Sappiamo che la disuguaglianza nel mondo cresce ininterrottamente dall’avvento della globalizzazione. In economia, per misurare la disuguaglianza di una distribuzione (reddito o ricchezza) si utilizza il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini (1884-1965). I valori Gini vanno da 0 a 100 (alcuni utilizzano la scala da 0 a 1), dove 0 è l’assenza totale di disuguaglianza e 100 il valore massimo di iniqua distribuzione della ricchezza.
Il valore Gini globale di poco inferiore a 70 punti è di gran lunga maggiore dei valori Gini nazionali, persino nei paesi con maggior disuguaglianza al mondo come il Sudafrica o la Colombia. Quando le differenze di reddito sono molto sensibili, allora il reddito di un individuo dipende essenzialmente da un fattore del tutto casuale, ovvero in che paese vive, o meglio in che paese è nato, visto che la popolazione mondiale per circa il 97% risiede nel paese di nascita.
Il “premio di cittadinanza” costituisce di fatto una rendita caratterizzandosi, come afferma John Roemer (2000), come una circostanza esogena ovvero indipendente da qualsiasi sforzo individuale e fondamentalmente basata su una vera e propria “lotteria esistenziale”, nella quale la fortuna gioca un ruolo decisivo.
Quanto è grande questo “premio di cittadinanza”? Secondo uno studio del 2015 di Branko Milanovic, probabilmente il maggior esperto di disuguaglianza del mondo, già ricercatore capo della Banca Mondiale, questa rendita di cittadinanza è davvero cospicua. Utilizzando le indagini condotte sulle famiglie in 118 diversi paesi nel 2008 e prendendo come base il Congo, il paese più povero del mondo, si evince che il premio nazionale medio in termini di reddito per chi nasce negli Stati Uniti è di 9.200 volte più alto di quello del Congo; per chi nasce in Svezia 7.100, per un brasiliano 1.300 mentre per una persona che nasce in Yemen è soltanto di 300.
Molto del nostro reddito dipende dal paese dove siamo nati. Il premio di cittadinanza così calcolato è un premio medio, paese per paese e riguardante tutti i cittadini.
Se analizziamo bene i dati, però, facciamo un’altra interessante scoperta: questa rendita varia in base alla distribuzione del reddito. Analizzando soltanto gli strati più bassi o più ricchi della distribuzione, ci rendiamo conto di alcune interessanti risultanze. Se prendiamo in considerazione i redditi più bassi svedesi,scopriamo infatti che il premio di cittadinanza (rispetto alla nostra base, il Congo) sale a 10.400 contro i 7.100 della media considerando tutte le fasce di reddito, mentre quello del Brasile è “soltanto” di 900 contro i 1300 della media generale.
In altre parole lo svedese povero se la cava molto meglio di un congolese povero, rispetto a come se la passa uno svedese “medio” rispetto all’omonimo congolese. Questo non vale invece, come abbiamo visto, per il Brasile.
Per i redditi più alti la situazione è diversa, se esaminiamo il 90mo percentile della distribuzione del reddito la differenza tra Svezia e Congo è “soltanto” di 4700 (invece che 7.100), mentre quella del Brasile è pari a 1700. Questa rendita, che ognuno di noi si è trovato senza particolare merito e per l’imponderabilità del caso per il solo fatto di essere nati nella parte più ricca del mondo, ha evidenti implicazioni nei fenomeni migratori.
Un individuo residente nei paesi più poveri ha la possibilità di raddoppiare, triplicare ed a volte perfino decuplicare il proprio reddito, per il solo fatto di trasferirsi in un paese ricco. E per l’analisi sommariamente fatta nelle righe precedenti al migrante converrà, esclusivamente su presupposti economici, trasferirsi in paesi ricchi con un tasso di diseguaglianza più basso.
Nel nostro esempio, il migrante dovrebbe scegliere la Svezia anziché gli Stati Uniti, visto che i poveri svedesi se la passano decisamente meglio dei poveri del loro paese d’origine.
Inoltre avere un welfare esteso ed universale attrae flussi di migranti meno qualificati e quindi potenzialmente più onerosi per il paese di accoglienza. Paesi più diseguali ma con una forte mobilità sociale, come gli Stati Uniti, a parità di presupposti tenderanno ad attrarre potenzialmente migranti più qualificati che sperano in una scalata sociale più facile.
Questo è stata certamente la molla attrattiva degli Usa nel Diciannovesimo ed in gran parte del Ventesimo secolo, anche se in base ad uno studio di qualche anno fa la mobilità intergenerazionale è adesso più bassa negli Stati Uniti che nell’Europa del Nord (Corak, 2013).