L’ultima sentenza capitale italiana

Il massacro di Villarbasse fu l'ultimo caso giudiziario su cui venne applicata la pena di morte in Italia

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Siamo nel mese di novembre del 1945. La guerra è finita da pochi mesi. Il paese è ancora occupato dalle truppe anglo-americane ed è percorso da gruppi di sbandati e disperati che si aggirano per un’Italia sconvolta dalla tragica avventura nazifascista.
Lentamente il paese cerca di tornare alla normalità, anche per merito di persone come l’avvocato sessantacinquenne Massimo Gianoli, proprietario della Cascina Simonetta in Piemonte. Gianoli si è dedicato anima e corpo in questa azienda agricola, tanto da dimettersi dalla Direzione Generale di Agip Piemonte. Ne ha fatto un’azienda modello, tecnologicamente all’avanguardia per l’epoca.
E’ un uomo mite e gentile che, durante la guerra, ha aiutato tutti coloro che si sono presentati in fuga o in difficoltà alla sua cascina tanto da essere bollato da alcuni come collaborazionista dei fascisti e dalla parte avversa come simpatizzante dei partigiani.
L’avvocato dà lavoro nell’immediato dopoguerra a molte persone che non sanno come sbarcare il lunario. Così fa con Franco Saporito, un giovane siciliano di appena 20 anni che sembra animato da una grande voglia di lavorare. Saporito viene assunto come “stagionale” per la raccolta del grano e del granturco.
Spesso, al termine della dura giornata di lavoro, il giovane ottiene in prestito una bicicletta con la quale raggiunge la vicina stazione ferroviaria di Rivoli dove si raduna la gente del Sud per scambiare quattro chiacchiere tra una sigaretta e l’altra.
Dopo alcuni mesi, il 17 novembre 1945, Saporito si licenzia, lascia la cascina Simonetto perché, dice lui, ha ricevuto un’eredità e quindi ritorna al suo paese. Tre giorni dopo, il 20 novembre, nella notte scompaiono dieci persone che abitualmente risiedevano nella cascina: l’avvocato Gianoli, la governante Teresa Delfino, il mezzadro Antonio Ferrero e la moglie Anna Varetto con il loro genero Renato Morra, due donne impegnate nei lavori di casa quotidiani, Fiorina Maffiotto e Rosa Martinoli, e un nuovo lavorante, Marcello Gastaldi. A queste persone vanno aggiunti Gregorio Doleatto e Domenico Rosso, il primo marito di Fiorina e il secondo di Rosa che, preoccupati per il ritardo delle mogli, si erano recati alla cascina, scomparendo nel nulla anche loro.
Il primo a capire che qualcosa non va è il lattaio che, il 21 novembre, passa come ogni mattina dalla cascina per acquistare il latte che venderà nel suo negozio. In quel mentre arriva l’uomo di fiducia dell’avvocato Berto Reinaudo che sa come entrare nel complesso attraverso un’apertura della recinzione.
Quello che trovano i due uomini è sconvolgente: in cucina una bambino di tre anni, nipote del fittavolo, piange disperatamente. La casa sembra attraversata da un tornado piatti e suppellettili rotte ed un grande disordine. I due avvisano immediatamente i carabinieri di Rivoli; che nella cascina sia accaduto qualcosa di molto brutto non ci sono dubbi.
Iniziano le ricerche nei boschi circostanti. La sparizione collettiva di dieci persone sembra un fatto inspiegabile che nessuno collega alle dimissioni di Saporito. Viene rinvenuto un cappello, nel suo interno ci sono tracce di materia cerebrale (in seguito si appurerà che apparteneva all’avvocato Gianoli).
La vicina cittadina di Villarbasse viene presa d’assalto dai giornalisti. Nelle indagini viene persino coinvolta la Polizia Militare americana. Otto giorni dopo, il 29 novembre la macabra svolta, viene aperto un pozzo che permette l’accumulo dell’acqua per l’intero complesso della cascina e qui si scoprono i corpi delle dieci persone scomparse.
Tutte le vittime sono state uccise a bastonate, mutilati ed alcuni di loro gettati ancora vivi nel pozzo. Il cadavere dell’avvocato Gianoli è quello su cui gli assassini si sono accaniti di più. Le forze dell’ordine cercano i colpevoli di questa efferata strage nel sottobosco della delinquenza e tra gli sbandati che si aggirano per le campagne cercando di ammantare le loro imprese criminose di un’improbabile colorazione politica.
Viene anche offerta una taglia di 500.000 lire per chi fornirà notizie utili ad identificare gli autori della strage. Si tratta di una somma ragguardevole se si pensa che il bilancio di una famiglia media si aggira intorno alle 18.000 lire.
La svolta nelle indagini avviene quando su segnalazione di alcuni cittadini si perquisisce un edificio in via Rombò, a Rivoli. Viene rinvenuta una carta annonaria con il numero ancora leggibile, un cappotto forse macchiato di sangue e degli scarponi infangati.
La carta appartiene a Giovanni D’Ignoti, nativo di Mezzojuso: da lui si risale ai complici: provengono tutti dall’identico paese, si chiamano Francesco La Barbera, Giovanni Puleo e Pietro Lala, alias Francesco Saporito. Li inchiodano alcune prove come la presenza di fango sotto gli scarponi del D’Ignoti, identico a quello della cascina di Villarbasse.
Il 24 marzo gli inquirenti sono in grado di formalizzare le accuse. Saporito-Lala, ancora latitante, ha concepito il piano. La sua intenzione è quella di derubare l’avvocato Gianoli che lo ha accolto con gentilezza e comprensione. Per questo quella notte con il viso mascherato, insieme ai suoi complici si introduce nella cascina.
Teresa Delfino però riconosce dalla voce il Saporito e avventatamente ne grida il nome ad alta voce. E’ la condanna a morte per tutti. Gli assassini li massacrano a colpi di bastone e li gettano nel pozzo. Il bottino di questo efferato massacro ammonta a 40.000 lire e dei salami!
Alcuni riscontri chimici, la natura del fango trovato sotto gli scarponi e, soprattutto, la confessione di Giovanni d’Ignoti, indotta con un bluff dagli inquirenti, incastra gli assassini. La loro sorte è segnata.
Già il 31 marzo, alcuni giorni dopo la scoperta del massacro, su «La Stampa» si leggeva: «Puleo, La Barbera, D’Ignoti, indipendentemente dalla cattura di Saporito-Lala, in applicazione dell’art. 1 del Decreto luogotenenziale 10 maggio 1945 n. 234, sono passibili della pena di morte, comminata appunto ai colpevoli di rapina commessa con armi e in circostanze che abbiano minorato la privata difesa. Quanto al Saporito-Lala, potrà essere condannato in contumacia». Il Capo dello Stato Enrico De Nicola respinge la domanda di grazia presentata dai difensori degli imputati.
Così il 4 marzo 1947 alle 7.41 di mattina, presso il poligono militare della Basse di Stura, alla periferia di Torino, i tre complici di Saporito-Lala vengono fucilati da un plotone composto da 36 uomini, la metà dei quali con il moschetto caricato a salve, in modo che nessuno di essi sappia se ha sparato proiettili veri o a salve.
I tre sono legati e bendati, dopo aver ricevuto il conforto religioso. Sono seduti su delle sedie con le mani legate dietro la schiena. Il D’Ignoti farfuglia preghiere inframmezzati da lamenti, gli altri due fumano l’ultima sigaretta. Con la salva delle 36 bocche da fuoco si consuma l’ultima esecuzione capitale italiana.
E la mente perversa del massacro, Saporito-Lala? L’uomo ha trovato una morte misteriosa qualche mese prima in una strada di Pizzo di Case, frazione di Mezzojuso, il paese natio, in provincia di Palermo, dove era rientrato dopo l’efferato delitto. Non si saprà mai chi e perché lo ha ucciso.
La Costituzione italiana, approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1º gennaio 1948, abolì definitivamente la pena di morte per tutti i reati comuni e militari commessi in tempo di pace. La misura venne attuata con i decreti legislativi 22 gennaio 1948, n. 21.

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