Il processo delle polverine: come la scienza evitò un errore giudiziario

Massimo Massai fu arrestato. Al processo, che fu subito detto "Il Processo delle polverine", inutilmente i suoi avvocati difensori richiesero una perizia di parte...

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Quando Dolores Macor morì, nel dicembre 1948, nessuno a Prato si meravigliò: la donna era malata da molto tempo, ormai costretta a letto, e la sua fine per quanto repentina non era del tutto inaspettata. Il vedovo Massimo Massai, dal canto suo, non perse tempo: solo dieci giorni dopo sposò la sua amante, una vedova di guerra giovane e bella con la quale ormai da anni aveva una relazione.
Le malelingue, ovviamente, si scatenarono; ma la cosa stava già cominciando a finire nel dimenticatoio quando, improvvisamente, la magistratura ordinò che la salma della Macor venisse riesumata.
Che cosa era successo?
Un esposto contenente gravi accuse era stato presentato dalla sorella di Dolores, Carmen, che abitava a Milano ed aveva sempre intrattenuto con Dolores una fitta corrispondenza.
Carmen consegnò alla polizia alcune lettere, in cui la sorella scriveva frasi come “Mi sta facendo qualcosa che mi fa struggere piano piano come una candela” riferendosi ovviamente al marito, ed altro ancora. Questo, unitamente alla fretta di Massai nel risposarsi, fece ordinare la riesumazione della salma e l’autopsia. Il referto medico relativo alla morte della donna parlava di polmonite: l’esame dei visceri, invece, riscontrò la presenza di ben quattro grammi di arsenico.
Massimo Massai fu arrestato. Al processo, che fu subito detto “Il Processo delle polverine”, inutilmente i suoi avvocati difensori richiesero una perizia di parte, sostenendo la tesi che Dolores avesse ingerito dosi elevate dei medicinali contenenti arseno-benzoli (all’epoca utilizzati per curare alcune infezioni) che le erano stati prescritti, per errore o nel tentativo di suicidarsi; quando videro che la causa era perduta ripiegarono sulla seminfermità di mente, tesi che fu accettata e che fece condannare Massai a vent’anni di reclusione.
I difensori si resero conto che solo la scienza poteva dimostrare che il veleno assorbito da Dolores non le era stato propinato dal marito ma fosse quello contenuto nelle medicine che la donna prendeva da anni, e affidarono il compito di studiare il problema al professor Pietro Di Mattei, docente di farmacologia all’università di Roma.
Il professore scrisse subito una relazione nella quale faceva osservare che l’arsenico non viene assorbito in uguale misura da tutti i visceri ma ha le sue sedi elettive, cioè i reni, le capsule surrenali, il fegato, le unghie e i capelli; considerati soltanto questi visceri si poteva concludere che la dose rintracciata rimaneva di diciassette centigrammi, sufficiente comunque ad uccidere.
Ma Dolores come poteva aver ricevuto questo veleno?
La necroscopia aveva stabilito che tutto il tubo digerente e anche gli intestini non presentavano le caratteristiche lesioni provocate dall’arsenico: era quindi evidente che il veleno non era stato ingerito per bocca, e questo rendeva più probabile che fosse penetrato attraverso le iniezioni a base di arseno-benzoli ordinate dai medici.
Il punto decisivo della relazione di Di Mattei riguardava la “tesaurosi dell’arsenico”. La letteratura medica del tempo sosteneva che l’arsenico viene eliminato dal corpo umano in un breve periodo. Il professor Di Mattei affermava invece che l’arsenico va a depositarsi nei visceri e vi si accumula.
Agli avvocati difensori sembrò di avere in mano un’arma formidabile e si presentarono fiduciosi al processo d’appello che si svolse a Perugia nel 1953.
I giudici rimasero perplessi e ordinarono una superperizia la quale si concluse con un dubbio drammatico: “L’arsenico nei visceri di Dolores Macor c’è,” dissero i periti, “d’altra parte mancano nella morte di questa donna tutti i sintomi di avvelenamento per arsenico. L’unica spiegazione potrebbe essere data da un accumulo di arsenico nei visceri ma questo non è ancora stato provato dall’esperienza clinica”.
E i giudici, nel dubbio, confermarono la condanna a vent’anni.
Dal giorno in cui venne pronunciata la sentenza il professor Di Mattei non ebbe più pace: sentiva che attraverso la sua teoria molte persone, e non soltanto il Massai, avrebbero potuto aver salva la vita: non riusciva a convincersi che un uomo venisse condannato al carcere per un errore scientifico.
Ebbe allora un’idea geniale: essendo presidente dell’Accademia Medica di Roma indisse un dibattito tra alcuni scienziati italiani sulla “tesaurosi dei farmaci” e in particolare dell’arsenico, sulla capacità cioè che certi farmaci hanno di depositarsi nel corpo umano per lunghissimi periodi. Alla seduta partecipavano i più noti medici italiani, quali Frugoni, Tommasi, Antonelli; ed ecco venir fuori, una per una, prove formidabili per i giudici del processo Massai.
“Una donna di 50 anni era stata ricoverata con sintomi di cirrosi epatica ed avvelenamento cronico da arsenico. Quattordici anni prima aveva fatto cure regolari di liquore arsenicale”.
“Una donna recava tracce di arsenico nei capelli dopo tredici anni che aveva fatto una cura a base di arseno-benzoli”.
Gli avvocati ricorsero in Cassazione e la suprema Corte decise che il processo dovesse essere rifatto alla Corte d’Assise di Roma.
Nel febbraio 1955, dopo sei anni di carcere, Massimo Massai fu finalmente assolto.

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