La corsa ad un vaccino contro Covid19, la malattia indotta dal virus SARS-COV-2 è scattata pochi giorni dopo il 10 gennaio di quest’anno quando dei ricercatori cinesi hanno pubblicato il genoma di un virus sconosciuto simile a quello che aveva provocato nel 2003 l’epidemia di SARS che vantava il triste primato del 10% di mortalità.
Si comprese subito che per le caratteristiche specifiche di questo patogeno la pandemia che si prospettava sarebbe stata altamente pericolosa e sostanzialmente inarrestabile. E’ partita quindi la più straordinaria mobilitazione scientifica della storia dell’umanità per produrre l’unica arma decisiva nella lotta al nuovo coronavirus: il vaccino.
Ad inizio di aprile si contavano già un’ottantina di aziende e centri di ricerca in 19 paesi diversi intenti a sviluppare un potenziale vaccino per Covid19. La sfida è gigantesca, mettere a punto un vaccino in tempi brevi, sicuro ed efficace e produrlo per miliardi di dosi, potrebbe rivelarsi un’impresa proibitiva.
Un vaccino tradizionale iniettato nel corpo introduce frammenti selezionati di un virus nelle cellule vicine al luogo dell’iniezione. Il sistema immunitario riconosce come minacce gli antigeni (proteine riconosciute come pericolose) e reagisce producendo anticorpi in grado di neutralizzare il virus in qualunque parte del nostro organismo.
In seguito il sistema immunitario conserverà “memoria” degli invasori in modo da essere in grado di sconfiggerli nuovamente in futuro. Per predisporre un vaccino che si basa su questo metodo occorre far crescere virus indeboliti in uova di pollo o cellule di mammiferi o insetti in modo da poter estrarre i “pezzi” desiderati. Con un patogeno nuovo come SARS-COV-2 possono servire anni prima di “azzeccare” il pezzo giusto. Troppo tempo per essere utile nell’attuale fase pandemica, anche in relazione alle prevedibili successive ondate.
Per questo la maggior parte degli studi in corso si è orientato verso la produzione di vaccini genetici che utilizzano informazioni tratte dal genoma del virus per la produzione di antigeni selezionati. In altre parole si cerca di “addestrare” le cellule umane a produrre un antigene chiamato proteina Spike che sporge da SARS-COV-2 come una sorta di “bastone-chiave” in grado di legare il virus alla cellula e permettere così l’infiltrazione di quest’ultima.
I metodi più usati per produrre vaccini genetici sono essenzialmente tre. Il primo è un plasmide, un piccolo filamento circolare di DNA superavvolto a doppia elica, presente nel citoplasma. Questi vaccini sono stati sviluppati per uso veterinario mentre per l’utilizzo umano siamo ancora molto indietro, anche per la difficoltà che hanno ad attraversare la membrana esterna della cellula. Una delle aziende che seguono l’approccio con il plasmide è l’americana Inovio Pharmaceuticals che stava già lavorando ad un vaccino simile per un altro coronarivus responsabile della MERS. Su questa piattaforma l’azienda statunitense sta tentando di sviluppare un vaccino per Covid19.
Un secondo approccio che salta il passaggio con il plasmide è quello dei vaccini ad RNA. Si tratta di una sequenza di RNA sintetizzata in laboratorio che, una volta iniettata nell’organismo umano, induce le cellule a produrre una proteina simile a quella a quella verso cui si vuole provocare la risposta immunitaria (producendo anticorpi che, conseguentemente, saranno attivi contro il virus). Questi vaccini sembrano produrre un’immunità più potente e quindi necessitano di dosi più basse. L’azienda statunitense Moderna segue questo approccio per produrre un vaccino efficace contro SARS-COV-2. Il limite di questi vaccini è che sono meno stabili di quelli a DNA, devono essere conservati congelandoli o refrigerandoli, essendo molto sensibili alle temperature con conseguenti seri problemi nella logistica.
La Johnson e Johnson invece lavora sulla terza tipologia di vaccino: inserire lo schema a DNA in un comune virus del raffreddore. Una volta iniettato il vettore adenovirale, questi penetra facilmente le cellule trasportando con se lo schema. Per evitare rischi che un adenovirus possa replicarsi nel corpo provocando l’insorgenza di malattie, la Johnson e Johnson utilizza un virus ingegnerizzato che non è in grado di replicarsi in una cellula umana.
Tutte e tre le tipologie di vaccini hanno già iniziato la loro sperimentazione saltando, vista la gravità della situazione, la rigidità dei protocolli che vorrebbero la sperimentazione sugli esseri umani soltanto dopo un lungo trial di prova sugli animali. Anche se questo ha ridotto molto i tempi di sviluppo, niente ci assicura che soprattutto per i vaccini genetici che devono ancora affrontare trial estesi con un grande numero di volontari, ci possano volere anche un paio d’anni per giungere ad un prodotto efficace ed affidabile.
La notizia positiva è che SARS-COV-2 sembra essere un virus che muta poco suggerendo che un vaccino, una volta sviluppato, possa dare un’immunità piuttosto lunga, non come quello dell’influenza che deve rinnovarsi ogni anno per l’alta capacità mutagena dei patogeni responsabili.
L’ultimo ostacolo sarà poi rappresentato dai grandi problemi produttivi e logistici correlati all’enorme numero di dosi che si renderanno necessarie una volta individuato il vaccino sicuro ed efficace. La produzione di vaccini basati su plasmidi e su RNA non è mai stata scalata fino a milioni di dosi ed aziende piccole come Inovio e Moderna non sono certamente in grado di allestire fasi produttive così impegnative.
Leggermente migliore è la situazione di un eventuale vaccino ad adenovirus che si presta maggiormente a produzioni consistenti, considerando anche anche il diverso livello produttivo di un’azienda come la Johnson e Johnson.
In conclusione, alla luce delle attuali sperimentazioni è difficile prevedere un successo della ricerca prima del tardo autunno di quest’anno o degli inizi del 2021.
Fonti:
ARS Toscana
Le Scienze, giugno 2020, edizione cartacea