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Il trauma dei templari

Per i templari, che in qualche modo si sentivano appartenere a una elìte sociale e culturale prestigiosa e che, anzi, si aspettavano una sorta di “assoluta” riconoscenza sociale ed “istituzionale” per la loro difesa della cristianità (e del potere papale), l’arresto, il processo ed il conseguente stigma devono essere giunti certamente inaspettati e come tali assai frastornanti ed inaccettabili

Analisi psicologica del “Processus contra Templarios
di Marco Strano, Simone De Fraja e Diego Volpe

Il controverso “Processus contra Templarios” è iniziato nel 1308 ed è durato alcuni anni. E’ stato descritto con dovizia di particolari da diversi storici. È giunta così ai giorni d’oggi una precisa cronologia dei fatti che hanno condotto ad una cruenta dissoluzione uno degli ordini monastici e cavallereschi più potenti della storia.

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Abbiamo quindi deciso di effettuare una analisi psicologica del “processus”, cercando di ipotizzare ciò che ragionevolmente è passato attraverso la mente dei Cavalieri del Tempio
dalla fase del loro arresto fino al momento subito precedente alle loro esecuzioni. I Monaci Guerrieri “dalla rossa croce sul mantello” erano, infatti, comunque degli uomini e come tali, per quanto addestrati militarmente e temprati spiritualmente, portatori di incertezze, ansie e fragilità e di conseguenza soggetti a potenziali traumi psicologici.

Eventi solitamente traumatici sono quelli che riguardano le minacce all’integrità fisica o
all’identità psicologica ma anche situazioni apparentemente meno eclatanti quali le umiliazioni e le esperienze di mancanza di rispetto che interferiscono sull’autostima dell’individuo possono rappresentare l’origine di un trauma psicologico.

I Templari ed il trauma della carcerazione

Per i Templari, l’arresto, la dura carcerazione, le torture sono state esperienze di per sé drammatiche ma è nostra opinione che anche l’umiliazione connessa alla repentina perdita di prestigio e status sociale abbia certamente rappresentato per loro una esperienza fortemente traumatizzante.

Siamo convinti che un criminale (comune o politico) abbia messo in conto di poter incappare nel corso della sua vita in un arresto e di dover affrontare così l’umiliante macchina giudiziaria. Qualora non lo abbia fattoo le opportunità di razionalizzare ed accettare l’accaduto nella consapevolezza di aver violato delle norme penali e sociali sono comunque parecchie.

Ma per un Cavaliere Templare, che in qualche modo si sentiva appartenere a una elìte sociale e culturale prestigiosa e che, anzi, si aspettava una sorta di “assoluta” riconoscenza sociale ed “istituzionale” per la sua difesa della cristianità (e del potere papale), l’arresto, il processo ed il conseguente stigma devono essere giunti certamente inaspettati e come tali assai frastornanti ed inaccettabili.

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Per tutti i Templari lo status sociale era fortemente correlato all’appartenenza all’Ordine e al prestigio ed al potere goduto da esso. Quello che è facilmente intuibile è che i Templari, infangati, arrestati e poi rinchiusi nelle carceri francesi, abbiano certamente percepito
una repentina perdita del loro (elevato) status sociale ma, sopratutto, abbiano cominciato a rendersi conto che il loro “gruppo di status” non poteva più assicurargli quella tutela e quella immagine pubblica di cui fino a poco tempo prima avevano goduto.

Questo veloce quanto inaspettato cambio di prospettiva deve aver ragionevolmente influenzato la loro autostima e la loro identità, generando nei Templari imprigionati sentimenti di angoscia e frustrazione. E su tali vissuti traumatici è facile immaginare
l’insorgenza di amarezza e di sconforto, se non di veri e propri stati patologici, ragionevolmente sul versante ansioso-depressivo.

Abbiamo quindi motivo di pensare che la drammatica vicenda giudiziaria che li ha
coinvolti gli possa aver generato una profonda condizione di disagio psicologico se non vere e proprie forme psicopatologiche.

Dopo il tragico e violento arresto subito, i Templari vennero spogliati dei loro abiti, messi
sotto custodia e reclusi, alcuni di loro per lungo tempo. I Templari avevano adottato una specifica simbologia, a partire dalla rossa croce patente sul loro mantello e su tali simboli si era in gran parte costruita la loro identità ed il loro Sé.

La perdita di tale simbologia (dal momento del loro arresto infatti i Templari erano stati privati dei loro abiti tradizionali) avrà
certamente provocato un ulteriore trauma in loro e tale nostra ipotesi è anche supportata dalla presenza di numerosi simboli templari realizzati attraverso graffiti sui muri nei luoghi dove sono stati detenuti (da noi a lungo studiati) al fine, probabilmente, di riappropriarsi di quei simboli e con essi della propria identità.

La perdita dei simboli di appartenenza, soprattutto degli abiti tradizionali, su cui i Templari avevano certamente “investito affettvamente” (poiché rappresentavano il segno della rassicurante appartenenza ad una vera e propria “famiglia”), deve aver rappresentato
per loro un vero e proprio “lutto”, una perdita potenzialmente legata poi a vissuti depressivi. Nel processo parigino contro l’Ordine vennero inoltre applicate le torture più frequenti in quei tempi, spesso con conseguenze estreme, al punto che cinquantatré templari morirono sotto le mani degli aguzzini: un numero corrispondente a circa un decimo dei reclusi.

La mente corre subito ai tragici ed inquietanti adattamenti cinematografici quando si
parla di prigionia medievale ed in effetti la realtà era molto simile. Grandi stanze poco illuminate, sporche ed infestate da topi, umide, fredde, e generalmente sottoterra, alimentazione insufficiente ed angherie e violenze da parte dei carcerieri hanno sostituito la vita certamente non agevole ma dignitosa dei monaci guerrieri.

Colonne lavorate grezzamente con attaccati anelli di ferro arrugginiti, catenacci, manette e cavigliere gelide. Questo era il carcere duro nel Medioevo e questo è ciò che hanno vissuto i Cavalieri del Tempio all’epilogo della loro epopea.

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Le nostre valutazioni, per onestà intellettuale, propongono più interrogativi che affermazioni poiché, ovviamente, non è stato possibile applicare i metodi di studio classici della Psicologia, vale a dire i colloqui e l’osservazione dell’individuo. Le nostre considerazioni si basano pertanto sullo studio di documenti storici e su alcuni sopralluoghi effettuati nei luoghi dove i Templari sono stati ristretti negli anni del “processus” (soprattutto in Francia) e quindi su un approccio analitico di tipo deduttivo.

Il ruolo sociale dei Templari era inoltre per certi versi “contraddittorio”. Essere infatti contemporaneamente un guerriero assetato di sangue ed un monaco buono e caritatevole non doveva essere per i Cavalieri del Tempio una condizione scevra da pressioni psicologiche interne ed esterne.

In questo emerge la genialità di Bernardo di Chiaravalle, principale riferimento culturale e teologico dei Templari che redigendo e pubblicando il documento “De laude novae ad milites templi” e definendo l’uccisione dei nemici come la categoria comportamentale del “malicidio” (giustificando così scaltramente l’omicidio come forma di eliminazione del male e non di una persona), era riuscito in linea teorica ad aggirare la proibizione di uccidere da sempre predicata dalla dottrina cristiana.

Si prospetta di fatto nella “Regola dei Templari” un evidente caso di quello che lo Psicologo statunitense Albert Bandura ha definito “etichettamento eufemistico” vale a dire una delle tecniche di “disimpegno morale” che talvolta le persone pongono in essere per facilitare il compimento di azioni che vanno contro il loro quadro morale di riferimento. In pratica definire una uccisione con un altro termine (malicidio) tende a spersonificare la vittima
della propria azione (non si uccide una persona ma il male) e questo rende meno doloroso il passaggio all’atto che diviene così maggiormente compatibile con la morale cattolica di cui i Templari erano ovviamente intrisi.

Ma al di là degli scritti in grado di giustificare formalmente la violenza e dell’applicazione di tecniche di disimpegno morale, il doppio ruolo sociale dei Templari di monaci e di guerrieri aveva però generato quasi certamente la costruzione in loro di un Sé complesso e per certi tratti contraddittorio, con cui il loro equilibrio psichico aveva già dovuto fare i conti indipendentemente dal trauma legato al “processus”.

Sé ed identità sono infatti “costrutti cognitivi” che condizionano l’interazione sociale e che, a loro volta, subiscono l’influenza della società. Analizzando la storia dei Templari
non è difficile ipotizzare quindi che coloro che sono entrati nell’Ordine negli ultimi anni della sua epopea possano aver inizialmente costruito il proprio Sé e la propria autostima sul prestigio goduto dalla compagine e possano poi aver vissuto come ingiusta, ma soprattutto inaspeƩttata, l’ondata di fango e di stigmatizzazione che si è abbattuta su di loro con il “processus”, sperimentando una profonda crisi psicologica.

Gli autori di questo articolo sono convinti che uno degli elementi maggiormente caratterizzanti dal punto di vista psicologico del “processus” sia stato la percezione
dell’ingiustizia da parte dei Cavalieri processati e che questo abbia rappresentato un fattore forse ancor più traumatico ed angosciante delle torture (al dolore fisico e alle privazioni erano in parte temprati dalla vita da soldati e da monaci) e del repentino cambio di status.

I resoconti storici ci segnalano infatti che la maggior parte dei Templari erano consapevoli
dell’infondatezza delle accuse rivolte nei loro confronti e ritenevano le umiliazioni che erano costretti a subire assolutamente immeritate. La moderna Psicologia considera comunque l’ingiustizia come una vera e propria “ferita dell’IO”, che a volte stenta a rimarginarsi anche in persone apparentemente dotate di alti livelli di resilienza. La Neuropsicologia ha addirittura ipotizzato che il sentimento di ingiustizia sia un elemento
particolarmente destabilizzante in colui che lo subisce poiché genera delle alterazioni biochimiche di alcuni neurotrasmeƫtori tra cui l’ossitocina.

Insomma vivere una ingiustizia può provocare una grande sofferenza che va a toccare i livelli più profondi e delicati della mente umana e certamente i cavalieri Templari in quella fase della loro storia l’hanno sperimentata. All’ingiustizia oltretutto è difficile addestrarsi e desensibilizzarsi.

Ma torniamo alla questione del doppio ruolo dei Templari e dell’influenza di esso sulla loro psiche.

Sappiamo che le persone che rivestono due ruoli contemporaneamente possono subire un elevato livello di stress quando tali ruoli sono conflittuali. Esercitare violenza estrema, uccidere una gran quantità di nemici, provocare dolore e sofferenza nel prossimo (pur se in
battaglia), che sono prerogative abituali di un guerriero, mal si sposano con l’essere caritatevole e con l’esercizio del perdono, capisaldi di un monaco e, in generale, della religione cattolica.

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Riuscivano quindi i Templari (in quanto monaci) a neutralizzare i sensi di colpa collegati all’uccisione di persone e all’interiorizzazione della violenza? E questo doppio ruolo può avere influenzato anche le loro reazioni psicologiche nel corso della loro vicenda giudiziaria? Questo status “atipico” può averli resi psicologicamente più
resilienti o viceversa può avere acuito la frustrazione e la percezione dell’ingiustizia nei loro confronti?

Come scrive Simonetta Cerrini: “chi può dire di conoscere veramente i templari?” E noi aggiungiamo, chi può conoscere quello che è passato nella loro mente nella parte finale della loro storia quando da una condizione di potere e di prestigio da tutti riconosciuta
si sono trovati nel giro di pochi giorni essere invece considerati come rappresentanti di devianza e di peccato?

Certamente i Templari fin dalla nascita del loro ordine erano, così come anche sottolineato dalla Cerrini, considerati per certi versi dei rivoluzionari. Portatori di una rivoluzione
spirituale e di un nuovo modo di essere cristiani considerando compatibile la figura del monaco e quella del guerriero nello stesso uomo. Ma era di fatto una rivoluzione portata avanti con il consenso delle più alte sfere della Chiesa e quindi una anomala, e forse per certi versi anche contraddittoria, “rivoluzione” appoggiata dal potere dell’epoca.

Quegli uomini sapevano di essere portatori di istanze filosofiche e spirituali difformi dal resto dei praticanti la religione cattolica ma allo stesso tempo ritenevano che tale
difformità nelle loro condotte fosse in qualche modo funzionale alla tutela della Chiesa e che quindi sarebbe stata nei secoli una difformità “benvoluta” dal potere papale e politico.

La storia ci insegna che però si sbagliavano ed il “Processus contra Templarios” ha rappresentato per i monaci guerrieri un vero e proprio “schiaffo” psicologico oltre che politico, che nel giro di pochi anni li ha condotti ad essere vittime di un meccanismo che fino a poco tempo prima li vedeva altresì come collocati in posizione di vertice se non
addirittura come potenti gestori. Moltissimi Templari sono stati incarcerati.

Come ha affermato Goffman, gli istituti penitenziari di ogni epoca sono, in generale, “istituzioni totali” in cui i valori sociali del mondo libero sono completamente capovolti. L’atmosfera che vi si respira è satura di coercizione disciplinare, di ansia e di lotta e così solo pochi detenuti riescono a riemergere dall’ambiente carcerario completamente indenni. E Goffman, ovviamente, si riferiva a istituti penitenziari dell’Europa contemporanea e
non alle condizioni di detenzione assai peggiori e spesso arbitrarie che venivano applicate in passato e che quindi hanno subito i Cavalieri Templari.

Immaginare lo scenario della carcerazione medievale ci induce a elevare all’ennesima potenza la sofferenza e le privazioni. Le prigioni erano frequentemente ricavate nei sotterranei o nel maschio del castello, luoghi spesso freddi e scarsamente illuminati, sporchi e infestati dai topi. E le ricerche svolte dagli Autori di questo articolo nei luoghi francesi dove i Cavalieri del Tempio sono stati detenuti hanno decisamente confermato tale
regola.

La capacità di resilienza psicologica dei Templari, già messa a dura prova dal trauma dell’arresto inaspettato e dal senso di ingiustizia percepito, è stata quindi certamente poi ulteriormente minata dalla vita da detenuto (per alcuni di loro durata diversi anni), dai maltrattamenti, dalle angherie oltre che, ovviamente, dagli interrogatori e dalle torture subite in quei luoghi. E’ così ragionevole ipotizzare che nelle fasi finali della loro
“persecuzione” e racchiusi da tempo nelle prigioni, i Templari fossero divenuti solo un lontano ricordo di quelli che erano considerati tra i guerrieri più fieri e temibili del mondo occidentale medievale.

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Lo stato d’animo di questi prigionieri è ben illustrato e deducibile anche dai messaggi lasciati sotto forma di graffiti sulle pareti delle prigioni, non solamente quelle parigine.

Ad esempio nel castello di Chinon (Anjou), dove vennero reclusi il maestro generale Jacques de Molay e altri dignitari dell’Ordine, gli Autori del presente articolo hanno svolto delle ricerche accurate e hanno potuto osservare ed analizzare a fondo tali messaggi da cui trasuda ansia e disperazione. Molti di coloro che studiano la storia dei Templari si
appassionano delle loro gesta militari in Terrasanta, della loro organizzazione in Europa, delle loro ricchezze e del loro rigore spirituale ma difficilmente si interrogano su ciò che deve ragionevolmente essere passato per la testa di quei Cavalieri nel periodo in cui l’Ordine del Tempio è caduto e sono iniziati gli arresti, le torture e, alla fine, sono giunte le esecuzioni.

Ed è quello che invece si sono chiesti gli autori di questo articolo. Tre autori molto diversi tra loro: uno Psicologo e criminologo (Marco Strano), un Avvocato Penalista ed esperto di fortificazioni medievali (Simone De Fraja) e uno studente universitario di storia da sempre appassionato di Templari (Diego Volpe). Accumunati però da un’idea ambiziosa: tornare indietro nel tempo e raccontare una serie di accadimenti drammatici vissuti “in soggettiva” da coloro che li hanno subiti.

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Entrare nella mente di una persona, conoscere i suoi pensieri e le sue emozioni, non è però cosa agevole. Ed è cosa ancor meno agevole se quella persona è vissuta più di
settecento anni fa, immersa in una cultura e in una organizzazione sociale
completamente diverse da quelle attuali. In un libro in corso di
pubblicazione i tre autori cercheranno di approfondire questa tematica e di
dare delle risposte a questi intriganti interrogativi.

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