Se prendete una cabina armadio bella grande e al posto di specchi e maniglie, ci aggiungete delle carrucole, qualche migliaio di luci colorate, bottoni e leve avrete un’idea, approssimativa, ma piuttosto corretta, di un computer stile anni ‘40. E in effetti il nome stesso, Colossus, quello dato al primo elaboratore elettronico del mondo assemblato nei sotterranei di Bletchley Park, nel Regno Unito, non suggerisce di certo le silhouette minimaliste dei dispositivi attuali.
Al tempo la potenza di calcolo correva in parallelo con file di valvole termoioniche, componenti elettroniche ed enormi pannelli. Quantità era sinonimo di una capacità di elaborazione che iniziava a sfidare l’umana intelligenza. Che comunque restava ancora qualche passo avanti in fatto di intuizione ed elaborazione di strategie complesse, rispetto alla sua controparte artificiale.
Dal primo colosso costruito nella seconda metà degli anni Quaranta dovremo attendere qualche anno prima che il computer della IBM, Deep Blue, dia scacco matto al Maestro Garry Kasparov in una sfida rimasta nella storia. Macchina batte uomo e la macchina si era ridotta, anche se di poco, assumendo i vaghi, per quanto ancora piuttosto ingombranti, contorni di un frigorifero. Misure oversize ancora una volta, ma tecnici, ingegneri informatici e programmatori erano già al lavoro per sviluppare i nuovi modelli, prototipi di quelli attuali.
È oggi l’epoca dei microcomputer, settore in cui IBM ha lanciato la sfida agli altri giganti in campo, con la recente notizia del computer più piccolo del mondo. Dalla cabina armadio siamo passati alle dimensioni del chicco di sale, un po’ più piccolo a dire il vero. Il progetto della IBM si integra in un modello di sviluppo di sistemi di calcolo miniaturizzati che rappresenteranno il futuro dell’Internet of things. Installabili in qualunque dispositivo, potranno fornire indicazioni e dialogare tra loro generando un ambiente universalmente connesso.
E visto che la gara è aperta, a raccogliere la sfida della IBM ci ha pensato l’Università del Michigan che sempre nel 2018 ha annunciato di aver realizzato un altro computer più piccolo del mondo. Poco più piccolo di un chicco di riso, è stato realizzato con la funzione di monitorare con una precisione elevatissima i livelli della temperatura, anche se, come hanno fatto notare i responsabili della IBM, il computer in questione non avrebbe le caratteristiche di un vero e proprio micro PC, dato che, in assenza di alimentazione, perde completamente memoria dei propri dati. E questo è tutt’altro che rassicurante.
Una delle storie più curiose nella lunga marcia rispetto alla miniaturizzazione delle componenti elettroniche riguarda due menti eccezionali: quella di Claude Shannon, matematico e del suo collega Edward Thorpe. Furono loro a realizzare negli anni ‘60 il primo computer indossabile capace di entrare all’interno di una scarpa. Un gadget futuristico che sembra uscito da un film di James Bond e, in effetti, le affinità tra i due geniali inventori e il personaggio creato da Ian Fleming ci sono, e sono parecchie. Non fosse per il fatto che i due inventori sperimentarono le capacità di calcolo del loro dispositivo portatile, che per l’occasione infilarono in una scarpa, nei casinò di Reno e Las Vegas per calcolare traiettorie ed effettuare proiezioni statistiche più attendibili per compiere le loro puntate. A scopo scientifico, ovviamente.
Un wearable PC a tutti gli effetti, anche se di certo le capacità di calcolo del mini PC ideato da Thorpe e Shannon apparirebbero del tutto ridicole rispetto ai sistemi attuali. Prima dell’annuncio della IBM, Raspberry aveva già, nel 2012, costruito quello che all’epoca ottenne il titolo di computer più piccolo del mondo. Il Raspberry Pi misurava poco, 65 mm per 54 mm, e si impose all’attenzione del pubblico sia per le sue ristrette dimensioni che per le sue capacità di calcolo. L’impostazione del sistema hardware del mini PC della Raspberry è stata però presto rimpiazzata dalle innovazioni tecnologiche nel settore del cloud computing. Le capacità di immagazzinamento, così come di programmi e applicativi per gli utenti in cloud ha trasformato l’era dei micro computer portando a innovazioni come quelle di Solu, realizzato da un’azienda svedese nel 2015. Operando in cloud necessita di un minor spazio di archiviazione fisico e può quindi offrire agli utenti una maggiore velocità e tempi di risposta più rapidi rispetto ai modelli precedenti.
Un passo decisivo nello sviluppo di computer sempre più piccoli che non necessiteranno più di grandi memorie, riducendone così ulteriormente le dimensioni.