E’ la caratteristica più importante dell’Homo Sapiens Sapiens anche se la nostra non è l’unica specie che la possiede. Quel misterioso impasto tra memoria del passato, plasticità del presente ed anticipazione del futuro è ancora da decifrare compiutamente. Già definirla è un’avventura piuttosto complicata.
Se la sintetizziamo come la capacità di percepire sensorialmente l’ambiente, di processarne le informazioni e mantenerle in serbo per future evenienze, l’intelligenza non è una prerogativa esclusivamente umana. Primati e mammiferi (e non soltanto loro) la possiedono.
L’evoluzione umana, dal genere Homo (2 milioni e mezzo di anni fa) alla specie sapiens (200mila), fino alla sottospecie sapiens sapiens (50mila), ha progressivamente incrementato l’intelligenza permettendoci di sviluppare il linguaggio e la scrittura, la creatività e le capacità tecnologiche ma anche lo sviluppo di forme associative e relazioni complesse e sofisticate.
C’è chi teorizza l’esistenza di più categorie di intelligenza come ad esempio Daniel Goleman ed il suo concetto di “intelligenza emotiva” teorizzata nell’omonimo libro del 1995, nel quale Goleman afferma, tra l’altro, che la conoscenza di sé, la persistenza e l’empatia sono elementi che nascono dall’intelligenza umana, e sono quelli che probabilmente influenzano maggiormente la vita dell’uomo. Spesso queste capacità, che vanno a costituire l’intelligenza emozionale, erano sottovalutate, ignorate o non considerate come elemento rilevante nel computo del noto ma adesso fortemente messo in discussione quoziente d’intelligenza (QI).
Howard Gardner, psicologo e docente statunitense, afferma che ci sono almeno nove diverse tipologie di intelligenza: naturalista, musicale, logico-matematica, interpersonale (che corrisponde a quella emotiva), intrapersonale (il rapporto con se stessi), linguistica, esistenziale, corporea e spaziale.
Nonostante che questa incredibile capacità ha permesso all’Homo Sapiens Sapiens di affermarsi come specie dominante del pianeta l’intelligenza inserita nel nostro genoma è rimasta pressocché invariata nel corso degli ultimi 50.000 anni. Tuttavia è sotto gli occhi di tutti come da raccoglitori-cacciatori che utilizzavano utensili di selce agli uomini di oggi che volano nello spazio, progettano l’Intelligenza Artificiale ed elaborano una cultura complessa e ramificata ci sia un vero e proprio abisso.
Il rebus sulla vera natura dell’intelligenza è stato ben ingarbugliato da decenni di aspri dibattiti scientifici ed ideologici. Per molto tempo si è associato il concetto di intelligenza esclusivamente al talento che per definizione è un “dono” che si ha oppure no. Un’idea di intelligenza statica che si è rafforzata all’inizio dello scorso secolo con l’avvento del test per misurare il quoziente intellettivo (QI).
In realtà le intenzioni dello psicologo italo-francese Alfred Binet, nato Alfredo Binetti (1857-1911) che lo mise a punto era diametralmente opposto all’interpretazione che successivamente fu data a questo strumento. Quando Binet nel 1904 sperimentò per primo il test QI nelle scuole francesi, la sua intenzione era quella di insegnare agli insegnanti come aiutare i giovani cervelli in difficoltà a imparare di più e meglio.
Ad un secolo di quel primo esperimento sociale abbiamo la certezza che l’intelligenza non è affatto una qualità statica. Una riprova ci perviene dagli studi che James R. Flynn (1934), uno scienziato neozelandese, pubblicò nel 1998. Flynn constatò a seguito della valutazione delle serie storiche di paesi (più di una ventina) per i quali si disponeva di dati affidabili come, nel corso degli anni, il valore del quoziente intellettivo fosse aumentato in modo progressivo, con una crescita media di circa 3 punti per ogni decennio. La popolazione statunitense, ad esempio, ha guadagnato più di 13 punti dal 1938 al 1984. Siccome il patrimonio genetico cambia soltanto attraverso periodi lunghissimi di tempo è evidente che questo incremento è strettamente legato allo sviluppo culturale dell’essere umano.
Se una volta si considerava l’intelligenza come una qualità statica ed immutabile oggi sappiamo invece che non soltanto non lo è ma che se una persona ritiene che l’intelligenza sia un prodotto monolitico del destino, può diventare vittima della “minaccia dello stereotipo”, ovvero confermare involontariamente leggende sull’inferiorità intellettuale di una razza, di una classe sociale o di un genere.
Gli studi di Carol Dweck, psicologa americana, hanno dimostrato che se i bambini vengono incoraggiati verso una transizione ad una “mentalità orientata alla crescita” (growth mindset), i risultati educativi possono essere sorprendenti. Utilizzando una serie di strumenti psicologici fra i quali una sistema di valutazione che non si basa sul paradigma insufficiente/sufficiente bensì su “ce l’hai fatta”/“ non ancora”, si favorisce un approccio dinamico all’apprendimento. Così il cervello diventa più intelligente e soprattutto crede di poterlo diventare.
Quali sono i limiti dell’intelligenza, se mai esistono? Alcuni studiosi teorizzano che la prossima frontiera sia una combinazione tra l’intelligenza biologica e quella digitale. Anche la data di questo possibile passaggio epocale è prevista: il 2050.
Non ci resta che attendere fiduciosi…