto al nostro punto di vista, o le microscopiche oscillazioni gravitazionali nel movimento di una stella causate dall’esistenza di un pianeta in orbita intorno ad essa.



Catturando l’ombra creata quando un esopianeta passa davanti alla sua stella, gli scienziati possono calcolare il diametro del pianeta. Misurando la piccola attrazione gravitazionale che un pianeta esercita su una stella, i ricercatori possono trovarne la massa.

Nel nuovo studio, gli astrofisici hanno analizzato 34 esopianeti sui quali avevano dati precisi su diametro e massa. Questi dettagli hanno aiutato i ricercatori a stimare le densità di questi mondi e a dedurne le probabili composizioni.

Possiamo dividere questi mondi in tre famiglie“, ha detto in un’intervista a Space.com il coautore dello studio Rafael Luque, astrofisico dell’Università di Chicago. Oltre a 21 pianeti rocciosi e sette pianeti gassosi, hanno trovato sei esempi di un nuovo tipo di esopianeta, acquoso, che è composto per circa metà da roccia e l’altra metà da acqua, in forma liquida o di ghiaccio.

È stata una sorpresa vedere le prove di così tanti mondi acquatici in orbita attorno al tipo di stella più comune nella galassia“, ha detto Luque in una dichiarazione. “Questo ha enormi conseguenze per la ricerca di pianeti abitabili“.

I modelli di formazione planetaria degli scienziati suggeriscono che i piccoli pianeti che hanno rilevato si sono probabilmente evoluti in tre modi diversi. I pianeti rocciosi potrebbero essersi formati da materiale relativamente secco vicino alle loro stelle.

I piccoli pianeti rocciosi hanno una densità “quasi identica a quella terrestre“, ha detto il coautore dello studio Enric Pallé, un astrofisico dell’Istituto di astrofisica delle Isole Canarie. “Ciò significa che le loro composizioni devono essere molto, molto simili“.

Al contrario, i pianeti acquosi probabilmente sono nati da materiale ghiacciato e sono nati lontano dalle loro stelle, oltre la “linea di ghiaccio” dove le temperature superficiali sono gelide. Successivamente sono migrati più vicino al punto in cui gli astronomi li hanno rilevati.

Anche i pianeti gassosi sono ricchi di acqua e potrebbero essersi formati in modo simile ai pianeti acquosi. Tuttavia, è probabile che inizialmente possedevano più massa e hanno potuto quindi raccogliere un’atmosfera di idrogeno ed elio attorno a sé prima di avventurarsi verso l’interno.

Sebbene i pianeti rocciosi siano relativamente poveri di acqua e i pianeti acquosi ne siano ricchi, ciò potrebbe non significare che i primi siano aridi e i secondi siano coperti di oceani, hanno affermato i ricercatori.

La Terra ha solo lo 0,02% della sua massa sotto forma di acqua, il che la rende dal punto di vista dell’astrofisica un mondo arido, anche se tre quarti della superficie sono coperti d’acqua“, ha detto Pallé. Al contrario, sebbene i pianeti acquosi scoperti dai ricercatori siano metà acqua, “ciò non significa necessariamente che abbiano enormi oceani sulla loro superficie“, ha detto Pallé. “L’acqua potrebbe essere mescolata con la roccia“.

In futuro potremo sapere se questi tre tipi di mondi si trovano anche intorno a stelle più grandi, ha detto Luque. “Una nuova generazione di strumenti nei telescopi terrestri, specialmente negli Stati Uniti e in Europa, ci consentirà di effettuare queste misurazioni“.

Un’altra direzione da seguire è studiare la composizione e le proprietà di questi mondi acquosi. “Con il James Webb Space Telescope, potremo analizzare le loro atmosfere, se ne hanno, e vedere come immagazzinano l’acqua“, ha detto Luque. “Questo ci dirà molto sulla loro formazione, evoluzione e struttura interna“.

Lo studio è stato dettagliato online giovedì (8 settembre) sulla rivista Science.

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